Capitolo III

Marco si era trovato vicino alla morte troppe volte per non riconoscerne l'odore: quel tanfo dolciastro appestava l'aria della piccola stanza avvolta nella semioscurità e gli suscitò un istintivo disgusto.
Dovette strizzare gli occhi per individuare la scarna figura del vecchio steso tra le coperte e faticò a conciliare quell'immagine con il ricordo di Taros che serbava nella mente: l'unica traccia del robusto guerriero che aveva tenuto testa senza esitare a Senoni ed Etruschi era lo scintillio deciso delle iridi verdi.

«Deianna diceva il vero. Sei venuto!» mormorò con voce rotta dalla commozione.

Il ragazzo, incerto se avvicinarsi ancora o rimanere sulla soglia, si sforzò di sorridere, anche se Taros non poteva vederlo.
«Ti avevo dato la mia parola. Noi Romani tendiamo a essere particolarmente testardi su certe questioni!»

«Me lo ricordo, per questo mi sono rivolto a te!»

Il sorriso sparì dal viso di Marco:
«Taros, io non credo di essere in grado di aiutarti. La guerra...»

«Oh, la guerra!» sbuffò il Piceno con un guizzo di vitalità. «Rammenti cosa ti dissi anni fa? Nessuna guerra sarà mai l'ultima, per il tuo popolo. Roma vuole sempre di più: vuole la gloria, vuole il potere, vuole l'immortalità. Ma tu... Tu cosa desideri, Marco Aurelio Quadrato?»

Il ragazzo rifletté sulla domanda, perplesso:
«Credo... Credo che sia questo ciò che desidero.»

«Davvero? Vuoi una vita macchiata di sangue? Un'interminabile fila di giorni che si dipana tra marce e battaglie?»

«È tutto ciò che conosco!» si difese, arrabbiato.
"Non sono venuto qui per farmi rimproverare come un bambino!"

«Già, questo è il problema...» mormorò il vecchio, dopo un lungo silenzio. «Di questi tempi è più facile imparare a conoscere la morte che la vita. Temo che mia figlia ti somigli molto, in questo: nessuno di voi due si è mai concesso la possibilità di assaporare ciò che il mondo ha da offrirvi...»
Marco stava per protestare, replicando che erano passati vent'anni dal loro ultimo incontro e che molte cose erano cambiate, poi tacque stordito: una parte di lui dovette riconoscere che Taros aveva detto la verità.

«Vieni!» esclamò a quel punto il vecchio, stringendo affannosamente la presa sulle coperte. «Avvicinati! Ecco, così... Fatti vedere...»
Tese le mani per sfiorargli i capelli disordinati, il volto dai lineamenti affilati, le larghe spalle: 
«Ma guarda, il ragazzo è davvero diventato un uomo!» disse, tornando ad accasciarsi sul letto con un sorriso stanco. «Tu saprai proteggerla meglio di quanto io abbia mai fatto, Marco. La mia bambina... La mia piccola Nipias...»

"Sta per accadere" pensò il ragazzo ed essendo abituato alle morti rapide e violente quella dipartita così quieta e silenziosa lo spaventò. D'istinto strinse tra le sue la fragile mano di Taros, che borbottava frasi sconnesse e respirava a fatica.

"Nessuno dovrebbe lasciare questo mondo in solitudine!" gli aveva detto suo padre una volta; e quando Marco era venuto a sapere che era spirato in sua assenza, quella frase lo aveva tormentato per anni.
In quel momento, però, mentre le membra dell'uomo si rilassavano sotto le coltri e il suo spirito scendeva sereno nell'Ade, gli sembrò che i rimorsi si fossero fatti meno pungenti.

Quando uscì dalla fattoria gli sembrò di essersi appena svegliato dopo uno strano sogno: aveva i sensi intorpiditi, la bocca secca e la mente confusa.
Vide che il sole era calato quasi del tutto e nelle campagne iniziavano già ad accendersi le luci dei primi focolari.
"Sarà difficile ritrovare la strada al buio e non me la sento di abbandonare qui il corpo di Taros. Forse dovrei chiedere ospitalità a quella donna..."

Fu distolto da un trillo acuto e da un allegro picchiettare: un picchio stava martellando con foga il tronco di un vecchio albero, ma si fermò nel sentirlo avvicinarsi. Piegò il capo di lato alla maniera degli uccelli e le piume verdi e nere delle ali fremettero mentre lo osservava con uno sguardo penetrante e intelligente.
Marco sapeva che per i Piceni quello era un animale sacro e abbozzò un sorriso sarcastico:
«Sei venuto a prendere l'anima del vecchio per condurla dai suoi antenati?»
Il picchio scosse la testa con sufficienza, facendolo sussultare.
"Dev'essere stato uno scherzo della mia immaginazione!"

Ma quando provò a voltargli le spalle, aggrottando la fronte nel tentativo di individuare la direzione da cui era arrivato, il picchio strillò di nuovo, lanciandosi su di lui, strattonandolo, graffiandogli una guancia con gli artigli. Marco rotolò a terra d'istinto con un sibilo irritato e una freccia gli sfiorò i capelli, andando a piantarsi nel terreno a poca distanza da lui.

«Ma che...?» biascicò, voltandosi verso il bosco appena in tempo per vedere qualcuno scomparire in mezzo agli arbusti.
«Ehi! Dove credi di andare?» urlò, scattando in piedi e lanciandosi all'inseguimento.

Era difficile non perdere di vista quella figura smilza che correva leggera tra gli alberi: la notte era scesa in fretta e il Romano incespicò più volte sul terreno accidentato. Da qualche parte risuonava ancora il canto allarmato del picchio, un suono che si confondeva con il battito del suo cuore e col ritmo accelerato del suo respiro.
Gli sembrò di correre per ore e quando finalmente riuscì ad afferrare il suo assalitore per le spalle e a buttarlo a terra, il suo corpo tremò per lo sforzo.
Fece appena in tempo a rendersi conto di stringere tra le braccia le forme morbide di una donna, poi un dolore lancinante al viso lo fece gemere: Nipias gli aveva appena ficcato le dita negli occhi con rabbia animale.

«Muori, Romano!» ringhiò la ragazza, tentando di spingergli una freccia tra le costole; ma Marco serrò le dita attorno al suo polso, fermando la punta in bronzo a un soffio dal suo petto.

«Non così in fretta!» mormorò in lingua picena, a metà tra il furioso e il divertito. «Nessuno ti ha insegnato come si uccide un uomo? No? Beh, tanto per cominciare...»
Si tirò in piedi con un sorriso beffardo, mantenendo salda la presa attorno ai suoi polsi:
«... Dovresti procurarti un vero coltello. Quella cosa che hai lì mi avrebbe causato parecchio dolore, ma nessun danno serio!»

Un lampo di sorpresa e confusione illuminò le iridi della ragazza, ma l'istante successivo lo stava di nuovo osservando con ostilità e sospetto.
Lui ricambiò l'occhiata e alla debole luce della luna appena sorta si ritrovò ad apprezzare gli occhi grandi e arcuati, verdi come le ombre della foresta, e la curva dolce delle labbra, appena più scura del resto della carnagione; sarebbe stata una vera bellezza, se i suoi lineamenti delicati non fossero stati sconvolti da un'evidente smorfia di puro odio.

«Vedrò di ricordarmene la prossima volta!» borbottò lei, mostrando i denti come un lupo. C'era un che di selvaggio nel suo portamento, un'aura indefinibile e sfuggente che rendeva impossibile toglierle gli occhi di dosso; suo malgrado, Marco si scoprì eccitato dalla sua vicinanza.

«Non ci sarà una prossima volta!» sbottò, severo, facendo un passo indietro senza lasciarla andare. «Tu vieni con me!»

Nipias puntò i piedi nel terreno alla maniera di un mulo bizzoso.
«Uccidimi ora, piuttosto! Non diventerò mai la puttana di un Romano!»

L'uomo si lasciò sfuggire un basso gemito di frustrazione:
«Per tutti gli dei, tra tutti i modi in cui Taros avrebbe potuto chiedermi di ripagare il mio debito...»

«Conosci mio padre?»

La voce della ragazza aveva perso gran parte della sua arroganza; notando il tremito del labbro inferiore e il modo in cui le sue spalle si erano incurvate, Marco si costrinse ad allentare la presa sui suoi polsi.
«Lo conoscevo, sì. Altrimenti perché sarei venuto a casa vostra?»

«Non mi interrogo sui secondi fini dei Romani!»

«Giusto!» sbuffò lui, esasperato. «Tu li uccidi e basta!»

Gli occhi di Nipias si assottigliarono in due linee sottili:
«Ti stai prendendo gioco di me?»

«No, sto tentando di aiutarti. Me l'ha chiesto tuo padre sul letto di morte e, fidati, questa è la miglior offerta di protezione che riceverai ora che lui non è più tra i vivi!»

«Non ho bisogno di protezione!» replicò subito la ragazza, ma era evidente che stava riflettendo sulle sue parole per capire se stesse mentendo o meno; quando girò il capo per osservarlo meglio il ragazzo notò la lunga cicatrice che scendeva da una tempia e le divideva a metà il sopracciglio sinistro.
"Sembra recente!" pensò, allarmato, sfiorando la ferita rossastra con le dita. Nipias sussultò e si ritrasse di scatto, quando una voce maschile risuonò alle sue spalle:
«Toglile le mani di dosso, bastardo!»

I muscoli del Romano si tesero quando Raetius e altri Piceni emersero dagli alberi con le lance puntate verso di lui: Nipias vide i suoi occhi dorati scurirsi mentre contava i nemici e si rendeva conto di essere in trappola. Avrebbe dovuto essere invasa da una sensazione di crudele trionfo e da una profonda gratitudine nei confronti dei suoi compagni, ma troppe domande si accavallavano nella sua mente:
"Ha detto la verità, è davvero qui per conto di mio padre? Perché avrebbe dovuto chiedere aiuto a lui, a un Romano? Certo io non gli ho lasciato molta scelta... E se solo fossi arrivata prima, ci sarei stata io al suo fianco mentre spirava, non questo sconosciuto!"
Quel pensiero era troppo doloroso e la ragazza si impose di scacciarlo, dato che l'aria nella radura si era fatta ancora più tesa e minacciosa con l'arrivo dei suoi compagni: avrebbe pianto Taros in seguito, quando non sarebbe stata impegnata a cercare di sciogliere l'enigma rappresentato dal Romano.
A muoverlo non era né la lussuria, né l'ira per il suo tentativo di ucciderlo, né l'arroganza tipica della sua gente: era un uomo dallo sguardo intelligente, lucido e Nipias non aveva dubbi sul fatto che anche in quel momento stava già approntando un piano per fuggire da quella rischiosa situazione.
"Resta da capire se voglia trascinarmi con sé o meno..."

Avrebbe potuto usarla facilmente come ostaggio, farsi scudo con il suo corpo e lasciare il bosco indisturbato; invece fece come gli era stato ordinato, lasciandole andare i polsi e voltandosi a fronteggiare Raetius. I due si squadrarono in silenzio per istanti che parvero dilatarsi, sospesi nel tempo: il corpo del Piceno, smagrito dalle privazioni e dagli scontri, era teso fino allo spasimo, mentre il Romano lo osservava con studiata indifferenza.
Nipias strinse i denti per l'irritazione: era sempre stata brava a giudicare le persone, ma in quell'occasione le era impossibile intuire i pensieri dello sconosciuto.
Le labbra seducenti di Raetius si schiusero in un ghigno divertito:
«Sei lontano dal tuo accampamento, Romano!»

Quello inclinò il capo e una ciocca di lucidi capelli neri gli scivolò davanti agli occhi.
«Ero in buona compagnia!» mormorò con un sorriso indolente e Nipias, suo malgrado, trattenne il fiato.

"Pazzo sconsiderato!"

Raetius aveva già sguainato la spada quando la ragazza udì la sua stessa voce ordinargli di fermarsi. Tutti gli uomini voltarono il capo verso di lei esterrefatti; anche il Romano la scrutava con perplessità.
Per lunghi istanti nella radura scese il silenzio, rotto solo dal mormorare antico e indifferente dei rami mossi dal vento. La corta spada di Raetius, ancora puntata contro la gola del nemico, era rimasta impigliata nella collana che Quadrato portava al collo; la monetina di bronzo che vi era infilata brillava come un tizzone ardente nella
penombra, dondolando a ogni respiro che avvicinava il petto del Romano alla lama affilata.

«Fermati!» ripeté lei, con voce più incerta sotto lo sguardo scuro di Raetius.

La rabbia dell'amico si stemperò in un'espressione confusa:
«Ma, Nipias... Ti avrebbe uccisa, o peggio! Lascia che lo ammazzi!»

La ragazza arricciò le labbra con sdegno:
«Se davvero volessi vendicarmi di quest'uomo lo farei da sola!» affermò, fremente di collera. «Ma non voglio. Non ha fatto nulla di male, perciò lasciatelo andare libero per la sua strada!»

Raetius continuava a fissarla assorto:
«Perché?»

Nipias sapeva che non si sarebbe accontentato di una scusa vaga.
«Mio padre lo conosceva e non vorrebbe questo...»

«Come fai a saperlo?»

Si sentì avvampare: sarebbe morta prima di ammettere di aver prestato ascolto alle parole di un Romano!
«È così e basta, Raetius! Ora andiamocene!»

I ribelli Piceni si ritirarono di malavoglia, ma il Romano non sembrava propenso ad andarsene.
«Tu devi venire con me!» ordinò, perentorio.

Nipias si voltò a guardarlo un'ultima volta, esasperata:
«Qual è il tuo nome?»

«Marco Aurelio Quadrato. Mi hai sentito, ragazza?»

La lingua le si attorcigliò nel pronunciare a bassa voce quei suoni sconosciuti:
«Ci rivedremo sul campo di battaglia, Quadrato. E per allora mi sarò procurata un coltello!»

Spero che il primo incontro tra Marco e Nipias vi piaccia — io mi sono sinceramente divertita a descriverlo 😂
Enjoy ❤️

Crilu

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