32. Guai
10 marzo
Caro diario,
mia madre oggi ha tentato di togliersi la vita.
L'avevo trovata con la testa verso la vasca e i piedi verso la porta.
Era ancora cosciente, ma lo sarebbe stata per poco. Non diceva niente, mi guardava solo, mentre il sangue scorreva dalle sue braccia piene di graffi.
Così chiamai il 911.
Ero sola in casa, avevo paura ma allo stesso rimasi pacata perché non volevo che si agitasse anche lei.
Quando si sveglió in ospedale, mi disse che era colpa mia se era ancora viva, che non avrei dovuto immischiarmi in quello che non mi riguardava.
Lei era la mia vita e...
Sfiorai le pagine del diario ingiallito dal tempo.
Mio padre non era presente in quanto lavorasse di continuo, questo mi fece attaccare a lei come unica figura genitoriale dopo la morte dei nonni.
Una bambina dagli occhi marroni e i lunghi capelli castani si stava pettinando i capelli.
Katherine, la mia genetrice, interruppe il mio gesto quotidiano.
«Che stai facendo?».
«Mamma, mamma! Guarda, sono una principessa!», volteggiai per mostrarle l'abito che aveva lavorato con le sue stesse mani.
«Sono soltanto favole. Su, ora a letto. È tardi», la donna inclinò la testa e notò un particolare nella figlia nonché io.
«Ti sei messa il mio rossetto?»_
«Ehm...sì», sorrise sinceramente, «Se sono più bella il mio principe arriverà prima».
«Quante volte devo ripeterti che non devi toccare le mie cose?», mi rimproverò rigida.
«Ma mamma... sono tua figlia», non capii come potesse averle dato fastidio se avessi provato qualcosa di suo, pensavo che le avrebbe fatto piacere.
«Mi dispiace ma_», mi strappò di mano il rossetto, prese un fazzoletto e lo passò sulle labbra della bimba che impaurita la guardava, «I principi azzurri non esistono e tu non sarai mai una principessa. E ti ripeto: questo non si tocca. È mio. Non farlo più», se ne andò, sbattendo la porta con violenza.
Non era stata la prima volta, era successo anche con il suo profumo Arrogance da donna.
Mi piaceva tanto, me la faceva sentire vicino anche quando non mi voleva fra i piedi.
«Volevo solo essere come te...», mormorai con un filo di voce.
...non l'ha mai capito.
Le comprai dei fiori per farmi perdonare, erano delle margherite, le sue preferite.
Ma mio padre mi disse che sarebbero appassite presto e così non gliele diedi mai. Lui era agitato, troppo agitato, al punto da sbattermi al muro con violenza. Mi urlava contro dicendo che era colpa mia perché non le avevo voluto abbastanza bene per farle amare la sua vita.
Era il giorno del mio suo quarantesimo compleanno.
Dopo questo episodio, le acque si calmarono ed entrambi si fecero perdonare.
Sai, le solite frasi che si dicono ad una bambina.
"Scusami amore mio. Ti prometto che non lo farò più. Sei la mia vita".
Ma se detestava la sua vita, significava che detestava anche me?
Sentivo mio padre piangere ogni notte e spesso mi nascondevo nel suo letto per fargli compagnia.
«Se mamma dovesse tornare, smetteresti di piangere, papà?», gli chiesi una sera.
Mi piace pensare nella mia testa che siano ancora insieme e che si amano più forte di prima, che la lontananza sia servita a quello.
Quel che però mi fa male è sapere che non è così.
Che si sono trovati presto, a quattordici anni, e che il tempo ha reso fragile quell'amore che ha fatto nascere me.
Sono stata uno sbaglio dall'inizio, e non lo dico per dire.
Se davvero ami, non tradisci.
Se davvero mi ami, non mi abbandoni.
«Hey», la voce squillante della mia migliore amica mi fecero scattare come una molla e chiudere il quaderno.
«Che si dice bellezza?», le sorrisi alzandomi.
«Beh...oggi è il dieci di marzo. Volevo stare un po' con te, ti va una serata tutta pepe?».
«Mi spaventi sul serio».
«Discoteca quindi, è un sì».
«Io non ho risposto in realtà».
«È un sì».
«Ma-», mi bloccai guardandola calciare una scatola per scarpe contenere un vestito splendido piegato e ripiegato.
«Per te».
Odiavo da sempre la disco; mi sentivo soffocare in quelle quattro mura, mentre la gente spingeva. Una volta entrato in pista, non ne uscivi facilmente. Bibite alcoliche, balli da spogliarellisti, incoscienza, musica da stimpanare.
Posai i miei occhi sul tessuto morbido, non esageratamente lungo e nemmeno corto, privo di spacchi come piaceva a me, semplice e di colore nero.
«Quanto ti è costato?».
«È mio».
Non le credevo minimamente, non l'avevo mai vista indossare quel vestito e la memoria non mi ingannava.
Aprii le braccia.
«Chi sei tu, che ne hai fatto della mia Hayra?», si ritrasse da quel gesto affettuoso.
«Sono io, non sono posseduta. Non ora, quindi muoviti prima che cambi idea», le sorrisi, avvicinandola a lei.
***
Serata da sole ragazze era il massimo.
Niente ragazzi tra noi, niente problemi, solo cose che non mi piacevano ma che allo stesso tempo mi distraevano.
Le luci colorate venivano sparate addosso, le grida di divertimento erano vicine quanto insopportabili.
L'aria era pesante, insostenibile, asfissiante.
Un ragazzo carino dagli occhi azzurri mi versò della Sangria che posai sul tavolo.
Finsi di volerla lasciare lì per beverla dopo, ma i suoi occhi luccicarono immediati.
«Hayra, sei davvero tu?».
Lo guardai bene; non mi diceva assolutamente niente.
Avevo quell'impressione che non fosse una faccia nuova, ma ero abbaliata dalla situazione al punto da non decifrare nemmeno il timbro vocale.
«Sul serio non mi riconosci?».
Lo guardai ancora.
Provavo imbarazzo quasi, su come lui mi avesse riconosciuto in immediato, io ancora non capivo chi fosse.
Occhi azzurri mare, capelli neri pece, alto, fisico notevole.
«Sono passati un bel po' di anni, avrei dovuto aspettarmelo».
«Come mi hai riconosciuta tu?», ci gridavano a vicenda per via della circostanza fastidiosa e non adatta al dialogo.
«Non si incontrano molte persone che non bevono in discoteca».
Fu allora che un sorriso sincero spuntò.
«Noah...».
«Allora ci sei arrivata alla fine».
Noah Gillies
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