Capitolo 12

https://youtu.be/GG7eO1vBglE

«Riesci a raccontarmi cosa è successo il giorno del rapimento?» Chiede una collega di Tommaso della squadra RaCIS arrivata qui da Parma per aiutarlo col mio caso. Non vorrei parlarne ma spero che questo possa aiutare a chiudere il caso definitivamente.


«Quel giorno lui mi aveva mandato un messaggio per chiedermi di andare in ufficio e firmare delle carte.» Non riesco a pronunciare il suo nome, ma continuo. «Ero senz'auto ma un taxi fuori servizio era fermo vicino casa mia e sono salita comunicando la strada per l'ufficio. «Dopo poca strada ricordo che un rumore dal cofano ha attirato la mia attenzione e qualcuno è sbucato fuori mettendomi un tovagliolo coprendo naso e bocca e...» la mia voce adesso trema e cerco con gli occhi Tommaso nella stanza.


«Sono qui» mi sussurra poggiandomi una mano sulla spalla tranquillizzandomi. «Non ricordo altro... mi sono svegliata in quel casale abbandonato...» non voglio raccontare altro per oggi. Ho bisogno di stare con la mia famiglia, ho bisogno di vedere mio padre. Non lo hanno fatto avvicinare al posto in cui mi hanno trovata per evitare che commettesse qualche errore che non si sarebbe mai perdonato, e sono contenta che non mi abbia visto in quello stato.


Sento il freddo percorrermi l'incavo delle ossa, dritto fino al midollo. È un freddo pungente e umido come la terra che mi ha circondata in quei giorni. Mi sono guardata spesso intorno, cercando una speranza di salvezza a cui aggrapparmi ma nessun rumore era familiare. Le braccia legate strette dietro la sedia erano un continuo dolore ma cercavo di non pensarci. "Sono spacciata" è l'unica cosa che in realtà riuscivo a pensare, l'unica frase che riuscivo a comporre nella mia mente. Sorridevo delirante a volte, pensando a quanto breve e solitaria fosse stata la mia vita. Il tempo scorreva lento mentre fissavo quel tetto nero, sentivo il respiro farsi più lieve, ogni tanto sentivo un brontolio che si avvicinava; tra un lampo e l'altro capitava che io perdessi i sensi: le forze sembrava mi stessero abbandonando e non c'era nulla che io potessi fare, cercando di restare sveglia e di conservare quel poco che mi restava per urlare aiuto se ce ne fosse stata l'occasione. Tutto puzzava di chiuso, pareti lerce e ammuffite, come se da tempo nessuno fosse entrato lì. Il letto non era neanche un letto, ma un misero materasso bucherellato qua e là dalle tarme e con qualche molla uscita. Ho provato a parlare con Massimo, quando ho scoperto che era lui il mio rapitore, ma sembrava in uno stato di trans, mi portava acqua e cibo meccanicamente, non mi rivolgeva la parola, sembrava spaventato o che si vergognasse dalle sue azioni.


La collega di Tommaso mi ha poi tranquillizzata sul fatto che il medico legale non era coinvolto in niente di tutto questo, aveva un alibi di ferro per gli altri omicidi e soprattutto nelle ore del mio rapimento. Aveva soltanto cercato di introdursi nel mio ufficio quella mattina per trovare degli indizi e per cercarmi da solo senza l'aiuto dei carabinieri, nella speranza di ritrovarmi e sperando che quando mi avrebbe ritrovata mi sarei gettata tra le sue braccia in segno di gratitudine.


«È arrivato il maresciallo, lasciamoli soli» chiede Tommaso al gruppo con la sua solita gentilezza, interrompendo i flashback di quei tremendi ricordi. «Adele...» è lui. «Papà...»È bastato incrociare il nostro sguardo per sentirmi di nuovo a casa.


Nessuna parola ma un abbraccio, un lungo e caloroso abbraccio che nasconde le nostre lacrime e scaccia i cattivi pensieri. Mi circonda in modo molto protettivo e rassicurante per fare bene a me ma anche a sé stesso. Mi stringe a sé con affetto, un braccio si solleva fino a far arrivare la mano sulla sua testa, delicatamente. Mi dà un bacio lungo sui capelli, posandoci giusto le lab-bra, col capo chino. Mi guarda, poi. «La mia bambina...» mi sussurra con gli occhi colmi di lacrime. «Tutto questo è colpa mia, non avrei dovuto che scegliessi questo lavoro e che mi aiutassi nei casi...» singhiozza adesso che sta realizzando che avrebbe potuto perdermi, ma si sbaglia. «Non hai sbagliato nulla, papà, questo lavoro è la mia vita, la mia passione è tutto grazie a te e non per colpa tua.» Cerco di rassicurarlo mentre mi lascio abbracciare, col viso nascosto sul suo petto, restando così, immobile nei primi momenti, stringendomi nelle spalle, restando però circondata dalle braccia di mio padre, come fossero una gabbia di protezione in cui restare nascosta per sempre.


«Il capitano Pellegrini ha smosso mari e monti per ritrovarti, senza di lui non sarei riuscito a essere forte e continuare lucidamente con le ricerche...» mi confida forse perché spera che io e il capitano...


«Mamma ci aspetta a casa» mi annuncia cambiando velocemente discorso ma continuando a stringermi e a baciarmi, e adesso non vedo l'ora di incontrarla. Per il momento anche io libero i miei pensieri dall'immagine di Tommaso che entra in quella stanza e mi salva. 

L'ho pensato intensamente in questi giorni e ammetto che è stata la mia forza per non mollare. Sono grata di averlo incontrato e sono soprattutto felice di poter condividere una nuova avventura con lui. Gli devo praticamente tutto. Non posso però fare a meno di avere sollievo dalla marea di pensieri che mi hanno inondato, con quelle compulsioni che allo stesso tempo odio e necessito.

Ho pensato tanto a quel bacio che gli ho rubato di sfuggita dopo avermi ritrovata e salvata. L'ho sentito dentro quel bisogno di sfogare le mie emozioni dopo intensi giorni di paura e disperazione. Mi sono abbandonata alla barella del 118 sfinita, sospirando profondamente. Sfioro ancora le labbra con la punta delle dita e, per un attimo, mi sembra di risentire il contatto con quelle di Tommaso. C'è qualcosa di unico nel rapporto che abbiamo, qualcosa che va oltre ciò che ho sempre provato e, da un lato, ne sono quasi spaventata: mi basta che un solo uomo troppo importante per me sia sempre in pericolo, non posso sopportarne due.


Ho davanti agli occhi le immagini di quelle ragazze uccise, sono morte così giovani per la follia di un uomo. Mi sento anche in colpa. Sono state strappate all'amore dei loro cari senza concedersi una possibilità in questa vita. Avevano sogni, progetti, amori in sospeso. Io sono viva. Devo essere felice per questo e continuare a lottare per la mia felicità e per realizzare i miei sogni. Lo devo anche a loro.


Tommaso è fuori dalla stanza, seduto con un collega sulla scrivania vicino alla macchinetta delle bevande, sistema il suo nodo della cravatta, una volta. Toglie gli occhiali, li richiude e li mette in ordine sul tavolo, allineando anche gli altri oggetti, il bicchiere di caffè e la cartella, e dentro a questa i documenti di tutto il caso. Cerca di respirare piano, perché la reazione naturale ora sarebbe una rabbia devastante che non può sfogare, perché si trova in un luogo pubblico, perché mi sta osservando uscire accennando un sorriso e il desiderio e il dovere di farmi felice combattono contro la paranoia che gli urla dentro. È incredibilmente difficile tenere tutto in ordine anche dentro sé stessi, così come si riesce a farlo all'esterno, con gli oggetti, col nodo della cravatta che sistema un altro paio di volte.


«Questa storia è definitivamente chiusa, nella stanza accanto Conti ha confessato il movente, le modalità e... sembra una storia chiusa. Ora sei al sicuro, con noi.» Mentre si avvicina a noi con un passo allegro e sicuro. Lo sto guardando e colgo ogni dettaglio della sua reazione mentre continua a discutere con papà, ma non intervengo, lo lascio parlare e lo osservo. Se solo sapesse che il suo viso è stata la mia spinta a resistere e a sperare, a non mollare.


Papà è sereno, lo sento, ultimamente il suo sguardo era spento, era sempre pensieroso e non facevamo più un pasto insieme da settimane. «Ho bisogno di andare a casa» interrompo il loro dialogo. «Certo, subito amore mio» risponde mio padre che taglia corto con la discussione col capitano e si dirige verso le scale, tenendomi sempre tra le braccia. «Verrò a trovarla...» mi annuncia Tommaso accennando un sorriso e si allontana dal corridoio rientrando nel suo ufficio.


Una volta salita in macchina ho messo la cintura e sono rimasta in silenzio, non ho molta voglia di parlare. La strada per arrivare a casa non mi era mai parsa più lunga, sto analizzando ogni centimetro cercando di non scordarlo. Durante il viaggio ho il gomito appoggiato al finestrino e la mano a sostenere la testa, leggermente inclinata verso il vetro, quasi a sfiorarlo. Lo sguardo all'esterno, a osservare il bordo strada che scorre. Per tutto il tragitto mio padre non ha detto una parola, ha solo tenuto la mia mano, e non ha smesso un attimo di accarezzare le mie dita ferite e deboli. I dot-tori del 118 mi avevano consigliato di andare in ospedale ma ho rifiutato perché so per certo che la casa è la miglior cura per ogni malattia. 


Scesa dalla macchina mamma è lì che mi aspetta, con le braccia pronte ad accogliermi in un abbraccio infinito. Sono a casa, finalmente.

Quelle mura non mi erano mai sembrate più colorate, ogni soprammobile di mamma sugli scaffali mi ricordavano momenti felici, quella toppa sul divano mi fa sorridere come quel giorno che papà lo bruciò con una sigaretta. E sono felice di essere di nuovo a casa. L'incubo è finito, la paura è svanita, la follia di Massimo cancellata per sempre. Provo a pensare e a capire cosa abbia vissuto in questi anni al mio fianco, amandomi senza essere ricambiato, come abbia sopportato la mia presenza... Il dolore fa impazzire, ti fa pensare che tutto quello che fai non è mai abbastanza.


Quando attraversi un momento difficile sembrerebbe facile autodistruggersi, ma è difficile spegnere le persone come me: a volte si spengono ma mai per gli altri, e hanno questa capacità di illuminare ogni cosa che hanno attorno.


Tommaso è la persona che voglio che mi accompagni in questo viaggio.

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