49. Il gomitolo

Affacciata al terrazzo di casa che dava sull'asfalto, lasciavo che il caffè mi riscaldasse dal freddo a cui l'Inghilterra si stava preparando.

Stretta sul mio già maglioncino di lana a metà ottobre, fissavo la strada piena di passanti e turisti.
Con le treccine sulle spalle che mi toglievano qualche anno rispetto a quelli che avevo, accarezzavo con un sorrisetto l'anello di fidanzamento guardando il cielo.

Dovevo andare avanti, senza Kevin.
Mi aveva promesso che sarei stata felice, che avrei avuto un lietofine, ma non era specificato che fosse lui quello che mi avrebbe fatto toccare le nuvole.
Glielo avevo giurato, era tempo di guardare avanti.
Sfiorai il materiale di cui era fatto, stuzzicandolo sul mio indice.
Lo mossi fino alla punta del dito, poi lo rispinsi indietro.
Seguitai per altre due volte, stuzzicando i miei sentimenti disorientati.

Le mie dita scorrevano sui graziosi capelli intrecciati di due elastici diversi e di due lunghezze diverse.
Lasciai un respiro nascondersi nell'ossigeno delle sei di sera, dopo di che sfilai la bigiotteria.

Guardai la mano vuota, la chiusi e aprii.
Era abituata a portare quel piccolo peso in più da diversi anni, era estremamente strano.
Ne era rimasto il segno, non lo avevo tolto una volta neanche per la notte.
Morsi il labbro inferiore, riposi poi l'oggetto costoso dentro il cassetto.
Non so quando lo avrei tirato fuori, ma non vederlo mi avrebbe fatto sentire meno in lutto.

Un dolore lancinante alla tempia sinistra mandò il segnale che forse era il caso di rientrare.
Il mal di testa era tornato nella mattinata stessa, dovevo solo rilassarmi.

Mi strinsi dentro il mio completo pesante e rientrai dentro.
Bussai alla camera di Fred, mentre lui era impegnato a studiare.
Mi sedetti in silenzio sul letto, aspettando che mi desse il segnale per parlare.
Le sue sopracciglia erano inarcate, mentre la sua mente elaborava per ricordare le parti fondamentali di epica.

«Conosci il mito del Minotauro?», mi domandò, toccandosi la fronte.

«Teseo e Arianna, come dimenticarli», sorrisi appena.

«Allora studiavi sul serio!», si girò verso di me con la poltrona girevole.

«Pidocchio, stai dubitando di tua sorella maggiore?», gli lanciai contro il cuscino che gli spettinò i capelli.

Sì fece serio.

«Tu cosa ne pensi? Della mitologia, intendo».

«Era un buon modo per dare una spiegazioni a certi fenomeni. Questo, in particolare mi aveva colpito tanto».

«Tu pensi che Teseo e Arianna si amavano tanto?».

«Io... sì. Il loro simbolo è il gomitolo. Sai perché?».

Lui scosse la testa, chiudendo il libro.

«Perché erano legati da esso. Durante l'avventura nel labirinto, Teseo si era basato su quell'ammasso di filamenti. E da chi erano condotti?».

«Da Arianna che lo aspettava all'uscita», mi rispose ovvio.

«Vedi? Lui si fidò ciecamente di lei, al punto da rischiare. Erano legati letteralmente ma anche psicologicamente di un amore che andava oltre la morte. Lui sapeva che, al primo passo falso, gli sarebbe bastato seguire quello per arrivare a lei e raggiungere la salvezza. Sapeva che la porta giusta del suo cuore era intestata a lei, legati entrambi da quel filo che tanto li perseguitava perché li riconduceva sempre all'altro».

«Ma...».

Non mi aspettai un suo dubbio dalla mia spiegazione, così portai una mano che mi soreggesse il capo.

«Se lui la amava veramente...perchè l'ha lasciata?».

Due tocchi alla porta mi fecero trapidare dallo spavento.
Ero immersa nel bel mezzo della storia, senza aver guardato l'ora.

Chase, vestito rigorasamente in felpa e ciabatte, ci fissava stranito.

«È pronto».

Avevo perso la cognizione del tempo, così guardai Chase per ringraziarlo di aver preso la mia parte al posto mio.
Odiavo dover essere la schiavetta femmina della casa, ma dovevo sottostare alle condizioni per la quale potevo rimanere lì.
Non era da me, in quanto femminista accanita, ma non potevo farmi sentire perché ne sarebbe andato il futuro di mio fratello.
Era lui la ragione per cui facevo quel che facevo, quel fagottino che era entrato nella mia famiglia e che sapevo dal primo momento in cui l'avevo visto che sarei stata io a dovermene prendere cura.

Lo avevo concepito dal zero amore negli occhi di nostra madre, dal capo chino di nostro padre e dalle sue spalle stanche di lavorare.
Quello, quello apparteneva ad una verità che più si avvicinava a una delle tante famiglie del ventunesimo secolo:
Non tutti i genitori meritavano di avere figli.

Ero una senza rancore, diretta.
Non mi importava dei perbenisti che dicevano che non si augurano sventure.
Io a quei due auguravo la piena sterilità, se solo non fossi nata.
Di senso parallelo, auguravo agli sterili tutti i bambini che desiderassero, a patto che li crescessero come dovevano.

Non ero un preservativo bucato, ma non capivo come un amore fosse potuto finire in quel modo, dopo tutta una vita assieme.
Con che coraggio mia madre tornava la mattina dopo aver avuto notti di amore con altri uomini che mi aveva presentato di nascosto dai dieci anni a venire.

Il vino bianco fu versato nel bicchiere di Ash, il quale bevve per riempirsi lo stomaco prima di mangiare.
Vedevo la sua trachea muoversi mentre beveva tutto d'un sorso, le sue labbra bagnate e qualche goccia che gli bagnava il petto coperto dalla camicia.
Si asciugò la bocca con il braccio, puntandosi su di me.

Distolsi subito lo sguardo, allungando il bicchiere verso di me e riempiendolo d'acqua.

«Ci sono perturbazioni questo weekend, da domani fino a lunedì», ci avvisava Chase diretto verso il telegiornale.

«Papà è solo là fuori», mi sussurrò mio fratello all'orecchio.
Io biascicai un "ah-ah" e cambiai rotta di argomento.

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