Capitolo 7 - occhi di ghiaccio
6.11,2007
Ore 05,20
Gli occhi di Piton mi tormentano da tutta la notte.
Li vedo rimbombare sulle pareti della mia mente.
Così freddi.
Così profondi.
Così infiniti nelle loro fiamme di ghiaccio nero.
La sua voce mi risuona nelle orecchie.
Insieme alla minaccia scappata dalle sue labbra.
Lord Voldemort.
Un nome che ancora non ha smesso di fare paura.
Malgrado siano passati anni.
E il mondo lo abbia visto disintegrarsi in una nuvola di polvere, nel bel mezzo di un cortile quasi distrutto.
Con Hogwarts a fare da quinta alla sua disfatta.
Nessuno può aver ricreato quella formula perfettamente identica.
E il signore Oscuro non avrebbe mai condiviso il suo sapere con altri.
Lui assorbiva le conoscenze, le passioni, la vita degli altri.
Ma non donava nulla.
O almeno così dice Piton.
Che, sull'argomento, e anche su molti altri, sembra essere la persona più attendibile a mia disposizione.
Mi giro nel letto da ore.
Inseguendo un sonno che non vuole farsi afferrare.
Ed abbandonandomi alla curiosissima sensazione di paura ed eccitazione che invade il mio petto.
Forse qualcosa in me non funziona come dovrebbe.
O almeno come funzionerebbe in qualsiasi persona sana di mente.
Perché questo mistero mi eccita.
Mi fa vibrare di brividi dimenticati.
E mi terrorizza.
Così come mi terrorizza lui.
Severus Piton.
E mi eccita, nello stesso momento.
Forse è la mia vita solitaria.
Lontana da una qualsiasi parvenza di umanità.
E dal sesso.
Ormai da troppo tempo.
Forse è perché erano anni che non trovavo qualcuno in grado di tenermi testa.
Forse sono state le sue dita che mi scorrevano lungo la spina dorsale, prima di uscire dalla porta del suo studio.
Mentre con un gesto fatto di fretta, ha cercato di mettermi in imbarazzo ancora una volta.
- "Vedo la paura serpeggiarti nella schiena, Granger..."
Lo ha lasciato uscire dalle labbra come un sussurro.
Prima di rivolgermi uno sguardo carico di disprezzo e di chiudere sgarbatamente la porta del suo studio alle mie spalle.
Forse...
Forse sono una cretina!
E lui è un viscido bastardo.
Mi alzo dal letto.
Sono tutta sudata.
Un'alba timida comincia a fare capolino sopra ai tetti di Londra.
Mi preparo in fretta.
Scelgo velocemente dall'armadio uno dei miei tailleur da lavoro.
Lo infilo sopra all'immancabile camicetta di seta.
Raccolgo i capelli nello stretto chignon che Piton ha sbeffeggiato, con la sua solita arroganza, meno di due giorni fa.
Scendo in strada.
Il mantello stretto intorno alle spalle, nel vano tentativo di difendermi da un freddo che mi si sta intrufolando fin dentro alle vene.
Mi incammino verso il ministero a piedi.
Sono le sei del mattino.
E Londra è quasi deserta.
Mi lascio avvolgere dal silenzio irreale di una città immensa, ancora vittima di un sonno appena scomparso.
Qualche luce si intravede dalle finestre appannate.
Mentre gli ultimi lampioni si stanno spegnando lungo il Tamigi.
Mezz'ora più tardi, l'austero palazzo di mattoni rossi in cui si nasconde il mio ufficio affacciato sul mondo, mi ammicca stancamente in lontananza.
Lo raggiungo di fretta.
Supero lo sguardo del custode, ormai avvezzo ai miei arrivi assurdi, alle prime luci dell'alba.
Mi saluta saltando in piedi dalla sua sedia malconcia.
- "Buongiorno Ministro Granger!
E buon lavoro..."
Gli rivolgo un sorriso tirato.
I miei tacchi percuotono il pavimento di lucide piastrelle verde scuro.
Il rimbombo dei passi si perde tra le arcate vuote ed immense di un atrio che porta i primi avvisi della giornata, già affissi alle sue pareti immacolate.
Raggiungo l'ascensore.
Il ragazzo che fa il turno del mattino mi sorride senza parlare.
Pigia velocemente sulla testiera.
Lo strano aggeggio metallico emette un rombo sordo.
Poi schizza verso l'altro, appiccicandomi lo stomaco al bacino.
Come fa ogni volta.
Raggiungo il mio ufficio solo alcuni secondi più tardi.
Kimberly non è ancora arrivata.
Forse potrò avere qualche minuto di pace.
Forse troverò una soluzione a questo mistero assurdo.
La scrivania della mia segretaria è ingombra di carte che, sicuramente, di qui a qualche ora richiederanno la mia attenzione.
Quindi mi resta poco tempo.
Devo pensare.
Qui.
Affacciata alla finestra che sovrasta i tetti di Londra.
Dove sembra che la mia mente riesca a vagare libera e a trovare sempre la soluzione ad ogni cosa.
Almeno fino ad oggi.
Lancio distrattamente un incantesimo alla macchina del caffè ancora gelata.
Prego perché la mia amata bevanda nera, amara è bollente, si materializzi in fretta nella grande caraffa di vetro.
Poi riempio una tazza scheggiata fino all'orlo.
Mi brucio il palmo della mano.
Beandomi della sensazione meravigliosa e del profumo di caffeina che sembra risvegliare i miei sensi.
Mi dirigo verso la scrivania.
La supero.
Allontano la poltrona.
E mi siedo sul bordo del tavolo.
Gli occhi a perdersi oltre al vetro ancora appannato.
E la mente a vagare tra vecchie paure e nuovi misteri.
Sono passate tre ore, e la situazione nel mio ufficio è mutata radicalmente.
Sembra che un tornado si sia abbattuto sulla segreteria, dove donne e uomini indaffaratissimi sfrecciano da una parte all'altra della stanza con pile di fogli traballanti tra le mani.
I suoni mi raggiungono ovattati al di là della porta.
Non mi permettono di pensare come vorrei.
E la soluzione ancora mi sfugge.
Anche se sono giunta alla conclusione che fidarmi delle parole di Piton sia una stronzata.
Voldemort avrà parlato della formula a qualcuno.
Questo qualcuno avrà deciso di giocare al piccolo chimico per le strade di Londra.
E la situazione gli deve essere sfuggita dalle mani.
Tutto qui.
Adesso dovrò solo trovare qualcosa da dire ai famigliari delle vittime.
Perché il nome di Voldemort si può pronunciare meno adesso di quando era vivo.
La paura non smette mai di fare paura.
E questo devo imparare a tenerlo bene a mente se non voglio che un panico incosciente prenda piede nel mondo magico.
L'interfono gracchia sulla scrivania.
Mi volto di scatto.
Quasi presa alla sprovvista.
Pigio con poca grazia il tasto verde, così da permettere alla voce dì Kimberly di rovinarmi un umore già in bilico.
- "Ministro, sua suocera vuole parlarle.
So che non vuole essere disturbata ma è la quinta volta che mi invento una scusa e non so più cosa dirle."
Non so come ci sia riuscita, ma persino la mia segretaria, padrona di una cultura quasi impressionante sulla nail art, e dotata dell'intelligenza di un canarino, si è accorta che qualcosa nel mio matrimonio non sta funzionando come dovrebbe.
Quindi è meglio che io mi prepari ad affrontare lo scandalo che da qui a poco si abbatterà sulla mia figura.
Che mi abitui a vedere il mio bel viso sbattuto sulla copertina di ogni fottuto giornale magico di Inghilterra.
E che faccia intervenire un ufficio stampa degno del nome che porta, per gestire la cosa.
Ma di questo mi occuperò domani.
Prima devo cercare di trovare una scusa plausibile alle morti di Bayswater.
- "Ministro...?"
La voce di Kimberly mi riscuote dal torpore.
Mi sono lasciata trasportare dai pensieri.
- "Dille che la contatterò in serata.
Adesso non ho tempo per stupidaggini del genere.
Non ho tempo per niente Kimberly.
Non disturbarmi più!"
Stacco la comunicazione con il solito fastidio a ribollirmi nel petto.
Mentre cerco di ritrovare la concentrazione persa poco fa a causa dell'ennesima rottura di palle causata da mio marito.
Mi riaffaccio alla mia adorata finestra.
Provo a perdermi di nuovo oltre ai confini di una città ormai diventata caotica e rumorosa.
Il gracchiare stridulo dell'interfono inonda di nuovo la stanza.
Sbuffo sonoramente.
Kimberly è un'idiota.
Devo decidermi a prendere il coraggio a due mani e sbatterla fuori come ho fatto con quelle prima di lei.
L'unica cosa che mi trattiene è la totale mancanza di voglia di sostenere nuovi colloqui, con nuove ragazzine dagli occhi carichi di entusiasmo.
Per poi costringermi a scegliere quella che mi sembra meno imbecille delle altre, solo per occupare un posto che mi serve coperto.
Ignoro l'interfono.
Cerco di escludere l'udito e di concentrare i miei sensi sui pensieri che vorticano nella mia mente ad un ritmo irrefrenabile.
Forse così la mia solerte segretaria capirà che non ho alcuna intenzione di sottostare alla sua imbecillità.
L'interfono manifesta ancora una volta la sua presenza nella stanza.
Sbatto con rabbia quello che resta del mio terzo caffè della mattina, in un cestino abbandonato in un angolo del mio studio.
Butto gli occhiali sul divano sotto la finestra e mi massaggio la fronte con le dita.
Prima o poi si arrenderà.
Prima o poi capirà che non sono io a servire lei, ma lei a servire me.
E la pianterà di disturbarmi per ogni più piccolo dubbio possa cogliere la sua mente decisamente poco brillante.
Prima o poi...
Due colpi sulla porta mi riportano immediatamente al mio ruolo.
Quello di fare da balia ad un branco di idioti spaventati, che non sanno gestire da soli nemmeno la terribile crisi dell'esaurimento della carta igienica dei bagni.
Kimberly si affaccia con paura.
Sa che probabilmente si ritroverà vittima del mio nervosismo di qui a pochi minuti.
Eppure sembra non importarle.
Avanza nel mio studio con due passi veloci.
Spalanca la bocca.
Poi la richiude.
- "Maledizione Kimberly!
Che diavolo c'è?
Mi hai interrotta, sei entrata... Se non hai avuto paura fino a qui, non vedo cosa possa fartene tanta adesso..."
La ragazzina bionda si tortura le mani per un attimo.
Poi solleva lo sguardo nel mio.
- "Stanno arrivando notizie da Bristol, dottoressa Granger.
Sembra che dieci minuti fa si sia registrato un caso simile a quello dì Bayswater..."
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