7.. Non ti vedo più
Ci si abitua a tutto
quando non rimane più niente
-Natalia Ginzburg
Era una mattina di metà autunno quella che mi rovinò l'esistenza.
Non che fosse ridotta bene, intendiamoci, solo... non credevo fosse quello ciò che la vita aveva in serbo per me.
Avevo la febbre alta, mio fratello era a scuola.
Mi ero appena alzata dal letto, mentre trascinavo i miei piedi scalzi sul suolo non igienico.
Mi stringevo nel mio pigiama rosa.
Tremavo, ma contemporaneamente sudavo freddo.
Cercavo le medicine per alleviare la pesantezza della mia testa, il tremolio delle mie gambe, quella strana sensazione che non andava via nemmeno con una doccia.
Non me ne lamentavo, rigavo dritta in punta di piedi per non disturbare mio padre e mia madre.
Non ero molto in equilibrio e la mia cera era pessima, se non spaventosa.
Ricordo quanto il corridoio di casa fosse lungo quando lo percorrevo.
Non sapevo dove andare, ero stordita per far luce su quel che dovevo effettivamente fare.
Udii a seguito un cigolio.
Una schiena coperta da una maglietta beige portava il peso di una pesante valigia.
Quella persona era di spalle, ed io, talmente silenziosa da non farmi scoprire, rimanevo testimone di un gesto che sarebbe dovuto rimanere all'oscuro.
«Dove vai?», la mia voce si era abbassata, dovuta all'influenza di stagione che mi aveva colta.
La risposta non mi giunse, così presi il suo bagaglio.
«Papà ti sta aspettando di sotto? Era una sorpresa? Stiamo andando in vacanza? Non dirmi che ho rovinato tutto!».
Ero sempre stata sveglia, matura, nonostante l'età che avevo all'epoca.
Era una constatazione stupida, ingenua, quella che avevo avuto.
Bassa, per i miei standard.
Eppure, la feci.
E la delusione era eccessiva, nonostante fosse stato una delle mie errate teorie.
«Ti aiuto, pesa», la caricai in ascensore.
Tossii.
«Quindi? Dove andiamo?».
La portiera dell'ascensore si era spalancata, rivelando la porta poco più lontana che dava la vista sulla strada.
Afferrò il manico che tenevo saldo io.
«Non andiamo da nessuna parte. Solo io».
«Come?», la mia voce mi morì in gola, la temperatura salì drasticamente.
Vorrei si fosse trattato di lavoro, ma lei era disoccupata da sempre.
«Me ne vado».
«Vengo anch'io. Veniamo anche noi», risposi senza pensarci, stringendo la cinghia del trolley.
«Amore, questo è impossibile».
«Certo che è possibile. Tu mi vuoi! Tu... mi vuoi bene!», i miei occhi erano rossi per la febbre, le mie corde vocali minacciavano di rompersi.
Poggiò la mano sulla mia, come quando me la accarezzava per dirmi che sarebbe andato tutto bene.
Spalancai quindi le mie braccia per ricevere un abbraccio, come faceva da quando ero nata.
Lei, invece, strappò dalla mia stretta quanto di suo e si girò.
«Mamma...», sussurrai.
«Sono tua figlia. Io... ti voglio bene. Ho bisogno di te», continuavo a ripeterle seguendola.
Ero bloccata in un incubo che si stava facendo piano piano strada dentro di me.
«Ti prego, non te ne andare...».
La inseguii, mentre il freddo mi riempiva i polmoni, mi provocava brividi, mi sbalzava la temperatura corporea.
I respiri irregolari, affaticati, la mia grinta fino all'ultimo.
«Non mi lasciare qui, non ci lasciare qui...non...puoi...».
La rincorsi.
Sento ancora la sensazione di pesantezza delle gambe sorreggere un peso più grande di loro, mentre ogni passo in aggiunto sembrava distruggermi, mentre ogni speranza veniva sgretolata.
I miei piedi bruciavano sotto al terreno, la delusione divorava ogni sentimento assieme all'incomprensione.
La fatica era tanta, ma il calore, il suo profumo materno, era il mio desiderio più ambito.
«Perché te stai andando, si può sapere? Resta, perfavore! Rimani!», le gridavo contro, cercando di raggiungerla con i mezzi che avevo.
Lei però era troppo lontana.
Passo dopo passo, si allontanava da me, lasciandomi sul ciglio della strada.
Quando arrivavo ad esserle vicina al punto da poterla finalmente toccare, tastare, si rivelava più forte nel lasciarmi andare.
Io, quella forza, non l'avevo.
Non me l'aveva data in dono.
Non mi aveva insegnato ad affrontarla.
Il giorno prima c'era, quello dopo non più.
Fu allora che capii che ogni persona che avessi conosciuto un giorno sarebbe potuta uscire dalla mia vita, morta o meno.
Quel giorno promisi a me stessa di non fidarmi più.
Quel giorno imparai la cattiveria umana.
Avevo tredici anni.
Quell'incubo era la realtà e non sarebbe bastato uno strattone, una qualche medicina, per uscirne.
C'ero dentro.
Fin troppo.
E quell'assenza al femminile mi perforava le ossa, mi rendeva asmatica, timorosa, patetica, paranoica.
Una parte di me aveva raggiunto mia madre e non ci sarebbe stato niente che avessi potuto fare.
Ci avevo provato, ma non era stato sufficiente.
Io, forse, non ero stata abbastanza.
Se solo avessi saputo... se solo fossi stata da altra parte, forse avrei sofferto meno.
Avevo visto il mio premio venirmi soffiato via, senza gioco di consolazione.
Rimasi ore sul marciapiede, sotto la pioggia, ad aspettarla.
Rivivevo la sua schiena mai voltarsi verso di me per assicurarsi se fossi ancora dietro.
Forse l'unico peso nella faccenda ero io.
Rimasi ad aspettarla, senza farmi avvicinare da nessuno o illudermi.
Aspettavo.
Giorno.
Pomeriggio.
Notte.
Ma lei non tornò.
Se mi fossi sentita male, lei non ci sarebbe stata.
Anche se avessi cercato di attirare la sua attenzione, se mi fossi addormentata lì non mi avrebbe raccolto da terra.
Era andata.
Mi aveva abbandonata.
Mi aveva lasciata.
Io ero lì.
In quel punto.
La mia colpa più grande era quella di starla aspettando ancora.
Un angolo remoto di me, aspettava che facesse ritorno poche ore dopo l'accaduto, che mi ridesse in faccia dicendomi che si trattava di uno stupido scherzo.
Quell'amaro in bocca era un composto di mancanza.
Forse era quello che si provava quando qualcosa va a pezzi.
Mentre i miei compagni toglievano le penne per imparare la sottrazioni e piangevano per essere state lasciate dal ragazzo dopo un mese di frequentazione, io rimanevo ad osservare quel che ne era rimasto per chiedermi se effettivamente se ne sarebbero andate anche loro.
Quella ragazzina indifesa mi faceva sentire la sua presenza ogni tanto.
Forse aveva ragione Peter Pan.
Fa schifo crescere, ma fa ancora più schifo crescere prima del tempo.
Il passato ci fa crescere, ma ci butta anche giù.
Non sapevo se sarei mai risalita in superficie.
Non seppi perché ci stessi rimurginando dopo anni, eppure quel fantasma non mi dava tregua.
Tornava quando voleva, senza preavviso.
E mi affondava ancora di più.
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