Prologo

Piana del Sentino, 290 a.C.

A circa quattro miglia di distanza due eserciti si fronteggiavano in silenzio aspettando l'inizio del giorno.

Taros si sistemò meglio sul capo l'elmo dalla tesa larga, un cimelio di famiglia che testimoniava le sue ascendenze picene: vicino a lui i suoi commilitoni borbottavano qualche preghiera a Mamerte e a Pico, i numi tutelari del loro popolo. Taros stesso era molto superstizioso, tuttavia credeva che ormai l'esito di quello scontro dipendesse soprattutto dagli uomini che l'avrebbero combattuto: gli dei erano già stati invocati con riti e sacrifici da entrambe le parti del campo di battaglia, ma non avevano garantito il loro favore a nessuno dei popoli accorsi per combattere.
Il guerriero poteva fiutare nell'aria l'eccitazione malata che precedeva un massacro e storse le labbra al pensiero della moglie che lo attendeva a casa e della figlia ancora piccola, che si era arrabbiata quando aveva compreso che non l'avrebbe portata con sé. A soli sette anni Nipias era la creatura più feroce e testarda che avesse mai conosciuto e Taros l'adorava per questo: era soprattutto per lei che voleva sopravvivere a quella battaglia.
Strinse la presa sulla lancia mentre scandagliava con lo sguardo le linee nemiche: i Piceni e i Romani erano in evidente svantaggio numerico, anche se una parte dell'esercito avversario era stata inviata a proteggere Chiusi assediata.

"Mai avrei pensato di vedere Etruschi, Sanniti e Senoni combattere fianco a fianco!" si disse. "Eppure l'odio comune per Roma li ha convinti a dimenticare le dispute passate e a marciare contro di noi!"

I Piceni erano stati gli unici a rifiutarsi di rompere i patti di alleanza con Roma ed erano partiti dalle loro città per affiancare l'esercito di Quinto Fabio e Decio Mure, due generali dalla tempra straordinaria.
Il primo era un uomo ancora giovane, di bell'aspetto e dal carisma naturale; il secondo, invece, aveva già superato i quarant'anni, discendeva da un'antica famiglia romana e teneva in gran conto le antiche tradizioni. Il primo raggio di sole squarciò le nubi, proiettando una pallida luce sulla piana che divideva i due schieramenti, e l'equilibrio si ruppe: al ritmo dei tamburi e dei calzari sulla terra battuta i soldati iniziarono a marciare lanciando alte grida di guerra che quasi sovrastavano gli ordini dei comandanti.
Taros, che era stato assegnato alla fanteria sotto il comando di Decio Mure e nei suoi trent'anni aveva combattuto già diverse guerre, si avvide subito che qualcosa non andava:
"L'ala destra rimane indietro! Se non fermiamo la nostra avanzata precipitosa ci troveremo circondati!"

Poi si trovò assediato dai nemici e ogni pensiero razionale scomparve, lasciando posto all'istinto che lo portava ad affondare la lancia nei punti deboli delle armature dei Sanniti, parando i loro colpi con lo scudo rotondo. Gli uomini morivano a decine, falciati dalla ferocia dei nemici che li impegnavano in un corpo a corpo sfiancante e cercavano di isolare le legioni di Decio Mure dal resto dell'esercito; se ci fossero riusciti, pensò il guerriero, per loro sarebbe stata la fine. Anche la cavalleria romana era in difficoltà: le linee serrate dei Sanniti si erano aperte per rivelare straordinari carri da guerra che travolgevano ogni soldato che incontrassero sul loro cammino.
Ad un tratto Taros ne vide uno, trainato da un paio di cavalli bianchi e focosi, puntare verso un giovane legionario romano, che impegnato a difendersi dai colpi di un etrusco dalla barba scura non si accorse del pericolo incombente. Il Piceno agì senza riflettere, buttandosi sulla traiettoria del carro e spingendo via il ragazzo prima che venisse travolto: per un istante temette di non essere stato abbastanza veloce e pensò che sarebbero stati entrambi massacrati dagli zoccoli dei cavalli... Invece il carro li sfiorò e proseguì la sua corsa, venendo inghiottito dalla confusione della battaglia.

Ancora steso sul terreno bagnato da troppo sangue, Taros inspirò a fondo e ringraziò con fervore Pico e Mamerte per averlo protetto.
Poi lanciò un'occhiata al soldato a cui aveva appena salvato la vita: l'elmo gli era scivolato via dal capo, rivelando un volto fanciullesco incorniciato da disordinati riccioli neri e due grandi iridi nocciola, brillanti come oro fuso. Le labbra sottili erano socchiuse in un'espressione che racchiudeva terrore, sorpresa e un'infinita gratitudine: aveva l'aria di un cucciolo spaurito e Taros ne fu impietosito, perciò lo prese per un braccio e lo trascinò lontano dalla mischia più cruenta, nascondendosi dietro una possente quercia.

«Stai bene, ragazzo?» domandò, scrollandolo per le spalle.

«Io...» balbettò quello, stringendo spasmodicamente il ciondolo che teneva al collo, alla ricerca di un misero conforto davanti alla violenza della guerra.
«Sì, sto bene. Grazie a te!»

Un sorriso obliquo rese più giovane il volto del Piceno:
«Solo fortuna, ragazzo, e un piccolo aiuto da parte degli dei!»

«Come potrò mai ripagarti?»

Era mortalmente serio mentre pronunciava quelle parole e nei suoi occhi balenò una luce nuova, più matura; Taros, che stava per abbandonarlo al suo destino e tornare a combattere, si fermò.
«Qual è il tuo nome?»

Il ragazzo raddrizzò le spalle e gonfiò il petto come un pavone:
«Marco Aurelio Quadrato!»

«Mah, non capirò mai perché voi Romani abbiate bisogno di così tanti nomi!» ridacchiò Taros tra i denti. «Ti chiamerò Marco. Stammi vicino, ragazzo, e vedrai che ne usciremo vivi... Poi, se proprio vuoi, parleremo del debito che credi di avere nei miei confronti!»

Marco annuì vigorosamente e afferrò la spada con entrambe le mani, seguendo da vicino il guerriero più esperto. Appena uscirono dal riparto offerto dall'albero, però, si bloccarono inorriditi: l'ala sinistra dell'esercito romano era stata spazzata via e sparuti gruppi di soldati cercavano di battere in ritirata, sopraffatti e incalzati dai nemici.
E fu allora, quando tutto sembrava perduto, che Decio Mure in persona, abbandonato il cavallo, l'armatura e le armi, si diresse a piedi verso il nemico, offrendo il petto alle spade degli Etruschi e dei Senoni.

«Per tutti gli dei infernali...» sibilò Taros, perplesso. «Cosa crede di fare?»

Quel soldato dal corpo sfregiato e modellato da mille battaglie aveva la stessa espressione – rassegnata e fiera al tempo stesso – di un toro che veniva condotto al sacrificio. Lo videro scomparire sotto l'assalto dei nemici ansiosi di bagnarsi nel suo sangue, ma quella morte apparentemente assurda sembrò risvegliare la furia dei Romani.
Anche coloro che avevano scelto la fuga tornarono sui loro passi, i volti accesi da una rabbia folle, stringendo le fila e marciando compatti verso il punto in cui Decio Mure era caduto, decisi a raccogliere il suo corpo.

«Andiamo!» esclamò Marco, correndo verso i suoi commilitoni.

Ancora molto turbato dall'atmosfera mistica che era scesa per qualche istante sul campo di battaglia, Taros lo seguì, deciso a mantenere in vita quel ragazzino entusiasta e troppo avventato.

Molte ore più tardi, quando la notte era scesa da tempo a nascondere gli orrori di quella giornata campale e grandi fuochi bruciavano sulla piana del Sentino per festeggiare la vittoria dei Romani, Taros si ritrovò a bere insieme a Marco un vino denso e scuro che bruciava la gola.
"Esattamente quello che serve dopo uno scontro del genere!" pensò, passando la bottiglia al giovane amico.
Sembrava incredibile che fosse riuscito a sopravvivere, con quel corpo magro e gracile e l'avventatezza con cui si era gettato più volte incontro agli avversari; invece aveva rimediato solo un graffio superficiale sul mento, che aveva già smesso di sanguinare.
Erano entrambi esausti, ma le emozioni del giorno non li lasciavano ancora riposare.

«Cosa farai ora, Taros?» mormorò Marco dopo un po', osservando assorto la tenda in cui era stato portato il corpo di Decio Mure: il suo sacrificio era risultato decisivo per la vittoria finale e il corpo sarebbe stato trasportato a Roma con tutti gli onori.

Il Piceno si strinse nelle spalle:
«Tornerò a casa. Ho una fattoria vicino Ascoli: non è grande, ma mi permette di mantenere la mia famiglia.»

«Hai figli?»

«Una, Nipias.»
La sua voce si fece più morbida e dolce nel parlare della sua bambina.
«Ha la metà dei tuoi anni, ma è già forte e testarda come me, e bella come sua madre!»

«Sei fortunato!» commentò il ragazzo con un sorriso, giocherellando con la sua collana.
Alla luce delle fiamme Taros capì che quello che aveva scambiato per un ciondolo in realtà era una moneta di bronzo, con un foro al centro in cui era stato infilato un laccio di cuoio. Marco sembrava esservi particolarmente affezionato.

«E tu? Anche tu tornerai a Roma, immagino?»

L'altro scosse la testa:
«Non lo so: ho intenzione di continuare a servire l'esercito, quindi potrebbero mandarmi in Etruria, o in Sabinia, per sedare le ultime rivolte...»

Taros grugnì:
«Il tuo popolo non si stanca mai delle guerre, vero? Faresti bene a tornare a casa dalla tua famiglia, ragazzo!»

«Non ne ho più una» replicò Marco, a voce così bassa che il Piceno faticò a udirlo.
Cadde il silenzio, rotto solo dai canti festosi dei soldati e dal crepitio del legno che bruciava.

Alla fine, Taros si stese sul terreno:
«Beh, io credo che tenterò di dormire: domani mi attende un lungo viaggio di ritorno! Cerca di restare vivo, Marco Aurelio Quadrato: mi dispiacerebbe averti salvato la pelle oggi per lasciarti morire domani!»

Marco rise:
«Puoi contarci, Taros. E sappi che quando avrai bisogno del mio aiuto, che sia domani o tra vent'anni, lo avrai!»

«Parola di Romano?»

«Parola di Romano.»

L'ultima storia che ho scritto sui Piceni inizia in grande 😝

La cosa più sorprendente di questo capitolo — che poi è anche uno dei motivi per cui mi piace scrivere di Storia — è che con l'eccezione di Taros e Marco tutto ciò che ho scritto è realmente accaduto!

La battaglia del Sentino è conosciuta con un nome altisonante: è "la battaglia delle Nazioni dell'antichità".
Perché in effetti vi presero parte tutti quei popoli italici che ancora non erano caduti nell'orbita romana: gli Etruschi, il cui territorio era lentamente eroso da Roma, i Sanniti, che avevano combattuto con i Romani già altre due guerre (questo episodio si inserisce infatti nella terza guerra sannitica), i Galli Senoni che avete già incontrato nella storia precedente... E i Piceni, ovviamente, che da questa battaglia avevano tutto da guadagnare, visto che i Senoni furono praticamente spazzati via.

Tuttavia, come vedremo, le conseguenze non furono del tutto positive per questo popolo, l'unico che aveva deciso di rimanere fedele ai patti stretti con Roma.

Ho citato anche la città di Chiudi perché nello stesso momento lì si combatteva un'altra battaglia decisiva per la schiacciante vittoria romana.

Lasciatemi spiegare lo strano comportamento di Decio Mure: a differenza dell'altro generale, che voleva sfiancare il nemico prima di attaccarlo con tutte le sue forze, lui impiegò subito anche la cavalleria. E quando vide che i carri da guerra sanniti stavano decimando le sue truppe, compì un rito agli dei, come aveva già fatto suo padre, e si immolò per garantire a Roma la vittoria. È uno di quei casi in cui la Storia supera (e di gran lunga) la fantasia 😂😍

E dopo queste note chilometriche passo e chiudo, sperando che il prologo sia di vostro gradimento!

Enjoy ❤️

Crilu

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