37. Ti odio

Uno, due, tre erano i passi che sentivo percorrere verso la mia parte.
Stretta al cuscino, avevo nuovamente chiuso a chiave la porta della mia camera.
Non vi sarebbe entrato nessuno.

Con la schiena verso il legno di essa, fissavo un punto preciso che avevo trovato a caso.
Il rumore dei vestiti strusciare verso lo stesso materiale di mogano mi fece comprendere chi ci fosse al di là di quel che ci divideva.

«Vattene», risposi di conseguenza alla mia impulsività.

Non fiatò, ma percepivo quanto i suoi respiri fossero azzerati.
I miei erano elevati, al di sopra della norma.
Non li sapevo regolare, un dolore al basso ventre mi aumentava il panico nel profondo del mio carattere paranoico.

Niente mi avrebbe calmata, nemmeno qualche illusione autoimposta dalla sottoscritta.

Passó una mano sui capelli scuri, mentre me lo immaginavo con le gambe al petto e uno sguardo non accusatorio.
La sua mente non era piena di insidie, tanto era infantile su certi aspetti.
Però il suo enigma irrisolvibile che lo dannava ero proprio io.

Ero il suo libro aperto scritto in una lingua sconosciuta e intraducibile.

Non parló, quel pomeriggio in cui il cinguettio degli uccelli sul ramo dei pochi alberi che avevamo attorno a casa erano rimasti in sospeso per ascoltare.

Nemmeno io parlai di altro, non me la sentivo.
Guardai ancora la foto che tenevo nel portafogli, quella che rappresentava Kevin con una felpa nera.

Guardai poi in alto per non permettere di piangere.
Conoscevo quel bruciore interno dovuto al trattenere un pianto liberatorio che in fondo non avrebbe risolto assolutamente nulla.

«Hayra», sussurrò.

Odiai il mio nome per esser uscito dalle sue labbra che più volte avevo assaporato.

In uno scatto spalancai il portone e mi scontrai con quegli occhi marroni che mi fecero gelare il sangue.
Rimasi paralizzata, sciolta, rilassando i muscoli in tensione.
Non riuscivo a parlare, a pensare, a muovermi.

Ero incatenata al suo sguardo e non riuscivo ad uscirne.

Era come se fossi imprigionata nelle sabbie mobili e non riuscissi a liberarmene.

Lui era fermo immobile come una statua, con la bocca socchiusa e gli occhi sgranati nei miei.

Perché rimanevo muta persa nei suoi occhi era un mistero, ero presa dal suo sguardo.
Catturata da una forza da cui non potevo scappare perché invisibile, potente nella sua attrazione.

Non mi concentrai su cosa indossasse, sulle sue mani, sul suo viso.

Erano i suoi occhi.

Erano sempre stati i suoi occhi.

Mi buttano giù da un palazzo, mi facevano risalire dagli abissi.
Mi facevano da malattia e da antidoto.

Trovai la scappatoia di non guardarlo più, cercando la forza di rispondergli.

«Ti detesto».

«Hai ragione a farlo».

Sfiorai la sua spalla nell'allontanarmi dal calore che sprigionava, mentre il freddo mi congelava.
Un amaro sapore di convinzione, di essere fuori dai miei reali obbiettivi.

Lo avevo lasciato come un imbecille là dove era rimasto.
Non m'importava, ad essere sincera.

Tornai dopo tempo a prendere Fred a scuola.
La vecchia routine di vederlo uscire con lo zaino trascinato dietro mi era mancato.

Lo salutai con una mano e un piccolo sorriso, lui si guardò attorno e mi fece un cenno.
Mi raggiunse.

«La macchina?».

«Non molto lontana. Com'è andata oggi?».

«Ecco... ci sono i colloqui da prendere con i professori. Iniziano la prossima settimana i ricevimenti».

«Ho dato un occhiata alla tua pagella di inizio anno, non stai andando male male. Sul serio».

«Sì... se lo dici tu».

«Mi dispiace averti trascurato ultimamente».

«Me la so cavare, non ti preoccupare. Ormai», alzò le spalle.

«Papà lo hai sentito?».

Lui sorrise appena.

«Non devi chiamarlo "papà" solo perché ci sono io».


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