5. Vai via da me
Lui ogni tanto spariva, poi tornava. Le sue cose erano lì. Lei era solita riassumere la situazione in termini molto elementari. Mi sono innamorata di uno stronzo, diceva
-Anonimo
Sabato era arrivato.
Ricordo che arrivai addirittura in anticipo all'entrata del locale, con un vestito corto non troppo nero e dei tacchi.
I miei capelli castani erano raccolti in uno chignon alla francese, i miei occhi erano contornati da del mascara e sulle mie labbra un filo di rossetto.
Ero carina, o almeno mi ritenevo niente male.
«Hayra», mi corse incontro e mi prese per mano.
Istintivamente la ritrassi.
«Chase».
Non si scusò per il ritardo, fece finta di niente.
Indossava una canottiera bianca, dei jeans, delle scarpe nere, come se si fosse vestito all'ultimo minuto.
Non badai ad essere cortese, perché non dovevo rendere conto a nessuno all'infuori di me stessa.
«Vogliamo entrare?».
«Sì», risposi incerta.
Ci avviammo verso il posto che lui aveva prenotato e su cui mi sistemai per bene.
Ordinammo qualcosa di leggero, mentre mi sorrideva di continuo.
Quasi mi irritava, quasi mi annoiava.
Mi piaceva, mi attirava, ma allo stesso tempo mi annoiava.
Sistemò il suo ciuffo verso sinistra, e mi versò del vino rosso sul bicchiere di vetro.
Strinsi il pugno da sotto il tavolo, poi lo aprii piano.
«Scusa, io... non bevo», non seppi rispondere al perché mi fossi scusata, dopotutto ero capace di intendere e volere, di decidere per me e lui non aveva il diritto di parola al merito.
«Andiamo, non dirmi che non lo reggi».
«Chase. Ho detto di no», affermai lentamente, per garantirmi che mi avesse ascoltato attento.
«Oh...allora scusa», si rimangiò tutto, scambiando i due calici.
Il cibo arrivò, ma mi stavo seriamente iniziando a stufare.
«Vado un attimo in bagno», mi alzai quasi con grazia e rimasi dentro al luogo pubblico per un buon quarto d'ora.
«Ci hai messo tanto», constatò, ormai a piatto vuoto.
Non mi aveva aspettata, non si era fatto problemi.
«C'era fila», dissi solo, riprendendo a mangiare.
«Non ti ho più vista a scuola», sputò di botto.
«Non ci tornerò più», tossii appena per cercare di cambiare discorso.
«Perché?».
«Perché l'ho voluto», mentii, bevendo l'acqua.
«Posso fare qualcosa per te? Hai bisogno di soldi? Posso-».
«No. Non ho bisogno del tuo contribuito. Nè dei tuoi soldi. Non voglio essere maleducata, ma ti stai intromettendo in qualcosa che non ti riguarda».
Abbassò lo sguardo, capii quindi di esser stata dura.
«Parlami di te», ripresi subito dopo.
«Ecco... non c'è molto. Sono un ragazzo normalissimo, sono figlio unico, i miei genitori sono due avvocati richiesti e ho vissuto a Chicago per un breve periodo. Mi piace viaggiare, muovermi».
Annuii.
«E tu? Chi sei davvero, Hayra?», mi scrutò, al punto da mutare e controllare la mia espressione.
«Direi che questa cena finisce qui», sorrisi forzata.
«Aspetta, ho fatto qualcosa di sbagliato?».
«Dovresti tenere a freno quella lingua che ti ritrovi».
«Può essere, ma volevo solo conoscerti».
«Questo mi fa capire che tu non hai capito niente di me».
Pagai dopo aver chiesto il conto e il cameriere, un uomo alto con i baffi che gli coprivano la bocca, osò guardare il ragazzo come per dire "hai fatto una cazzata amico".
Mi facevo quasi paura con quanta facilità riuscissi a spezzare relazioni di qualunque tipo.
Ero brava negli addii, davvero ferrata.
«Jane? Ti va di passare a casa di Kevin? C'è mio fratello e ora come ora non posso passare a prenderlo. Ti devo un immenso favore».
«Sì, vado subito».
«Ti adoro».
«Lo so, baby girl».
Riattaccai, nel frattempo uscivo dal ristorante.
In poco tempo, avevo iniziato e concluso un qualunque cosa potesse esserci tra noi.
La cosa più strana?
Che non me ne importasse assolutamente nulla.
Presi la mia macchina - che fortuna non avermi fatto portare da lui - e guidai fino casa.
Il tragitto era distante e poco illuminato, con una strada che era più che scoscesa.
Tastai in cerca delle chiavi, dopo di che chiusi l'auto e controllai se avessi lasciato qualcosa dentro.
«Ehi».
Era una voce del tutto differente da quella di Chase o di Kevin.
Una voce maschile, con un tocco in più.
Mi sentii male.
Mi voltai di scatto, rischiando di battere la testa che forse sarebbe stato anche meglio.
«Ash», sussurrai con un filo di voce.
«Ti trovo bene».
«Anche tu...», mormorai, incapace di dire altro.
«Ho perso il volo per New York», disse solo, aspettando che io riprendessi il filo e lo tempestassi di domande.
«E ho pensato di venire a farti visita», continuò dopo qualche attimo di silenzio.
«Ehm... non dici niente?», continuò.
«Il mio silenzio dovrebbe bastarti», feci per superarlo, se non fosse che lui avesse i riflessi pronti e sull'attenti.
Mi prese il polso, facendomi girare il capo verso di lui.
«Dove sei andata così bella?», mi sussurrò ad un palmo dal mio naso.
«Non sono cazzi tuoi», sbottai stanca, tirandogli un calcio ben assestato dove non batte il sole.
Scoppiò a ridere.
«Adesso ti riconosco, mia cara».
«Che diamine vuoi?».
«Voglio che ti tolga i vestiti solo per me».
Il mio cuore fece una capriola.
Lui si trovava lì, davanti a me, desideroso di sesso.
Non si era fatto vivo per due anni e mezzo, e si trovava lì, dinnanzi a me.
Era sempre stato uno dalla faccia tosta, sfrontato, senza ritegno.
Quella luce negli occhi non l'aveva mai perduta, il suo unico modo di squadrarmi come fossi sua e solo sua, quelle fossette strafottenti al lato delle labbra carnose che si creavano quando sapeva di averla vinta, mi stavano richiamando alla mente.
Mi sentii un pesce fuor d'acqua.
Mi sentii incoerente.
Il momento in cui lui se n'era andato, io quell'addio non lo avevo trattenuto.
Sentivo, sentivo che stavo cedendo.
Sapevo, sapevo che sarei caduta e che non ci sarebbe stato lui a sorreggermi.
«Hayra», richiamò la mia attenzione.
Guardai altrove, sperando che la mia migliore amica venisse a salvarmi.
Mi si avvicinò con pochi passi e iniziò a spostarmi i capelli sulla schiena, piuttosto che sulle spalle.
Mi scoprì il collo, in modo da aver via libera.
Mi conosceva.
Sapeva i miei punti deboli.
I miei punti più vulnerabili raggiunti solo ed esclusivamente da lui.
Attesi la rabbia, ma non giunse quella sera.
Avrei dovuto scacciarlo, dirgli di non farsi vedere più.
Eppure, la mia ferita non era stata disinfettata bene.
«Le mie mani vogliono toccare solo il tuo corpo, vogliono sfiorare ogni minimo lineamento di te. Il mio, di corpo, ha bisogno del tuo per far sì che questo funzioni», indicò il suo membro ancora ferito per il mio atteggiamento.
Ero ancorata al suolo, imprigionato da un qualcosa di tremendamente su di giri per essere raggiunto.
Emise un sospiro fiebile precisamente vicino all'incavo del mio collo.
Ogni parte di me non riusciva a liberarsene, o forse non voleva.
Ero immobilizzata, presa totalmente alla sprovvista.
Nel piccolo di giardino di casa mia, avrebbero potuto vederci tutti.
Non me ne importò.
E mi fiondai tra le braccia della mia nemesi.
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