Capitolo 1
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Quando ero bambina avevo un posto preferito in tutto il mondo. L'ufficio di mio padre.
Era come il paese dei balocchi per me. La sua grande scrivania posta al centro della stanza era la prima cosa che si notava entrando. Tutte le penne, insieme ai fogli ben impilati e agli attrezzi di cancelleria, erano posati in maniera precisa e ordinata sul ripiano. Alle sue spalle erano appesi tutti i calendari dell'Arma dei carabinieri dal 1980 e una foto del Presidente della Repubblica incorniciata era posta sopra di essi. È sempre stato un romanticone, mio padre. Non si è mai potuto separare dai ricordi della sua vita lavorativa e per questo, in quell'ufficio, era come sentirsi a casa: ogni attestato, ogni corso, ogni riconoscimento era presente sui muri di quell'ufficio che tanto amavo.
Tutte le fotografie da giovane arruolato, con i colleghi durante le partite di calcetto, di me e mia sorella vestite da marescialli per carnevale. E mi lasciavo incantare ogni volta dalla grandezza e dalla dedizione con cui tutto era perfettamente sistemato al suo posto. Centinaia di volumi antichi e recenti mi invitavano a sfiorarli, ad aprirli dopo magari anni che nessuno lo faceva. Mia madre, abile ricamatrice, aveva realizzato per lui una stupenda tenda di puro lino con lo stemma dell'arma dei carabinieri ricamato a mano e dipinto con i suoi vivaci colori, che aveva appeso in quella stanza, mostrandola non solo come perfetto abbinamento all'ambiente ma anche come motivo di pregio per l'abilità innata di mia madre e amava che venisse apprezzata da chi entrasse nel suo ufficio. Un mobile sulla destra che usava come archivio personale era anche un perfetto piano d'appoggio per le sue macchinine dei carabinieri che collezionava da anni e che a volte usava come distrazione per i bimbi, venuti con i genitori, in preda a folli pianti. Ognuna di esse era perfettamente ordinata per anno di fabbricazione e aveva studiato ogni opuscolo corrispondente con tutte le informazioni tecniche delle auto, tutto questo solo per pura conoscenza. Era sempre molto attento a questi particolari: chiunque entrasse doveva sentirsi come a casa e non in un ufficio freddo e temibile. Per grandi e piccoli. C'era sempre un buonissimo profumo, il suo profumo, che aveva ormai impregnato le pareti e i tessuti, e che mi faceva sentire a casa. Mille altri dettagli probabilmente dimentico adesso, ma tutto questo è ben fissato davanti ai miei occhi e mi sembra di viverlo adesso mentre lo racconto.
Abitavamo nell'appartamento al piano posto al disopra della caserma e mi bastava scendere una rampa di scale e bussare alla sua porta per rifugiarmi nell'ufficio di papà. Mi mettevo seduta lì, di fronte a lui, come se fossi un testimone da interrogare, mettendomi a colorare i miei disegni con i timbri colorati e poi li firmavo con il suo "Comandante di Stazione" e siglavo sopra diciture indecifrabili, come un vero carabiniere. Lui era lì, continuava a lavorare, serio e impegnato, al suo pc, e ogni tanto mi dava un'occhiata, onde evitare che scarabocchiassi denunce o procure importanti. Quando bussavano i carabinieri per chiedere informazioni e mi trovavano la, era come una festa. I più anziani mi prendevano in braccio e giocavano con me chiamandomi "a figghia ranni do maresciallo!"*, i più giovani, invece, mi salutavano con grandi sorrisi battendo sulle mie codine qualche affettuoso colpo di mano. Ero come una piccola mascotte della caserma e questo mi piaceva tanto, mi faceva sentire come in una seconda casa, il mio posto sicuro. Quando suonavano alla porta però, papà mi riaccompagnava all'uscio e mi intimava di tornare a casa perché doveva aiutare qualcuno, probabilmente.
* "La figlia primogenita del maresciallo!"
Per lui non era lavorare, per lui era come un costante aiutare le persone che, se si recavano da lui, era sicuramente per chiedere un aiuto.
Quella sua dedizione e passione mi coinvolgevano a tal punto che anch'io, nel mio piccolo, avevo già capito da quale parte schierarmi, fin dall'infanzia. Ricordo di una volta in cui mia nonna, abilissima sarta come mia madre, smantellò una vecchia e rovinata divisa di mio padre taglia 52 per ricavarci una taglia 10 anni per me e far sì che avessi il vestito di carnevale più bello e realistico tra tutti i bambini vestiti in maschera in città. Mi sentivo la più bella con quell'abito realizzato appositamente per me e ricavato da quella divisa che mio padre aveva indossato per anni con orgoglio e passione. Nessun abito di principessa mi avrebbe resa più felice e orgogliosa di quella mini divisa da carabiniere che portavo a testa alta tra tutti i bambini della città. Ma la vita di un carabiniere è sempre in movimento e tra un trasferimento e l'altro ho imparato presto a non creare legami troppo forti con le persone, o almeno ci provavo, anche con la famiglia. Andavamo a trovare i miei nonni paterni nelle puglie e quelli materni nella Sicilia orientale di tanto intanto e tornare alla routine era sempre traumatico. Abbandonare la merenda a pane, olio, sale e rosmarino di mia nonna, le lezioni di briscola di mio nonno, i pomeriggi sul letto con i miei cugini, le corse sulla spiaggia coi piedi bollenti, mamma che mi svegliava per andare al mare, mio padre spensierato insieme alle sue sorelle.
È ancora forte il ricordo che ho di mia nonna appoggiata all'angolo del muro esterno della cucina che ci guarda andar via piangendo, con la solita gonna lunga fino le caviglie e il grembiule che non toglieva mai e la lacrima di papà che gli rigava il volto che non voleva mai dare a vedere. Ma questa era la nostra vita, il nostro destino.
Quegli anni, comunque, passavano gioiosi, io crescevo, formavo la mia personalità e studiavo, coltivavo le mie passioni e mio padre continuava ad appoggiarmi in tutto, cercando di essere quanto più presente possibile nonostante i turni e gli impegni di lavoro.
Dopo gli studi e dopo una vita passata ad ammirare la vita di mio padre, la scelta che avrei voluto fare sarebbe stata quella di seguire le sue orme e diventare un carabiniere anch'io, ma negli anni mi ero dedicata auna passione ancora più grande e che sognavo di intersecare col mondo così vicino di mio padre: la fotografia forense. La mia prima macchina fotografica è stata un regalo dei miei genitori, un po' come dire: "Prendi questa macchina e rivela al mondo chi sei e cosa vedono il tuo cuore e i tuoi occhi." Mi hanno incoraggiata a studiare, a provare, a sperimentare. E da lì non ho più smesso.
Mio padre era un partigiano della libertà: non mi ha costretta mai a nessuna scelta, mi ha guardata cadere senza giudicarmi ma lasciando che trovassi dentro di me le risorse per superare un fallimento. Mio padre ha creduto in me anche se non me l'ha mai detto, ma spesso gli occhi parlano senza dire una parola. Era dedicato al suo lavoro e questo è stato per me come un sentiero chiaro da percorrere, sempre dalla parte degli ultimi lottando per le ingiustizie.
Dopo la laurea in fotografia e diversi corsi di formazione finalmente il mio sogno si realizzava e dopo svariati colloqui sono riuscita a ottenere un posto come fotografa forense per un'azienda che collaborava con il comando regionale dei carabinieri: mi mandavano in giro per le città per fotografare scene del crimine. Mi sono sempre appassionata alla scienza, alla criminologia e alla medicina legale, e questa è stata la mia occasione di conciliare tutte le mie passioni in una sola attività.
Se dovessi dare un consiglio a qualcuno gli direi che se ha una passione, qualunque essa sia, qualcosa che lo faccia sentire grato di svegliarsi al mattino, dovrebbe fare di tutto per perseguirla.
Fate ciò che vi piace, senza farvi scoraggiare da nessuno.
Adesso vi lascio entrare nell'ottica del mio lavoro: è importante che un fotografo specializzato in immagini forensi, come me, abbia una chiara comprensione di ciò che le leggi richiedono e che il suo lavoro sia ammissibile come prova. La conoscenza dell'anatomia umana è considerata utile per scattare foto che descrivono chiaramente una lesione o un pezzo di prove importanti su un corpo e anche per questo è importante che un fotografo forense si rivolga a medici per assicurarsi che le sue fotografie siano tecnicamente accurate. Il lavoro di un fotografo forense di solito gli richiede di presentare i suoi risultati a giudici e giurie in procedimenti in aula. Viene, quindi, regolarmente convocato per testimoniare delle sue interpretazioni delle fotografie. Ciò richiede normalmente la presentazione di grafici visivi per contrastare e confrontare scene ed evidenze.
Immaginate la mia giornata tipo: scatto foto ai cadaveri, elaboro le immagini, mi confronto con le forze dell'ordine, vengo convocata in aula, spiego le mie fotografie e ricomincio. Non è proprio quello che Ansel Adams affermava: "Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta, se devi spiegarla vuol dire che non è venuta bene" ed io passo giornate intere a spiegare ciò che fotografo, come lo fotografo, perché lo fotografo, ma il mio lavoro è differente, mi ripeto spesso.
Ed è qui che inizia la mia storia.
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Carissimi lettori,
eccoci arrivati alla fine del primo capitolo. La mia storia, intersecata a questo racconto di fantasia, sta per iniziare e sono emozionata di conoscere le vostre impressioni e i vostri consigli.
A breve conoscerete la protagonista, Adele, vi sembrerà quasi fredda e distaccata dal mondo, ma il suo lavoro implica anche questo. Ciò che invece le scalda il cuore è suo padre e la sua famiglia. Quanti come lei?
Ho inserito delle colonne sonore per ogni capitolo, sarebbe bellissimo se le ascoltaste mentre leggete, sarà un catapultarsi ancora di più nella vita di Adele.
Collateral Beauty, un film unico!
A presto
Margherita
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