22. Cambio di programma


«Hayra! Hayra!».

Al richiamo di mio fratello mi asciugai le lacrime, mi pettinai i capelli e forzai un sorriso davanti allo specchio.

"Okay, puoi farcela", mi ripetei, spostando il cuscino bagnato sotto le coperte.

«È aperto».

«Non puoi capire cos'ho trovato! A quanto pare, per una settimana, potremmo vivere in una villa vicina al centro di Londra spendendo un terzo di quel che paghi di solito! Non è fantastico? Sette giorni di pace!».

«Aspetta, aspetta. Ma sei sicuro? Con chi hai parlato?».

«Con un amico fidato, tranquillizzati. Non sono più un bambino. Ho quindici anni, lo sai».

Lo squadrai.
Effettivamente dovevo ancora accettare che mio fratello fosse ormai in piena adolescenza.

Era diventato grande, non ci avrebbe impiegato molto a superarmi di altezza.
La pubertà lo aveva accolto e mi faceva un grande effetto.
Peggio di quella volta in cui quasi mi conoscono llo
ommossi alla sua comunione.

Non potevo più baciarlo che subito mi si ritorceva contro.

Dovevo accettare che non era più il piccolo neonato che mi vomitava sui vestiti, che sbagliava le parole e mi chiedeva di continuo il significato, o che mi pregava per il passaggio a scuola.

Adesso era usava il deodorante, si sistemava a proprio piacimento i capelli, se non sapeva qualcosa cercava su Google e che prendeva l'autobus senza consultarmi.

Era questione di abitudine.

«D'accordo. Dobbiamo organizzarci per-».

«Ehm... entro due ore dobbiamo essere lì».

«COSA?!».

«Andiamo, non dobbiamo trasferirci! Portiamo il minimo indispensabile e basta! Ma tu non sei curiosa?!».

«Ah-ah...».

«Papà, ci vediamo tra qualche giorno», gli diede una pacca sulla spalla, mentre lui dormiva profondamente di lato.
Era in una posizione scomoda, con la barba cresciuta che non si tagliava da secoli, qualche bottiglia di diversi alcolici attorno.

Con il tempo, Fred aveva capito di che pasta fossero fatti i suoi "bei" genitori.
Inutile mentire oltre, prima o poi lo avrebbe scoperto.
Forse avrei dovuto farlo anticipatamente, ma quel che volevo era dargli una infanzia degna di questo nome.

Circa un ora dopo, parcheggiai con grossa sorpresa di esser riuscita a trovare il punto giusto al primo tentativo.
Una C-Max grigia a sette posti con il sigillo della Ford mi mandò già nel panico.
Guardandomi attorno, notai una Multipla blu con tre sedili anteriori davanti ben evidenti.

«Ti prego, dimmi che ti sei accurato di sapere se l'avremmo dovuta condividere...dimmi che abbiamo sbagliato indirizzo».

«Ecco perché diceva che avremmo pagato un terzo...».

Respirai a pieni polmoni, tentando di rimanere calma.

«Entriamo prima che cambi idea».

Era una villetta bianca con le persiane tinte di lilla, dall'esterno sembrava modesta.

"Per Hayra e Fredrick Stevens: terzo piano, a sinistra. Là si trovano le vostre camere. La cucina è al piano terra verso la finestra, il salotto è unito a quella. Al secondo piano potete trovare il bagno condiviso con la doccia, ma non è tutta questa grande igienità, vi avverto. Avete anche diritto ad un bagno privato ciascuno con la vasca, senza dubbio meglio di quello pubblico.
-I vostri coinquilini"

«C'è una fregatura, me lo sento».

«Smettila di essere così paranoica! Andrà benone! Siamo solo all'inizio e già sono innamorato. Pensi che ci sarà una ragazza della mia età? Magari più grande e pure bella!».

«Frena gli ormoni e torna in te. Ci conviene muoverci».

All'entrata ci apparve davanti un immenso e tortuoso corridoio.

«Ci potrei ballare, dormire e mangiare qua dentro».

«Shhh».

Era identico a come lo avevano descritto: la cucina combaciava con il salotto.
Quest'ultimo era prevalentemente rosso, divano incluso.
Una televisione di non so quanti pollici sembrava richiamarci, il tavolo immenso per colazione - pranzo - cena pure.
Il frigo era tappezzato di souvenir, calamite provenienti da diversi paesi.

Ripensando alle macchine parcheggiate fuori, una lampadina nella testa mi si accese.

«Fred... l'amico in questione è Ash?».

«Qualcuno ha fatto il mio nome? Chissà perché mi sento chiamato in causa», sorrise sttafottentemente il mio coetaneo.

«Chi è l'altro coinquilino?».

«Ti lascio alla sorpresa. Ha detto di conoscerti», scrollò le spalle battendo il pugno a mio fratello, per poi andarsene con nolochance.

Portai le valigie nella mia camera.
Questa aveva delle tendine azzurre indaco, la coperta era verde acqua, gli armadi erano bianchi latte e il tappeto al centro della stanza era di un blu chiaro.

Carina.

Per me era il sogno dei risparmi avuti.

Il bussare insistente della porta mi fece esaurire.
Non ero bipolare, ero solo spaesata.

«Cosa vuoi ancora Ash?».

«Non sono Ash».

Sbiancai ancor prima di incontrare la faccia di chi attendeva dietro la porta.

Quel timbro di voce era più sottile, maschile ma non troppo.

Chase.

«Tu ed Ash vi conoscete?», domandai diretta.

Contrasse la mascella.

«Siamo fratelli. Beh, fratellastri».

Rimasi di stucco, a contemplare la nuova nozione.

«Scusa, ora ho da fare», lo superai in fretta e cercai in ogni angolo della villa il mio peggior incubo.
Ero in cerca di guai, esattamente, ma dovevo farlo.
Sentivo di esserne in grado, anche se non sapevo fosse se fosse un torno o no.

Stava suonando il piano nel posto più insonorizzato in generale.
Il ciuffo allungato e cresciuto gli ricopriva la fronte, le grandi mani scorrevano sui tasti come il più grande musicista faceva, con quella naturalezza, passione, serenità che gli risucchiava l'anima.

In piedi davanti a lui, attesi che si accorgesse di me.

Non ci volle molto, alzò lo sguardo, senza diventare paonazzo.
I suoi tratti facciali erano tranquilli, e lo invidiavo maledettamente tanto per questo.

«Fratellastro», cominciai a monosillabi.

Alzò le spalle, suonando la scala delle noti sul piano.

Non parlava.

Non fiatava.

E questo suo modo di fare mi metteva a disagio.

«Vuoi parlane?», azzardai.

«Puoi lasciarmi suonare da solo? Non ho due anni e sto benone», mi disse, senza guardarmi.

«Penso di avere abbastanza esperienza in questo, posso-».

«Aiutarmi? Fatti un piacere ed esci da qui. Chase è il mio fratellastro da prima che i miei genitori si conoscessero. Se qualcuno deve accettare qualcosa, quello è lui. Ho una famiglia perfetta, unita, mia madre e mio padre si amano. Non ho problemi».

Diminuii la distanza di un passo, incerta anche solo su come muovermi.
Il suolo mi sembrava cemento fresco, quasi ad intrappolarmi.

«I tuoi occhi... dicono altro».

«Dicono quello che la mia bocca dice. Ora vai», iniziava a surriscaldarsi.

Avrei potuto farlo bruciare, come lui faceva con me.
Avrei potuto fare tanto che nemmeno i miei neuroni lavoravano al riguardo.

Però non lo feci.

«Sei sicuro che vuoi che me ne vada?».

«Non ho mai voluto che rimanessi».

Sorrisi sadicamente.

«E tu non sei cambiato affatto», dissi più a me che a lui.

«Avresti voluto cambiassi? Mi spiace ma non cambio per te, nè per chiunque altro. E ora devi seriamente uscire dalla MIA stanza», ripeté scandendo.

Feci no con la testa, ma non parlai più.
Il silenzio che c'era tra di noi lasciava a desiderare quanto di più contrastante; due anime alla ricerca di qualcosa che poteva renderle vive, che le potessero accendere senza scottarsi, che volevano prendere le distanza l'uno dall'altra.

E così feci, allontanandomi a passo diretto senza girarmi.

Chiusi la porta, trovandomi ad un palmo dal naso Chase.

«Fatto pace con il tuo amichetto?».

«Non è un mio amico», esordii, tentando di andarmene.

«Oh, lo so bene. Abbiamo una discussione in corso, ti ricordo».

«Cosa vuoi?».

«Tra un oretta laggiù», mi indicò il punto.

«D'accordo», accordai solo per aver libertà di oltrepassarlo agevolmente senza troppi intoppi.

Non volevo complicarmi la vita, più di quanto già non lo fosse.
Era piena di strade tortuose e fangose, macchiarmi di casini non era nel manuale.

Sono sempre stata una ragazza con la testa sulle spalle, educata a rispettosa.
Se volevo insegnare qualcosa alla generazione attuale, dovevo dimostrarlo anche in quell'occasione.

Mi sarei presentata e avrei messo da parte le divergenze.
Avrei trovato una lettera in più dell'impiccato e tutto avrebbe combaciato meglio.

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