Capitolo 2
https://youtu.be/j_NoNo41SbU
Sono le 4:33 del mattino e non riesco a dormire. È stata una giornata pesante ed è proprio in questi casi che più sei stanca e più fai fatica a dormire. Uno spiraglio di luce entra in quella camera e mi aiuta a focalizzare il fatto che sia sommersa da scatoloni mezzi vuoti che attendono che io li riempia e che mi decida a lasciare questa casa, finalmente.
Già alcuni scatoloni sono stati riempiti con libri e vinili in queste settimane, corredati dalla mia costante preoccupazione affinché tutto sia disposto in ordine, per paura di non ritrovarli nella confusione del trasloco. Ad esempio nel caso dello stesso libro, "Cime Tempestose", posseduto in due versioni diverse, quella in lingua italiana e quella nella lingua originale, li ho legati insieme con un nastro per non perderli. C'è letteratura per ogni gusto nella mia libreria personale, dai romanzi ai grandi classici, molta filosofia, molta poesia, anche parecchi libri di stampo scientifico, a causa o grazie al mio lavoro, così come opere latine e greche, che sono frutto dell'amore per i miei studi classici. Insomma tutti gli ingredienti per una persona di vasta cultura... o per una semplice divoratrice di libri. Quel che è certo è che tutti questi libri, specie se visti nell'ambito di un ambiente così ristretto, danno l'impressione di essere frutto di un accumulazione quasi ossessiva e possono dire parecchio della personalità del loro proprietario. La stessa cosa vale per i vinili e i cd, la gamma di musica è ampia: c'è molta musica classica e molto blues, principalmente, ma anche jazz, buon rock, lirica, dischi misti. Tutto oggetto di una cura minuziosa da parte anche di mio padre, fan appassionato di Freddie Mercury, che mi ha aiutato nella collezione. I miei orsetti vestiti da carabinieri sono sistemati sulla mensola nell'angolo a destra della camera, in modo che siano facilmente osservabili entrando. Questa è la mia stanza da dieci anni, l'ultima dopo il trasferimento definitivo di papà nella nuova città dove si appresta ad andare in pensione, e non sono riuscita ancora ad andare a vivere da sola, se non per il periodo dell'università.
Come quando avevo sei anni, ci tengo ancora al bacio della buonanotte e alla colazione, che è l'unico pasto ormai che riusciamo a fare insieme. Non voglio lasciare questa casa, ma devo. Ho trovato una mansarda in affitto a venti chilometri da casa dei miei e ci andrò ad abitare tra qualche settimana, il tempo materiale per chiudere un'indagine che mi hanno assegnato proprio ieri. È vero non sono un detective, ma amo immergermi nelle storie che fotografo e dare un contributo significativo alle indagini. Così ho realizzato il sogno di lavorare fianco a fianco con mio padre: insieme risolviamo omicidi. Non che in questa città ci sia un omicidio a settimana, grazie a Dio, ma spesso lo rendo partecipe anche dei miei casi fuori città per avere il consiglio di un veterano del mestiere, oltre che di un padre. Finalmente il sonno prende il sopravvento.
La sveglia mi butta giù dal letto alle 7:30, il capo, il dottor Massimo Conti, uomo per cui nutro profonda stima e gratitudine per questo lavoro che mi ha concesso di fare nel posto dei miei sogni, mi ha raccomandato di essere puntuale alle 9 stamattina in ufficio per la presentazione di un nuovo caso in collaborazione con la stazione dei carabinieri di Seletino, una frazione che conta meno di tremila abitanti.
«Buongiorno Adele!» esclama con particolare intensità mio padre. «Buongiorno a te, ho dormito malissimo stanotte» esclamo in preda a una fame nervosa mentre addento un dolcetto appena sfornato dalla mamma. «Beh, capita di alzarsi col piede storto... soprattutto a te» mi risponde scherzando mentre fugge dall'occhiataccia che gli ho lanciato. «Sarà meglio che vada a prepararmi» sbuffo mentre cambio stanza e mi dirigo verso il mio bagno in camera. Pantalone nero, sneakers, maglia bianca morbida sulle spalle e giacca. Niente gioielli, solo la collana della nonna che nascondo dentro la maglietta. Il dresscode è fondamentale per un fotografo forense, soprattutto durante i primi incontri. Butto tutto sul letto ed entro in doccia.
Provo a rilassarmi mentre ascolto la mia canzone preferita e la canticchio provando a dimenticarmi delle sole tre ore di sonno che ho accumulato stanotte. Scuoto debolmente la testa, passandomi le mani sul viso. Sono sempre pensierosa ultimamente, anche se non ho particolari pensieri che mi frullano in testa. Nonostante l'acqua bollente sento freddo e, così, chiudo l'acqua ed esco poco dopo mettendomi un pesante asciugamano attorno al corpo. Prendo un profondo respiro e corro a cambiarmi nella mia stanza, in fondo al corridoio. Asciugo i miei lunghi capelli castani e decido, come sempre, di legarli in uno chignon basso, è sempre opportuno legare i capelli in una scena del crimine. Sono subito pronta, mi trucco velocemente e sistemo la mia fedelissima borsa in pelle nera che mi hanno regalato i miei genitori per la laurea, mi segue in ogni scena del crimine da anni ormai.«Scappo!» annuncio a mia madre intenta a ordinare la cucina. «Non mi aspettate a pranzo, tornerò stasera» continuo poi mentre acchiappo le chiavi della macchina e mi dirigo verso la porta.
Sono bloccata nel traffico, stranamente, è sempre tutto così tranquillo qui.
La radio sta passando qualche canzonetta di mio gradimento e mentre alzo il volume, squilla il mio cellulare. "Capo" leggo sullo schermo sbloccato. «Adele, cambio di programma. Andrai col medico legale sulla scena dell'omicidio, vieni in ufficio, ti sta aspettando qui» mi annuncia Massimo con una voce fastidiosamente squillante di primo mattino. Non mi dà il tempo di spiegargli che sono già per strada che riaggancia. Realizzo l'impossibilità di fare manovra qui e tantomeno districarmi da questo traffico. Riesco comunque a divincolarmi non appena il traffico sembra scorrere e faccio rientro verso l'ufficio in città. Sono le 9:12, non mi piace essere in ritardo ma comprenderanno, spero, che è dovuto al cambio di programma dell'ultimo minuto.
Salgo i cinquanta gradini che mi separano dalla porta di ingresso e incrocio lo sguardo del mio capo insieme al medico legale. «Come mai questo cambio di programma? Ero già in tangenziale, è stato un incubo rientrare in città» dichiaro convinta, un po' anche per difendermi dalle prossime accuse di ritardo. «Salve, sono il dottor Luca Deira, medico legale assegnato al caso e mi piace conoscere prima il fotografo che contribuirà alla perfetta riuscita del caso o al suo completo fallimento» mi ammonisce quasi mentre mi porge la mano cercando il contatto visivo. «La dottoressa De Lancia è molto precisa e puntigliosa nel suo lavoro, le assicuro dottore» interviene il capo per ammorbidire i toni della discussione che a breve prenderà fuoco. «Dottoressa Adele De Lancia» mi presento ricambiando la stretta di mano. «Andiamo» ordino irritata dall'atteggiamento e dal ritardo che mi sta portando questa discussione e con un cenno il dottor Deira mi indica l'auto per spostarci. «De Lancia come il maresciallo Claudio?» mi chiede mentre fissa la strada di fronte a sé. «È mio padre» gli confermo mentre continuo la lettura del fascicolo sul caso che mi ha fatto trovare sul sedile passeggero. «Fotografa forense e figlia di carabiniere, accoppiata vincente» esclama per rompere il ghiaccio mentre lo vedo con la coda dell'occhio rivolgermi uno sguardo. Annuisco e sorrido forzatamente mentre cerco di non farmi distrarre da questo medico un po' troppo presuntuoso e impiccione per i miei gusti.
Ho sempre a che fare con professionisti di diverso tipo, anche eccellenti e rinomati, ma è difficile lavorare bene con tutti quando le tue aspettative sono altissime grazie a tuo padre che si è dedicato per più di quarant'anni al suo lavoro con tutto sé stesso. Mio padre è discreto sul lavoro, preciso e attento, sensibile e anche abile osservatore, quando incontro, quindi, personaggi poco professionali alzo un muro con loro e cerco di evitarli in ogni modo.
Finalmente, dopo un breve e silenzioso tragitto arriviamo sul luogo del delitto. La zona è recintata dal nastro dei carabinieri e ne scorgo due che stanno completando la chiusura dell'area. Mi allontano dal medico legale per identificare la situazione e riflettere: siamo alle spalle di un casale abbandonato, la zona non è molto frequentata. Qualche auto passa di rado da qui. Trovo un'incredibile moltitudine di persone sulla scena. «Neanche la pioggia ferma i giornalisti assetati di scoop» ridacchia il medico legale. Ha ragione, perché la maggior parte delle persone presenti sono proprio giornalisti e fotografi, e i poveri carabinieri sembrano fare fatica a tenerli tutti a bada oltre le recinzioni. «Fate silenzio per favore, e soprattutto portate rispetto per la vittima» grida uno di loro, ma le sue parole sembrano essersi perse nel fresco vento di quella giornata.
Prendo dal sedile posteriore la mia borsa contenente il kit. Noto subito una donna dal viso familiare venirci incontro: ha un'età indefinita tra i quaranta e i cinquant'anni e porta i capelli ramati raccolti in una coda di cavallo sotto un berretto blu: è la collega della scientifica. Non ci eravamo ancora incontrate di presenza sulla scena di un crimine, ma ho sentito molto parlare di lei. Mi sorride freddamente facendo un rapido gesto con la mano, allontanandosi dal coroner che sta ispezionando un cadavere pochi metri più avanti a noi. «Tu sei la figlia del maresciallo, vero?» «Piacere, Adele De Lancia» mormoro stringendole la mano che mi aveva allungato. «Hai infatti qualcosa di familiare... la copia di tuo padre» mi dice assottigliando lo sguardo come per cercare di ricordarsi di me. «Spero tu sia in gamba come lui» continua prima di allontanarsi da me. Il suo tono appare fastidioso, ma riesco a tenerle testa.
Non mi è mai dispiaciuto essere sempre ricollegata alla figura di mio padre ma, essendo conosciuto e apprezzato per il suo eccellente lavoro e la sua importante collaborazione con la scientifica e con noi dell'istituto di fotografia forense, lascio che scoprano da soli, lavorando con me e conoscendomi, che sono la copia di mio padre non solo per fisionomia e capacità intuitive, ma anche estremamente in gamba, come lui. Non per nulla la figlia del maresciallo ha scelto di sorprendere tutti diventando una brava fotografa lavorando al suo fianco.
Sfodero il tesserino, lo mostro a uno dei carabinieri e oltrepasso le transenne, finalmente. Da lontano scorgo il cadavere, è la figura di una donna, distesa tra dei blocchetti di cemento ma si nota chiaramente il viso sfregiato, forse da una caduta. «De Lancia, riprendi tutto» mi intima il dottore che è appena arrivato alle mie spalle che si era assentato per qualche minuto dalla scena per prepararsi. «Ma non perderci troppo tempo, il fidanzato ha già confessato l'omicidio della ragazza ed è stato arrestato poco fa, dopo la confessione.» Omicidio passionale, forse? Lontano dalla recinzione dei carabinieri appoggio la mia borsa per uscire e preparare la mia attrezzatura fotografica.
Sono le 10 del mattino e siamo all'aperto, la luce è perfetta. Tolgo il copri obiettivo dal mio nuovo modello di Nikon, controllo la scheda di memoria, pulisco l'obiettivo. Tuta protettiva, copri scarpe e occhiali. Indosso un paio di guanti in lattice e appendo al collo la mia collaboratrice infallibile. Si inizia.
«Individuo di sesso femminile, alta circa 1.65, età...intorno ai vent'anni, presenta molte ecchimosi, precedenti sicuramente alla morte. Ci sono diverse emorragie di cui le più gravi su cranio e bacino.» Ascolto accuratamente le spiegazioni del medico legale mentre lo osservo sollevare delicatamente i polsi della vittima per controllare i fianchi e mi soffermo con la fotocamera sulle emorragie, faccio caso a un piccolo tatuaggio sul polso destro e fotografo anche questo particolare. Fotografo l'ambiente metodicamente da almeno due posizioni diverse, opposte. Faccio quattro scatti per ogni punto cardinale, in modo da poter orientare in modo specifico ogni foto. Fotografo la scena del crimine, esattamente nello stato in cui si trova, senza alterare alcun particolare, osservo lo stato di tutte le probabili vie di accesso e di fuga del luogo e la condizione dei sigilli apposti in fase di sequestro giudiziario. Appongo per ogni fotografia, un riferimento metrico leggibile all'interno dell'immagine posto in maniera da non alterare la scena. Entrando all'interno della scena cerco un percorso idoneo cercando di preservarlo al massimo e organizzo le sequenze fotografiche usando delle nomenclature specifiche: luogo o ambiente (A, B, C, ecc.), reperto (1,2, 3, ecc.); e posizionando dei coni contrassegnati con le lettere relative a ciascun luogo o ambiente esaminato. Tutte queste informazioni, che sembrano poco rilevanti, hanno la finalità di poter ricostruire il fatto in maniera precisa. Inoltre il terriccio umido presenta i segni ben distinti delle ruote di quella che sembra una macchina di grossa cilindrata. Scatto un paio di foto dopo aver segnalato il tutto con i cartellini e perlustro attentamente i dintorni e i cespugli di erba secca, cercando qualsiasi cosa che possa essere fuori luogo e che possa darmi un'indicazione su quanto avvenuto alla ragazza stesa a terra a svariati metri di distanza da me. Non trovo nulla di particolarmente strano: tappi di bottiglie, cartacce, una penna Bic vuota. Niente di importante quindi posso concludere l'ispezione.
Mentre sistemo una lettera vicino a una scarpa abbandonata in un angolo, cattura la mia attenzione un uomo sulla scena del crimine, poco lontano da noi, sembra visibilmente sconvolto e ha tra le mani una collana. Lo vedo mentre la passa da una mano all'altra e sussurra parole incomprensibili da quella distanza. Appoggiato a una transenna come per reggersi e non cadere e con gli occhi puntati nel vuoto di fronte a sé. Un carabiniere mi viene incontro e mi sussurra: «Sembra in stato di forte shock, può provare a parlargli, ma non so quanto o cosa le dirà.»
«Mi scusi» dico mentre mi avvicino a lui, «sono la dottoressa De Lancia» gli annuncio mentre alza lo sguardo verso di me. «Si? Mi dica» balbetta mentre cerca di ricomporsi. «Conosceva la vittima?» domando fredda e secca. «Sì, era mia sorella, l'ho trovata io qui» mi risponde mentre mette via la collana che aveva in mano. «Tutto quello che so l'ho raccontato ai carabinieri...devo andare, mi scusi» continua mentre chiude la discussione e fa per allontanarsi da me. Sembra essere scappato. Non dovrei fare domande, non sono qui per questo, non dovrei intromettermi ma quel ragazzo come faceva a sapere che la sorella si trovava in un campo sperduto nel nulla? La mia maledetta sindrome da Signora in giallo.
«Abbiamo finito, dottoressa» mi annuncia nel frattempo il medico legale che si avvicina verso di me.«Spero che abbia fotografato tutto in maniera attenta e precisa» sottolinea infastidendomi profondamente e non accenno a rispondere. «Rientriamo?» continua mentre si sfila i guanti e li getta in un cestino messo lì apposta. «Penso che rientrerò per conto mio, grazie.» È molto professionale sul lavoro, mi è piaciuto ascoltarlo e osservarlo mentre faceva il suo lavoro, ma non mi piace la sua compagnia, né tantomeno la sua presunzione. «Non insisto, alla prossima allora!» mi dice porgendomi la mano in segno di saluto e passandomi accanto per andare verso l'auto. Siamo nella periferia più remota di questo paesino di montagna, spero che ci siano autobus di linea, penso mentre sistemo la mia attrezzatura nella borsa.
«Dottoressa De Lancia!» sento chiamarmi alle spalle e voltandomi riconosco il volto familiare del maresciallo Giovanni Rosa, vecchio amico di mio padre. «Maresciallo carissimo» esclamo riportando lo sguardo in avanti. Sorrido al maresciallo scoprendo la fossetta sulla mia guancia sinistra e avanzo verso di lui. «Dobbiamo smetterla di incontrarci grazie agli omicidi» esclama divertito mentre fa per abbracciarmi. «Come stai? Papà?» mi chiede premuroso mentre fa per allontanarci dalla scena e ci soffermiamo qualche minuto a parlare. «Ti ho vista arrivare col medico legale che è appena andato via. Io sono con l'auto di servizio, ma oggi il capitano Pellegrini è venuto in borghese con l'auto personale, posso chiedergli di riaccompagnarti in ufficio se vuoi» mi dice mentre mi indica il capitano col dito.
Voltandomi, lo intravedo tra i carabinieri sul posto in un angolo vicino la scena del delitto, non molto lontano da noi. Indossa una camicia bianca aperta sul collo con le maniche arrotolate fino ai gomiti, intravedo una collana lunga scomparire dentro la camicia. Hai capelli tirati all'indietro, porta dei pantaloni militati verdi e un paio di stivaletti di una famosa marca americana. Giovane e alla moda, il capitano. «No, grazie maresciallo» gli dico mentre mi giro nuovamente verso di lui, «non c'è bisogno di disturbare, è qui per lavoro. Io tornerò in autobus.» Pronuncio queste parole mentre sento dei passi avvicinarsi dietro di me. «Maresciallo Rosa, è un piacere rivederla» sento pronunciare queste parole con un tono caldo e rassicurante.
Vedo il maresciallo fare il saluto militare e faccio per voltarmi. «Salve comandante, le presento la fotografa forense, la dottoressa De Lancia, nonché figlia del validissimo maresciallo De Lancia che comanda la stazione della città vicina» annuncia il maresciallo e incrocio lo sguardo del suo interlocutore. «È un piacere incontrarla dottoressa De Lancia, conosco l'operato di suo padre da quando ero ancora uno studente dell'accademia, non ho avuto ancora modo di incontrarlo, ho preso servizio da pochi giorni e non ho finito con le visite delle caserme.» Il suo tono è fermo e serio mentre pronuncia quelle parole e cerco di restare attenta mentre lo fotografo con gli occhi. Si tratta di un distinto ragazzo sulla trentina o poco più, come dimostrano i capelli castani con qualche ciuffo grigio, ben pettinati all'indietro con una leggera passata di gel. Gli occhiali che indossa gli conferiscono un aspetto vintage, essendo simili a quelli che indossava mio padre negli anni 80. Sbarbato alla perfezione, come si addice a un uomo appartenente alle forze dell'ordine, toglie gli occhiali da sole che appende alla camicia poco aperta sul collo. «Piacere mio» riesco solo a dire. «Ho sentito che le serve un passaggio per rientrare in ufficio, se non le dispiace vorrei accompagnarla io, devo passare da lì per raggiungere la caserma, non è un problema» mi rassicura mentre accenna un impercettibile sorriso. «Grazie» qualsiasi tipo di accompagnatore sarebbe stato meglio dell'antipatico medico legale.
La radio passa una canzone del momento, poggio la testa sul finestrino e osservo il paesaggio che mi aiuta sempre a pensare soprattutto dopo un sopralluogo. Tiro fuori la macchina fotografica e riguardo con attenzione i miei scatti, magari mi salterà all'occhio qualche particolare importante. Il capitano guida attento e non sembra considerarmi durante tutto il tragitto fino all'ufficio, ma va bene così, sono molto concentrata sulle mie fotografie. Dopo mezz'ora di strada riconosco il viale che conduce al mio ufficio e lo sento rallentare. «È stato un piacere dottoressa, ci rivedremo sicuramente» mi annuncia porgendomi la mano per scambiare il saluto. «Grazie per il passaggio capitano, buon lavoro.» Ricambio la stretta di mano e raccolgo le mie cose prima di scendere dall'auto.
L'auto riparte veloce dietro di me e inizio l'ascesa dei quasi infiniti gradini che mi separano dall'ingresso dell'ufficio con le mani impacciate e carica di tutto il materiale di lavoro, oltre che del mio quaderno di appunti, il più ordinato di tutto il dipartimento. Sono precisa, metodica e formale. Sul lavoro, almeno. Il mio quaderno ha un indice così da ritrovare tutto, per argomento o data, e ovviamente le pagine sono numerate. I miei colleghi mi prendono terribilmente in giro per questo, ma non mi importa, non capiscono l'importanza di questa mia precisione. Mi piace avere tutto sotto controllo in ogni momento. Che male c'è a voler essere precisi?
Il problema è che nella mia vita, oltre alle mie fotografie e ai miei appunti sotto controllo e ben organizzati, non c'è nulla.
In ufficio tutti corrono a destra e a sinistra, c'è un caos generale a causa di diverse richieste di fotografo in tutta la provincia.
Sgattaiolo verso il mio ufficio con la speranza di liberarmi le mani e mettermi a scaricare le foto e a rivederle per dargli un'occhiata.
Nel mio ufficio ci sono appesi i miei attestati, la mia laurea e qualche quadro delle mie foto più belle in bianco e nero, rigorosamente. Nelle mensole le mie macchine fotografiche d'epoca e qualche vecchia edizione di un romanzo inglese risaltano, in contrasto nell'ambiente moderno.
Ricordo quando ho acquistato questa roba in un mercatino delle pulci, con papà. Era la mia prima volta in uno di quei posti. Sono rimasta incantata dall'odore di carta antica dei libri usati, un simpatico color caffè che impreziosisce le pagine. Passammo ore e ore in quel luogo magico e non soltanto per quell'odore di fogli fascicolati insieme e rimasti chiusi per tanto tempo ma anche per quei piccoli mondi, venduti a un prezzo irrisorio, che giacciono dimenticati sopra dei tavoloni di legno o dentro degli scatoloni dall'aria consumata. Ai mercatini dell'antiquariato vado sempre con l'aria entusiasta di una bambina al parco giochi. Oltre ai libri, anche tanti piccoli oggetti da collezione come francobolli, monete, tazze e tazzine, oggettistica varia, mobilie d'arredamento dal gusto vintage, dischi, vinili, grammofoni, fotografie color seppia, vecchie cartoline, antiche lettere, macchine da scrivere, orologi da taschino, bauli e chi più ne ha, più ne metta. Ogni oggetto più bello del precedente. Ogni oggetto con una storia nascosta e sarebbe bello poterle scoprire tutte: chissà a chi apparteneva quel vecchio libro ingiallito che se ne stava solo soletto nel cassetto e che ora se ne sta sopra quel bancone? A chi era indirizzata quella misteriosa lettera, a cui il tempo ha consumato le parole che ora sono appena appena distinguibili? E quella foto che rappresenta un ragazzo e una ragazza che ballano? Magari sono semplicemente oggetti a cui sono legati ricordi di cui la gente se ne vuole sbarazzare. E quel quadernetto dalle pagine spiegazzate? Contiene segreti? Pensieri di una giovane anima dal cuore infranto? Un'amicizia? Una segreta corrispondenza? Le avventure magiche di un futuro scrittore? Una promessa d'amore proibito? Quanti mondi in un mercatino dell'antiquariato, tante storie da scoprire, da assaporare, immaginare, ricercare, foto da ammirare, tante lettere con cui sognare. E ovviamente quelle macchine fotografiche che avranno immortalato mille mondi diversi, realtà storiche che sembrano lontanissime dal nostro tempo, persone che oggi sono solo cenere. E mio padre mi accompagnava alla ricerca di qualsiasi oggetto che catturasse la mia curiosità e che avrei fatto mio, oltre che fare una passeggiata insieme, nel frattempo.
Ho portato qui con me tutti gli oggetti che mi ricordano casa; i miei libri di storia dell'arte da Van Gogh a Gauguin, da Picasso a De Chirico, la mia collezione di matite comprate nelle città che ho visitato con la mia famiglia e anche quelle che ho scoperto ed esplorato in solitudine, un piccolo temperino a forma di macchina fotografica, un vinile dei Queen.
Tutto prende forma quando ci metti amore e quel mio amore è amplificato qua dentro. La mia passione e il mio entusiasmo per questo lavoro sembrano essere accentuati in quest'opposto e tutto è merito di mio padre.
Osservo le mie fotografie e ridefinisco la scena nella mia testa, la ricostruisco davanti ai miei occhi per essere certa di non aver dimenticato nulla e continuo a elaborare le mie immagini e ad associare luoghi e dettagli per definire un quadro completo e preciso, così per qualche ora fino a quando sento il bisogno di un caffè per rigenerarmi.
Sento bussare alla porta. «Avanti!» È il capo. «Adele, cara, ho bisogno di quelle foto per mandare il fascicolo completo ai carabinieri che stanno chiudendo il caso» mi chiede con la sua solita gentilezza. «Sono pronte» dico mentre gli porgo la chiavetta con tutto il materiale catalogato perfettamente nelle cartelle. «Ma fammi avere una copia video dell'interrogatorio, se puoi» aggiungo con la mia solita ora di curiosità e lo saluto mentre mi dirigo verso l'uscita per tornare a casa.
«Ceniamo insieme?» mi chiede speranzoso come sempre prima di perdermi completamente tra la folla dei colleghi. «No Massimo, non stasera, ho del lavoro da completare a casa...» declino elegantemente l'invito prima di lasciare l'ufficio. Massimo è stato sempre molto apprensivo con me, come un fratello maggiore, forse per l'amicizia con mio padre e la stima reciproca o semplicemente perché ho dato una svolta a questo ufficio.
La confusione regna sovrana nella mia testa. Sono ancora in macchina, ferma nel parcheggio dell'ufficio da almeno dieci minuti. Sto pensando, ma non so bene quali siano gli oggetti dei miei pensieri.
Finalmente decido di scendere ed entrare in casa per dirigermi, senza indugio, verso l'ufficio di mio padre. La casa ritrova la sua normale tranquillità la sera, e il ricordo della confusione mattutina è solo un eco. L'arredo dell'ufficio di mio padre in casa è più semplice e meglio illuminato rispetto a quello della caserma; al posto degli scaffali ricolmi di carte e fascicoli ci sono appese, e coperte da un leggero velo di polvere, svariate cornici dorate contenenti medaglie al valore e riconoscimenti ufficiali da parte del comando regionale dei carabinieri. Sulla sinistra entrando invece c'è una piccola libreria colma di manuali dei carabinieri e libri gialli, affiancata da un divano di pelle marrone sul quale da bambina leggevo e studiavo quando avevo voglia di immergermi in un mondo tutto da grandi rispetto a quello della stanza rosa di una bambina. La scrivania non è mai spoglia: ci sono le immancabili cornici con alcune foto di una bambina dal viso familiare con i codini e il vestito nero a pois. Avevo cinque o sei anni in quella foto.
Papà è seduto sulla sua poltrona intento a leggere alcune pagine da una carpetta gialla, starà certamente rispolverando qualche vecchio caso.
«Permesso» faccio per entrare nella stanza e resta concentrato sulla sua lettura facendomi solo un cenno con la mano per salutarmi. Mi muovo verso di lui e, nonostante l'incertezza, gli sorrido quando lo saluto egli vado incontro. «Caso difficile?» chiedo incuriosita dalla sua espressione molto seria e concentrata e mi avvicino ancora per dargli un bacio. «Abbastanza» si lascia sfuggire mentre richiude tutto e mi dedica finalmente un sorriso dei suoi guardandomi negli occhi. Come se non mi vedesse da giorni. Sembra... pensieroso, non nel comportamento che è sempre composto e militare, ma negli occhi che, mai come ora, sembrano riflettere il suo stato d'animo. Sembra che sia una cosa importante per lui questa faccenda. «Com'è andata oggi per il caso della ragazza nel campo?» mi chiede mentre mi accomodo sulla sedia difronte a lui. «Bene, ma ho qualche sospetto» gli confesso accennando un sorriso mentre sciolgo la mia coda spettinata grattandomi la testa. «Non avevo dubbi ma ne parliamo domani se non ti dispiace» mi accenna un sorriso e fa per alzarsi intento a lasciare la stanza. Mi bacia sulla testa e si dirige verso la camera da letto chiudendo la porta.
Quella carpetta gialla lasciata sulla poltrona attira ancora di più la mia attenzione adesso, ma se papà avesse voluto un consiglio per qualcosa me lo avrebbe certamente chiesto. Non guarderò cosa contiene, non ora almeno.
In camera il mio pc è ancora con lo schermo acceso e mi ricorda che ho lasciato un lavoro in sospeso. Inoltre non ho ancora cenato e sono passate le 22 da qualche minuto, meglio mangiare una cosa veloce prima di andare a letto. Instauro uno strano rapporto col cibo quando mi assegnano nuovi casi. È come se lo stomaco e tutto l'apparato digerente rifiutassero di essere nutriti non prima della chiusura del caso. È terribilmente fastidioso e, su questo, non ho preso certamente da mio padre.
Di tanto in tanto alzo gli occhi sulla distesa verde che si stende oltre la veranda, ne traggo serenità, quel giusto silenzio di cui soprattutto la mia mente necessita adesso. Abbasso lo schermo del pc portatile senza spegnerlo. Tolgo gli occhiali da lettura e li appoggio sopra. Allungo una mano per far scivolare verso di me un libro, aperto e abbandonato non distante, fino a portarmelo davanti. Sfioro la pagina aperta con la punta delle dita, e la giro, lentamente. Quel colore della carta, leggermente ingiallita dal tempo, è un richiamo mentale a fare attenzione. Osservo l'illustrazione presente su una delle due pagine successive, mi concentro su quella, non leggo il testo che già conosco quasi a memoria, ma guardo solo l'immagine assorta nei miei pensieri sperando che aiuti il mio sonno a sopraggiungere.
Domani finalmente è sabato, penso, l'ultimo giorno di lavoro della settimana prima di una domenica di relax, spero.
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Carissimi lettori,
dopo una lunga presentazione dell'ambiente e del lavoro della nostra Adele, ci addentriamo nel vivo del racconto. Il primo omicidio desta non pochi sospetti nella nostra protagonista ma lei è determinata a scoprire tutta la verità.
Quali impressioni sul nostro bel capitano Tommaso Pellegrini?
E sui pensieri della protagonista? Vi leggo con affetto...
A presto
Margherita
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