Capitolo 4
https://youtu.be/5JaoJa-iCSM
Un gran chiasso mi fa riaprire gli occhi. Sono sdraiata sulla mia tovaglia al parco e ho una folla di gente attorno chinata verso di me. Vedo un po' confuso, provo a concentrarmi e fissare lo sguardo verso la figura che ho più vicina... È una donna, mi sembra di riconoscerla. Giro il capo per vederla meglio e mi sfugge un lamento, la mia povera testa... La guardo e le sorrido confusa, provo a parlare, ma la voce non esce. Chiudo nuovamente gli occhi, tenerli aperti mi causa mal di testa. «Fatele spazio, così non respira!» qualcuno grida. «Cosa è successo?» chiedo in maniera confusa all'unico volto più vicino a me. «Qualcuno ti ha aggredita» mi risponde di getto lo sconosciuto. Aggredita? Io? E perché?
«Adele!» è la voce inconfondibilmente preoccupata di mio padre che sta per sommergermi di domande. «Papà, stai tranquillo! Sto bene» gli mento spudoratamente mentre sento qualcosa di liquido scivolare dalla tempia verso il mento. Al tatto sembra quasi denso. Sangue. «Qualcuno mi spieghi cosa è successo!» ordina mio padre alla folla confusa che inizia a dileguarsi alla vista di mio padre in divisa. Chi l'ha chiamato? «Ero seduta su una panchina non molto lontana da qui e ho sentito delle urla e un uomo vestito di nero e incappucciato correre poco dopo verso un'auto parcheggiata proprio lì.» Una vicina di casa nostra risponde alle sue domande indicando lo spazio colmo di auto di fronte al parco. «E quando sono arrivata la ragazza era a terra svenuta.» Mio padre la ascolta incredulo mentre osserva una pietra non molto grossa sporca di sangue gettata lì vicino e la mia ferita sulla fronte che sembra essere una fontana aperta. «Quando mi ha chiamato sono corso subito qui. Andiamo in ospedale e denunciamo il fatto» ordina con tono autoritario e mi aiuta ad alzarmi sostenendomi per un braccio. Non è il momento di oppormi, penso, e mi lascio trasportare come un ferito di guerra verso l'auto che non è quella di papà, non riesco a riconoscerla. Eppure è in divisa, dovrebbe essere con l'auto di servizio.
«Dottoressa De Lancia, sono molto dispiaciuto per l'accaduto, vi accompagno in ospedale.» La voce rassicurante del capitano Pellegrini mi coglie di sorpresa mentre salgo in auto ma sono troppo stordita per pensare a questo adesso. Più tardi tempesterò di domande mio padre. Non appena salita in auto inizia una corsa verso l'ospedale come se avesse un ferito in fin di vita sul sedile posteriore. «Capitano vada piano, non voglio che faccia un incidente per colpa mia» sussurro certa che ascolterà le mie parole. I due mi ignorano completamente, invece, mentre stanno già facendo diverse telefonate per acquisire le riprese delle telecamere del posto e delle strade vicine. Mi hanno aggredita senza motivo, non riesco a spiegarmelo. Non riesco a focalizzare la scena di quell'attimo, ricordo solo un uomo vestito di nero che si getta contro di me. «Siamo arrivati» annuncia il capitano mentre spegne il motore dell'auto davanti all'ospedale e si precipita dietro per aprire lo sportello. Mio padre mi aiuta ascendere mentre chiama un infermiere per aiutarlo. «Papà ti prego, non esagerare» gli chiedo supplicante mentre fa per avvicinarsi a me con la barella. «Adele De Lancia» non urla, ma il tono è quello dichi sta per scoppiare «siediti su questa barella e fatti fare i controlli necessari» ordina mentre mi affida all'infermiere di turno che mi conduce dentro il pronto soccorso.
Non è un ambiente che amo se non per l'idea dell'ospedale in sé. Ma mi piace l'odore di sterile, il rumore, l'atmosfera, la gente che corre qua e là cercando la stanza della propria persona cara che rivede dopo un importante intervento. Mi piace vedere gli abbracci, cogliere la strana commozione dei distacchi e dei ritrovamenti. Migliaia di storie si intrecciano senza toccarsi mai. L'ospedale è il posto ideale per osservare le persone e per rendersi conto di quanto sia sottile la linea che divide la vita dalla morte.
Ed io, distesa su quella barella, contemplo le luci che corrono veloci sopra di me mentre mi conducono alla stanza delle medicazioni e penso che devo essere fuori di qui entro sera, domani alle 8 ho l'autopsia.
«Signora De Lancia... cosa abbiamo qui?» chiede il medico di turno all'infermiere che si era già documentato con mio padre dell'accaduto mentre legge la mia cartella. «Lesione superficiale alla testa causata da una pietra, presumibilmente. Questa lesione potrebbe causare disturbi come una leggera emicrania, senso di stordimento o vertigini. Consiglio riposo e l'applicazione dighiaccio sulla parte colpita. Pulisco la ferita per evitare di contrarre infezioni» conclude soddisfatto il ragazzo, forse è un medico specializzando. «Bene» risponde il medico che finalmente stacca gli occhi dalla mia cartella e si concentra sulla mia ferita. «Ricorda cosa è successo?» mi chiede con il tono molto serio, impostato, educato ma neanche particolarmente cordiale caratteristico dei medici di pronto soccorso, e mi punta una piccola torcia negli occhi.
Spiego brevemente l'accaduto tenendo gli occhi chiusi, sono molto infastidita dalla luce. «Allora Adele, vediamo un po' come stai, riesci ad aprire gli occhi?» mi chiede ancora. Non poteva essere un medico giovane e carino? Apro gli occhi e una luce fastidiosa mi investe ancora, li richiudo e lui mi sgrida: «Signora deve sforzarsi di tenerli aperti, ho bisogno di controllare la reazione delle pupille.» Li riapro di nuovo e sopporto, sforzandomi, la luce della piccola torcia, che investe prima un occhio e poi l'altro. Riesco a seguire la luce a destra a sinistra, anche se vedo ancora sfocato. Si rivolge al ragazzo di poco fa che prende appunti, ma adesso ci sono anche altri medici in questa stanza. «Reazioni oculari nella norma. Reagisce alla luce in modo immediato. Non ci sono danni da segnalare sia dal punto di vista neurologico che sulla parte oculistica.» Certo che no, penso. «Pulisci e fascia questa ferita, qui ho finito» dice rivolgendosi all'infermiere che annuisce. Mi saluta con un cenno della mano e uscendo dalla stanza conclude: «prepara le dimissioni per stasera.» Menomale!
Aprendosi la porta riconosco la voce di mio padre fuori dalla stanza che ha già placcato il dottore per fargli il terzo grado. Lo specializzando completa la mia medicazione esta compilando il modulo delle dimissioni quando bussa qualcuno alla porta. «Avanti!» intima l'infermiere che sta raccogliendo le ultime informazioni prima di completare la documentazione. «Non vorrei disturbarvi, ma voglio solo accertarmi che la dottoressa De Lancia stia bene» la voce del capitano è sempre molto rassicurante e riesce a riportarmi al mondo reale quando sono per aria con i miei pensieri. «Grazie capitano, è stato molto premuroso e gentile e immagino che sia riuscito anche a calmare la follia di mio padre» sorrido mentre pronuncio queste parole e arrossisco, come se la botta mi abbia dato alla testa. «Calmarlo no» sorride anche lui per gentilezza, «ma l'ho rassicurato sul fatto che lo aiuterò a trovare chi le ha fatto questo.» Adesso è serio e mi guarda con occhi profondi mentre mi rassicura che troverà quest'uomo. «Stamattina parlavamo di come siamo stati intenti per anni a osservare i nostri padri per non dimenticarli...» commenta placido nel tono e continua «... senza pensare che anche loro ci osservassero per non dimenticare i nostri volti, le nostre espressioni se non fossero mai più tornati a casa. E oggi suo padre si è molto preoccupato che le fosse successo qualcosa di grave.»
Non avevo mai effettivamente pensato a questo. A come mio padre mi fotografasse spesso, sviluppasse subito quegli scatti e riempisse quello studio di mie foto da mostrare a tutti con orgoglio. «È mia figlia» diceva a tutti, come se fossi la cosa più bella della sua vita. E mi baciava la notte, quando smontava dal servizio troppo tardi ed io già dormivo, per non farmi mancare mai quell'affetto e quella presenza che, anche se molto silenziosa, era sempre presente nella mia vita.
«Adesso la lascio riposare ma tornerò a trovarla» mi dice mentre fa per alzarsi dalla sedia posta vicino al mio letto, interrompendo la mia riflessione. «Non sarà necessario» gli rispondo prima che esca dalla stanza «mi dimetteranno a breve» colgo l'occasione per annunciargli che mi sento bene. «Lo so» mi spiazza «verrò a trovarla a casa, infatti. A più tardi» e mi saluta con un sorriso dei suoi e con lamano alzata. A casa? A far che? Sto diventando pazza anch'io cercando di capire questi uomini pazzi in divisa, compreso mio padre che sento ancora lamentarsi e torturare con le sue domande ogni medico che passi davanti a questa benedetta stanza, e sorrido.
Anche Massimo, il mio capo, è venuto a trovarmi ed è capitato sotto le mani di mio padre che l'ha placcato prima di entrare in stanza che l'avrà messo sicuramente sotto interrogatorio forzato. «Permesso Adele!» bussa alla porta e fa per entrare nella mia stanza. «Prego Massimo, entra pure» lo accolgo piacevolmente nella speranza che mi porti informazioni sul caso. «Che spiacevole episodio!» esordisce. «Sono certo che ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato» continua poi. «Lo credo anch'io» mi esce dalla bocca anche se non è quello che penso. Io e Massimo ci conosciamo da diversi anni e mi ha sempre "corteggiata" per lavorare con lui ma le mie esperienze di lavoro, prima di stabilirmi qui, sono sempre state saltuarie in tante città d'Italia e non volevo bloccarmi in una piccola città. Ma, dopo diversi incontri con Massimo e il trasferimento di papà, ho deciso che era il momento di fare questa scelta per lamia carriera. È stato sempre molto premuroso e attento alle mie esigenze, come a quelle di tutti i dipendenti d'altronde, e mi ha aiutato a diventare la migliore nel mio campo. È anche per questo che abbiamo un ottimo rapporto. «Grazie Massimo per essere passato a trovarmi, mami dimetteranno presto e potrò tornare al lavoro già da lunedì!» anche se mi servirebbe qualche giorno di pausa, penso. «Ho saputo che domani andrai in missione top secret per l'autopsia della ragazza col medico legale e lo sbruffone del capitano.» "Sbruffone? Parla del medico, forse" penso. «Sì, ti aggiorno non appena avrò scoperto qualcosa.» E si congeda uscendo dalla stanza dopo un caloroso abbraccio.
Le dimissioni dall'ospedale arrivano prima di quanto pensi e, dopo una firma sui moduli precompilati dall'infermiere, sono già fuori dall'ospedale e pronta per tornare a casa. Ho la testa leggera, sarà colpa della botta ma sono certa che una doccia calda mi rigenererà.
A casa le luci sono tutte accese e mamma è impaziente a braccia conserte davanti alla porta d'ingresso. Sicuramente, ha già una lista di domande da farmi che spero possa dimenticare durante l'abbraccio che sta per avvolgerla. «Ciao mamma! Sto bene, benissimo. Vado a lavarmi, puzzo di ospedale.» «Ma...» non le do il tempo di replicare, mi sciolgo dall'abbraccio, scappo su per le scale trascinandomi a fatica in camera e, chiudendomi in bagno, la sento borbottare qualcosa a mio padre.
Entrando in doccia, strofino ogni centimetro del corpo e lascio scorrermi addosso acqua bollente, come per lavare via ogni dubbio che mi sta assalendo. L'acqua scorre veloce sul mio collo e lungo tutta la schiena e faccio attenzione a non bagnare la medicazione che andrò a cambiare domani in ospedale. Vorrei pensare al mio "incidente" ma non ne ho né la voglia né la concentrazione.
Si è fatto tardi e il capitano non è venuto, forse scherzava quando mi ha detto che sarebbe venuto a casa, o ha avuto qualche imprevisto di lavoro. Meglio non pensarci troppo o finirò per impazzire. E poi come lo spiego a papà perché il suo capitano viene a farmi visita a casa? Lasciamo perdere. Mi asciugo in fretta i capelli e indosso il mio pigiama con una fantasia discutibile, non si è mai troppo grandi per amare gli orsetti.
Mamma mi ha preparato una zuppa calda che non è il massimo a maggio ma mi conforta piacevolmente. «Come ti senti?» il tono di mamma è cambiato, adesso è calmo ma ancora preoccupato, ovviamente. «Meglio, state tranquilli. Sarà stato un incidente, non credo che qualcuno abbia intenzionalmente voluto farmi del male» voglio crederci anche io mentre pronuncio queste parole. «Lo spero perché non la passerà liscia comunque siano andati i fatti» il tono di papà mentre interrompe il nostro dialogo non è cambiato per niente da oggi pomeriggio ad ora, anzi sembra non avere pace.
Il suono del campanello blocca mio padre che si rilassa improvvisamente e mi rivolge un sorriso furbo. «Vado io!» annuncia mentre si alza velocemente per recarsi alla porta. «Prego, si accomodi!» Alzo la testa e la affaccio sul corridoio, inclinando la sedia a sinistra, per riuscire a scoprire il volto del nostro ospite e accenno un sorriso a mia madre quando riconosco la voce del capitano che spero non abbia notato. «Mi spiace disturbarvi a quest'ora ma ci tenevo a controllare che Adele stesse bene.» Le sue parole mi imbarazzano profondamente, io che non mi sono mai lasciata andare a certe confidenze con i miei riguardo agli uomini e che ora mi vedo costretta a spiegare che è solo un collega di lavoro incontrato poche volte su qualche scena del crimine. «Grazie capitano per la sua visita, non doveva disturbarsi.»
Faccio per alzarmi dalla tavola ancora apparecchiata dimenticandomi di avere in bella vista il pigiama con gli orsetti. «È un piacere per me vedere che sta bene.» «Benissimo! Mi creda» è vero solo in parte. «Allora conto sulla sua presenza domattina per l'autopsia» vuole che io ci sia. «Non mancherò!» sono emozionata adesso, ancor dipiù.
È il solito uomo elegante e serissimo, anche lui particolarmente pensieroso e cupo, come me. Indossa un completo scuro composto di giacca e pantaloni, sotto il quale vi è una camicia bianca e una cravatta di un verde scuro con una fantasia di puntini bianchi. Il tutto è accompagnato da un cappotto aperto sul davanti. Porta con sé una busta di carta che rimanda a un qualche negozio di alimentari. È molto elegante per essere solo di passaggio. «Non mi trattengo oltre, vi auguro una buona serata.»
Con un cenno saluta i miei e decido di accompagnarlo alla porta, lasciandomi alle spalle mamma e papà a borbottare qualcosa e ridere silenziosamente tra loro. «Grazie di essere venuto a trovarmi, non doveva disturbarsi.» Ma sono felice che l'abbia fatto, penso tra me e me. «È stato un piacere vedere che sta bene, mi creda.» Accenna ancora quel sorriso familiare «buonanotte e complimenti per gli orsetti.» Adesso realizzo della pessima figura che ho fatto davanti a lui che invece è ben vestito e ordinato come sempre e il mio volto cambia diverse colorazioni prima di sapere cosa rispondergli. «Mi piacciono gli orsetti» rispondo in maniera infantile ma sembra essere molto divertito da questo. «E le donano tantissimo» confessa arrossendo impercettibilmente. «A domani!» mi saluta e inspiegabilmente mi regala un galante baciamano che sconnette per un attimo lamia testa dal corpo e lo vedo allontanarsi dalla porta verso la sua auto nera fiammante parcheggiata davanti al vialetto di casa.
Meglio andare a dormire, è stata una giornata troppo lunga.
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Carissimi lettori,
in questo capitolo abbiamo conosciuto meglio il papà di Adele e notiamo un avvicinamento premuroso del capitano verso di lei. Sarà pronta Adele per accogliere così tante attenzioni?
Grazie per i vostri stupendi commenti, mi date la spinta giusta per crederci ancora e continuare!
A presto
Margherita
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