Quattordici

Seduta a gambe incrociate sul letto di Charlie, aspetto che lui torni da me. Dopo essermi congedata con Amanda, sono salita a testa bassa al piano superiore con Charlie, ma lui è sceso subito dopo per non so quale motivo. O almeno, potrei arrivarci tranquillamente al motivo... Tuttavia non ho voglia di farmi troppe ansie mentali, andrebbero solamente a peggiorare l'immenso peso sulle spalle che mi sto portando.

Non riesco a stare minimamente ferma, le mie mani tremano, il mio busto ciondola in avanti e indietro e i miei occhi continuano a seguire il perimetro della stanza, quasi fossero in cerca di qualcosa di prezioso e indispensabile.

Quanto vorrei gettarmi fuori dalla finestra, oppure sprofondare nella terra fino a diventare cibo per vermi. Tutta questa attesa mi sta uccidendo, sto iniziando a fare assurdi pensieri masochisti sul "come annientare questo fottuto senso di colpa che mi cresce dall'interno".

La porta si apre e con uno scatto, cerco di ricompormi come meglio posso. Assumo un'espressione meno ansiosa e mi sforzo di smettere di far tremare le mani. Tengo lo sguardo basso, dapprima puntato sul pavimento, poi lo sposto leggermente sui piedi scalzi di Charlie, tanto per curare i suoi movimenti senza doverlo guardare per forza in faccia.

Sento il suo sguardo su di me, simile al mirino di uno hitman pronto a farmi fuori. Non riesco a comprendere, però, il suo stato d'animo, per farlo dovrei guardarlo direttamente in faccia, ma riprendo a tremare al solo pensiero di farlo. Decido di lasciare perdere e rimanere con un dubbio innocente.

Charlie si avvicina, il suo passo è a malapena udibile e completamente differente dal mio, simile a quello di un mammut che indossa delle scarpe di piombo.

Si siede accanto a me e il suo peso fa inclinare leggermente il materasso verso di lui, facendomi così ritrovare attaccata alla sua spalla. Questo contatto non mi dispiacerebbe poi così tanto, se solo non avessi un orribile senso di colpa che mi sta divorando completamente. Vorrei staccarmi da lui, stargli lontano di qualche centimetro per rispettare i nostri spazi, ma se lo facessi mi sentirei solamente il triplo più in colpa: e se ci rimanesse male?

Il silenzio è pesante quanto un'ancora e ci avvolge entrambi, comprimendo i nostri animi trasandati e confusi.

«Credevo che non ti avrei più rivisto...». Le sue parole sono dure, il tono di voce abbattuto e malinconico, ma non trama rabbia, pare quasi essere calmo, e il che mi dona subito un lieve sollievo: forse non verrò insultata.

Sospiro. «Ho pensato la stessa identica cosa...».

Ancora silenzio, stavolta interrotto lievemente dal dolce cinguettio di alcuni uccellini invernali. Mi perdo in mille pensieri in poco tempo. La maggior parte di questi sono possibili frasi da poter utilizzare per rompere il ghiaccio definitivamente e arrivare al sodo, ma tutti sono davvero discorsi vergognosi, perché ammettiamolo, dire: "Alla fine mio fratello ti ha sfondato il naso oppure te l'ha fatto solo sanguinare?" è sicuramente una delle frasi più idiote di tutti i tempi, oltre che a essere un vero e proprio modo per determinare il fallimento assoluto della mia missione "metti a posto le cose con Charlie".

Decido di andare sul semplice e al contempo al sodo, cercando di mantenere la calma, ma ciò che mi esce dalla bocca è solo un'ammasso di parole accatastate l'una sull'altra, perdipiù pronunciate in modo non veloce, di più.

«Scusa-Charlie-non-so-cos'è-successo-quel-giorno. Mi-sono-così-spaventata-ed-ero-confusa. Mi-sono-messa-a-piangere-tantissimo-non-sai-quanto-ero-preoccupata. Ho-solamente-sperato-che-tu-stessi-bene... E... E...» annaspo, in cerca di aria per continuare, ma Charlie mi ferma prendendomi per le spalle e stringendole lievemente per non farmi male

«Zilla, sta' calma, ti prego, così rischi di esplodere».

Alzo gli occhi lucidi su di lui, scoprendo che mi sta guardando con aria molto preoccupata, forse ancor più preoccupata di quando eravamo in ospedale.

«M-ma...» cerco di ribattere, mentre mi sforzo notevolmente di trattenere le lacrime, pronte a inondare il mio viso.

Charlie mi preme un indice sulle labbra come per intimarmi a rimanere zitta.

«Shh, io sono qui, ok? Non me ne vado mica».

I suoi occhi azzurri brillano come due specchi di acqua placida, riescono a iniettarmi talmente tanta calma che mi pare quasi di essere diventata un pupazzetto di gomma privo di ossa.

Mi rendo conto molti attimi dopo di qualcosa, di qualcosa che sto facendo, quasi si un'azione involontaria, o anzi, un'azione ben voluta dal mio subconscio: lo sto guardando negli occhi, a lungo. Sento quasi un rifiuto da parte di ogni angolo del mio corpo di staccare gli occhi da lui. Non voglio interrompere quel legame finora ritenuto impossibile, desidero solo continuare a perdermi nel suo sguardo, fino a quando non verrò ripescata brutalmente dalla realtà.

«Avrei voluto cercarti prima e dirti quanto mi dispiaceva, Charlie» dico, mentre le mie mani riprendono a tremare.

«E perché non l'hai fatto?» la sua voce si è ridotta a un sussurro, piccolo e gentile.

«Perché avevo paura... Di ferirti ancora».

Charlie scuote la testa. «Avresti dovuto farlo... Non sono mai stato ferito o arrabbiato con te».

Sono piuttosto incredula: davvero non é mai stato arrabbiato con me? Cazzo! Fossi stata in lui ci sarei rimasta di merda eccome! Questo ragazzo mi sta stupendo ogni giorno sempre di più.

Tiro su con il naso e accenno un lievissimo sorriso sollevato, che Charlie ricambia con uno dei suoi così luminosi e bellissimi. Non appena lo vedo spuntare sul suo viso come il sole da dietro alle montagne, un senso incontrollato di gioia mista a pacatezza si fa largo nella mia mente, prima completamente tartassata di paure ed emozioni negative.

Non ho ancora staccato gli occhi dai suoi, credo sia da circa un minuto che lo sto guardando, é il record dei record.

Non so dove lo trovo questo coraggio, ma allungo una mano verso il suo viso e gli sfioro il naso, ora completamente sano e non stillante sangue come un rubinetto.

«Come stai? Ti ha fatto tanto male?» domando, mentre i miei polpastrelli percorrono il suo setto nasale.

«Be'... Un po' male ha fatto, non posso negare il contrario. Ma più che altro é stata la paura di vedere tuo fratello scaraventarsi addosso a me nel giro di pochi secondi». Fa una piccola risata nervosa, seguita da un'alzata di spalle. «L'importante peró è che stia bene. Vedi? Non é nemmeno più viola».

So che é un'ottima notizia e sono felice per questo, ma non riesco a sorridere, rimango seria seguendo i lineamenti del suo naso, sia con la mano e sia con lo sguardo.

Ho smesso di guardarlo negli occhi da circa una quindicina di secondi (me la cavo abbastanza bene a tenere il tempo), ora la mia attenzione é concentrata unicamente sulla condizione del suo naso. Cerco di valutare come sta, facendo ipotesi tutte mie, neanche avessi preso da poco la laurea in medicina e fossi andata a lavorare all'ospedale New Amsterdam.

«Si può sapere che stai facendo?» chiede Charlie, mentre segue attento tutti i movimenti della mia mano sopra al suo naso.

«Sto... Controllando...» rispondo, mentre sospiro abbattuta «non sai quanto mi dispiace...».

Con delicatezza prende la mia mano e se la leva dalla faccia, accompagnandola sul morbido materasso.

«Smettila di scusarti, ok? Va tutto bene, abbiamo fatto pace, io ti ho perdonato e le cose si sono sistemate. Non hai più alcun motivo per rattristarti».

Annuisco solo per farlo felice, ma subito poco dopo scuoto la testa convinta.

«Mi spiace che tu abbia conosciuto Eddie così, è una persona dolcissima, non è per niente violento. E' solo che... In questo periodo non so cosa gli stia succedendo, è nervoso e ha poca pazienza. In più non è abituato al fatto che io abbia finalmente un vero amico...» sottolineo bene l'aggettivo, rendendo il mio tono di voce differente nel pronunciare quella parola «... e gli è venuta un po' la fissa di dovermi proteggere...»

«Sarà» alza la testa e guarda il soffitto «essendo figlio unico non riesco molto a capire il rapporto che c'è tra due fratelli, ma mi è davvero parso che Eddie ti voglia un sacco di bene, quindi il suo gesto è più che giustificabile...».

No, non lo é, lo so benissimo, ma ciò che ha detto Charlie mi fa desistere dalle mie convinzioni.

Scivola all'indietro appoggiando la schiena sul materasso e intrecciando le mani dietro alla testa. Fissa il soffitto, con sguardo pensoso, probabilmente è appena stato inghiottito nelle sue riflessioni personali.

Darei di tutto per poter entrare nella sua mente, vedere ciò che pensa, il modo in cui pensa. Non deve essere male avere il carattere di Charlie Gray. Sono contenta che nessuno psicologo lo abbia cambiato con delle tipiche chiacchiere negative. Ma ovviamente questo non glielo dico.

Mi sdraio anche io, la testa a pochissimi centimetri dalla sua. Mi pare quasi di udire i battiti del suo cuore oltre che al suo respiro, così profondo e lento, ma comunque ben ritmato.

«Charlie?»

«Sì?»

«Scappiamo insieme?».

Volta la testa verso di me, più che sorpreso, sembra quasi sbigottito, si vede che proprio non si aspettava una proposta del genere da me, la timidona.

Anche io volto la testa verso di lui e lo guardo con sguardo divertito, che probabilmente assomiglia più a quello di un pappagallo nell'esatto istante in cui vede un cracker.

La distanza fra noi due è diminuita ancora di più, le punte dei nostri nasi si sfiorano leggermente.

«Allora?» dico «Non dirmi che non hai più voglia di fuggire da questo mondo».

L'aria sorpresa di Charlie si tramuta in una compiaciuta, scatta nuovamente seduto, offrendomi la mano per aiutarmi a rialzarmi. La afferro, saldamente. Le sue mani sono calde come un termosifone, tutte al contrario delle mie: gelide ventiquattro ore su ventiquattro. D'altronde non mi stupisco di avere la stoffa del cadavere, se mi mettessi i capelli neri davanti alla faccia e indossassi una tunica bianca, diventerei il perfetto cosplay di Samara Morgan.

«Ti porto in un posto...» dice ad un certo punto, gli occhi che brillano di emozione

«Ma non eri quello che non conosceva bene la città?» ribatto con aria da stronza divertita.

Charlie si mostra offeso, ma è palese che sia sul punto di scoppiare a ridere: tiene le braccia conserte e il labbro inferiore leggermente esposto, solo per nascondere il grosso sorriso che gli sta crescendo dall'interno.

«Taci e vieni» borbotta alla fine, alzandosi di scatto e correndo fuori dalla stanza.

Lo seguo, euforica, fino alla porta d'ingresso, e ci infiliamo le scarpe. Tanto per cambiare ho le mie solite Vans basse, le mie inseparabile compagne di avventure, lui invece le sue immancabili converse rosso fuoco.

«Mamma! Noi usciamo un attimo, torno dopo!» grida Charlie per farsi sentire.

La voce di Amanda si fa sentire poco dopo con il suo solito timbro caldo. «Va bene! Ma ritorna prima di cena se non vuoi sentire papà al tuo ritorno!».

Rotea gli occhi al cielo e sbuffa leggermente. «Sì, non ti preoccupare!».

Usciamo di casa e iniziamo a correre, ridendo come dei pazzi. Se mai qualcuno dovesse vederci in queste condizioni, non esiterebbe di certo a pensare che fossimo scappati da chissà quale manicomio.

Continuo a seguire Charlie, correndo. Ho il fiatone, sono stanca, ma lui non si ferma, anzi, è veloce e scattante, talmente tanto che alla fine mi ritrovo ad arrancare, con un forte dolore alla milza e le gambe appesantite. Non sono per niente sportiva, me ne rendo perfettamente conto, ma c'è un motivo se salto quasi sempre ginnastica, no?

Mi fermo, il cuore che batte a mille, mentre Charlie va avanti di qualche metro. Ad un certo punto si volta, mi guarda e torna indietro.

«Tutto ok?» chiede abbastanza preoccupato.

«Io odio correre».

Charlie sbuffa e alza gli occhi al cielo. «Sei proprio una mezza calzetta».

Gli tiro un ceffone amichevole sul braccio, mentre sorrido fra mille agonie. «Vai a farti fottere, Charlie Gray».

Rimango ferma qualche istante, piegata in due, le mani posate sulle mie cosce. La mia attenzione, però, viene attirata da uno strano gesto di Charlie: si volta e piega leggermente le ginocchia cosicché la sua schiena sia allo stesso livello delle mie gambe.

«Si può sapere che stai facendo?» domando, alzando un sopracciglio.

«Sali» dice lui «ti porto io fin là»

«Che?!».

Salire in groppa a lui? Mai e poi mai! Rimango immobile, gli occhi sgranati, indecisa se scappare oppure adottare la tecnica opossum e fingermi morta.

«Avanti! Non sono mica uno spaghetto! Di forza ne ho eccome, guarda» piega un braccio e tira su la manica della giacca insieme a quella della felpa, mostrando il bicipite gonfio e abbastanza muscoloso. Certo, non è uno di quei body builder americani simili ad armadi a quattro ante che si vedono sulla televisione, ma devo ammettere che non è neanche un fuscello.

Sono ancora immobile, ma leggermente convinta, l'unico problema, ora, è quello della mia scopofobia: quanti sguardi attireremo stando così? Troppi, davvero troppi. Mi vengono i brividi a solo pensarci. Sospiro, so di non poterglielo tenere nascosto, oramai Charlie sa qualsiasi cosa della mia fottuta paura, mi ha persino vista crollare a causa di quest'ultima.

«Che... Che cosa penserà la gente e a vederci così?».

Charlie si rialza e si volta, guardandomi negli occhi. Stavolta non riesco a sostenere il suo sguardo e abbasso il mio, sono troppo a disagio, non ci riesco, anche se so che dovrei stringere i denti e provare alzare i miei occhi su di lui, come ho già fatto.

«E allora?» dice, stavolta serio «A te che importa degli altri? E' vero, la gente è la prima a giudicare, ma è distratta, a volte nemmeno si accorge dell'esistenza di qualcuno oppure, semplicemente, rimane indifferente davanti a tutto. E tu devi fottertene, degli altri e delle opinioni negative, non lasciare che qualcuno condizioni le tue scelte, o peggio, ti blocchi». Aggrotta la fronte e assume una posa da comandante di un esercito. «Perciò ora muovi il culo e sali sopra alla mia schiena».

Quelle parole... Quanto sono belle ed elaborate. Hanno risvegliato qualcosa nel profondo della mia anima chiusa. E' una scintilla, un guizzo, una... Pazzia.

Prendo un grosso respiro:

«Va bene, voltati»

«Così mi piaci».

Si volta nuovamente e si abbassa come prima. Lentamente mi avvicino e con un balzo ben calcolato atterro sulla sua schiena, mentre lui torna in posizione più o meno eretta. Mi sostiene saldamente, ma per sicurezza mi aggrappo meglio a lui stringendo lievemente il suo collo. I suoi capelli odorano di buono, pare quasi sappiano di albicocca, ma non so se mi stia sbagliando oppure no.

«Sei leggerissima, sicura che mangi qualcosa?» mi sta palesemente prendendo in giro: peso sessanta chili e mangio dal mattino alla sera, neanche fossi un orso Grizzly che va in letargo.

«Zitto e muoviti, schiavo, la tua Cleopatra ti ordina di camminare e di portarmi al luogo interessato».

Charlie sorride. «Agli ordini mia regina».

Riprende a camminare, velocemente, mentre vengo sballonzolata da una parte all'altra in continuazione. É comodo però, non sto muovendo più un muscolo e sono molto rilassata. É fighissimo, mi piace da matti, quasi mi dimentico del motivo per cui sono, o ero, preoccupata.

Mi guardo in giro e osservo le case, i negozi e i lampioni che ci passano accanto, mentre Charlie sfreccia e divide in due la città. Il vento nei capelli e l'aria gelida sulla mia faccia mi fanno sentire libera, un po' come una Pocahontas in procinto di spiccare il volo. Ma tutto questo finisce rapidamente, non appena mi accorgo che alcuni passanti iniziano a guardarci.

Sento una profonda nausea colpirmi immediatamente. Tremo, mi stringo più forte a Charlie, che aumenta il passo. Mi chiedo se abbia intuito qualcosa, oppure se non lo abbia solo intuito, ma proprio compreso

Cerco di dimenticare la tensione, di ricordare le parole di Charlie dette poco tempo prima.

Non devo lasciarmi influenzare. Non devo lasciarmi influenzare. Non devo lasciarmi influenzare. Continuo a ripetere questa frase, in loop, mentre mi concentro sull'andatura spedita di Charlie e sull'atmosfera piacevole presente. Io sono io, gli altri sono gli altri, perché preoccuparmi?

Charlie imbocca una viuzza che sinceramente non ho mai visto, la percorre, spedito, fino a quando non arriviamo al confine della cittadina, dove si estendono un mucchio di campi in estate coltivati, ma ora spogli.

Continuo a guardarmi intorno, decisamente più a mio agio. É tutto così tranquillo, così deserto. Siamo soli, io e Charlie, Charlie e io, immersi nella natura.

Il mio sguardo, dai campi, si sposta su una casa, posta ai margini di un piccolo canale. É vecchia, sembra quasi cadere a pezzi, non c'è dubbio: é Villa Ricerston, una vecchia casa ottocentesca andata in fiamme verso i primi del novecento. Da allora i suoi detriti non sono mai stati levati da lì e lo scheletro della casa occupa quel luogo da secoli e secoli.

Ci sono varie leggende che parlano di "presenze" che vagano in quella casa, ma mai nessuno é riuscito a raccontare qualcosa di più. Da sempre le ho considerate cazzate senza valore, ma ritrovarmi quel luogo spaventoso ad un palmo dal mio naso mi immette una certa inquietudine.

«Come mai mi hai portata a Villa Ricerston?»

«Perché mi é da sempre piaciuta. É uno dei primi luoghi che ho scoperto da quando mi sono trasferito in questa città. E anche un po' perché ci vengo spesso quando sono triste e depresso».

Non riesco a immaginarmi Charlie depresso. Preoccupato e ferito sì, ma depresso proprio no. Lui é una persona così... Così solare... Mi pare impossibile che provi tristezza delle volte, anche se é ovvio che l'ha già provata e che, purtroppo, la proverà.

Mi limito ad annuire, mentre Charlie entra nel cortile della casa e si ferma, piegandosi un poco per agevolarmi a scendere.

Scivolo giù da lui e inizio a osservare bene l'enorme casa che mi si staglia davanti. É davvero gigantesca, nulla a che vedere con le case normali al giorno d'oggi. Le assi sono annerite dall'incendio subíto e molti muri, pavimenti e finestre, mancano, lasciando voragini nella casa.

Charlie mi fa un cenno, invitandomi a entrare. Lo seguo, con il naso spiaccicato all'insù, intenta a osservare l'imponente casa.

Mi conduce su per un'alta rampa di scale, alla quale di tanto in tanto manca un pezzo di gradino, di ringhiera, oppure entrambe le cose.

«Metti i piedi dove li metto io, intesi?».

Annuisco e mi affretto a obbedire, non vorrei essere risucchiata da queste assi di legno mezze marce.

Ad un certo punto Charlie si ferma e lo faccio anche io, mentre ammiro il paesaggio spettacolare che abbiamo davanti: siamo in una stanza da letto, o almeno, quella che una volta era una stanza da letto. Ora giace spoglia e con un muro completamente inesistente, ma proprio questo é il bello: la mancanza della parete dona l'incredibile possibilità di poter osservare il paesaggio circostante, magnifico e ampio.

Charlie si avvicina alla "finestra" aperta e si siede sul bordo del pavimento, con le gambe a penzoloni nel vuoto.

Sulle prime diffido, ho paura che il pavimento sotto di noi ceda, ma non appena mi guarda con quello sguardo rassicurante, decido di seguirlo nei suoi intenti e mi siedo accanto a lui, con le gambe però incrociate.

«È tutto magnifico» dico, osservando il paesaggio «non ho mai visto questo lato della nostra città».

Charlie annuisce e sorride lievemente.

«Vedi? Allora anche un povero schiavo, trasferitosi qui da poco, può insegnarti qualcosa».

Sorrido anche io, mentre continuo ad ammirare il paesaggio. «Non avevo dubitato, su questo».

Il silenzio scende su di noi, interrotto solo da qualche piccola folata di vento che sibila contro di noi.

Appoggio le mani a terra e sorreggo il busto con esse. Dopo un po' di tempo mi accorgo che anche Charlie ha posato la sua mano destra accanto alla mia sinistra. Sono talmente tanto vicine che le punte dei nostri mignoli si sfiorano.

Le contemplo, a lungo, attenta a non farmi notare da Charlie, ma non appena lui prende a parlare, con uno scatto faccio finta di niente e torno ad osservare i campi che si stagliano davanti a noi.

«Tu vorresti essere un fantasma, Zilla?».

Rimango rigida, ma non perché é una domanda potenzialmente imbarazzante, perché é una domanda a cui ho pensato spesso, troppo spesso.

«Come mai lo chiedi?».

Fa spallucce. «Perché ho sentito che in questa casa si aggirino dei fantasmi... E la domanda mi é nata piuttosto spontanea».

Deglutisco e abbasso lo sguardo nel vuoto che si allunga sotto di noi.

«Sì mi piacerebbe. Perché sarei invisibile e nessuno mi calcolerebbe. Mi sentirei come... A mio agio, un tutt'uno con il mondo, dal momento che so che nessuno può vedermi».

Cala nuovamente il silenzio. Intravedo solamente con la coda dell'occhio Charlie che annuisce.

«Quindi saresti una fantasma...» dice, estraniandosi dai suoi pensieri

«Un fantasma» lo correggo io con finto fare da saputella, che normalmente odierei.

«No, no, proprio una fantasma. Perché sei femmina. Tu sei la fantasma, la mia fantasma».

Sento il suo sguardo scivolare sulla mia pelle. Prendo coraggio e mi volto anch'io a guardarlo, mentre sulle mie labbra abbozzo un sorriso tenero.

«Mi piace» dico «come soprannome, intendo».

Il mignolo di Charlie si sposta leggermente verso il mio, ma seppur di poco si posa delicatamente sopra di esso.

Non levo la mia mano, piuttosto stacco lo sguardo da lui e guardo davanti a me, l'attenzione ben concentrata su quello che sta succedendo.

Lentamente il mignolo di Charlie si intreccia al mio e, come per un comando nascosto voluto al mio corpo, faccio scivolare la mano verso di lui, cosicché la sua possa coprire leggermente la mia.

Avverto nuovamente un piccolo movimento di Charlie, pian piano sta intrecciando altre dita alle mie, con movimenti sicuri, ma leggermente impacciati e molto leggeri.

Il mio telefono squilla, interrompendo quell'atmosfera tanto magica che si era formata. Sbuffo, levo la mano da quella di Charlie un po' bruscamente e prendo il telefono dalla mia tasca.

Con la coda dell'occhio noto che Charlie sta ritraendo la sua mano, a giudicar dall'espressione piuttosto imbarazzato. La nasconde, nella tasca della sua giacca, come se volesse farla sparire per sempre, oppure tagliarla con un colpo netto, alla Capitan Uncino.

Sopprimo il mio dispiacere e guardo lo schermo del telefono, che continua a vibrare e a squillare: è mia madre. Clicco il verde e rispondo titubante.

«Pronto?»

«Zilla?! Si può sapere dove diavolo sei?!»

«Sono uscita un attimo...»

«Muoviti a rientrare, se entro un quarto d'ora non sarai qui, giuro che sarai in punizione a vita. Chiaro signorinella?»

«Sì... Sto arrivando»

«Bene».

Appendo e caccio il telefono con violenza in tasca.

«Devo andare» dico, rivolta a Charlie.

Lui annuisce ed entrambi ci alziamo.

Stavolta cammino sulle mie gambe, accanto a Charlie, con andatura piuttosto spedita. Non parliamo, non sappiamo che dirci, probabilmente abbastanza imbarazzati.

Al bivio che divide le nostre strade ci salutiamo con un piccolo sorriso, poi ognuno va verso la propria casa.

Mentre cammino, sfioro la mano che prima Charlie mi ha toccato. Ripenso alla sensazione che ho provato, al senso di leggerezza. Scuoto la testa e la ricaccio in tasca, continuando a camminare con lo sguardo basso.

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