Un piccolo cuore di fango (parte due)
Fare la doccia in casa King è un'esperienza che tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero provare. La loro non è una semplice doccia, è qualcosa di molto più innovativo e moderno. Se avessi abbastanza conoscenze tecnologiche, potrei definirla alla perfezione, ma gli unici termini che mi vengono in mente sono solo aggettivi di apprezzamento. Cromoterapia, ecco, e idromassaggio. C'è qualcosa che questi fratelli King non hanno, a parte la sanità mentale?
Una volta uscita, infilo lentamente i vestiti che Aaron mi ha consegnato prima che entrassi in bagno. I pantaloni sono decisamente di Sophia, ma la felpa deve essere sua o di Ridarella. Stoccafisso ha abbastanza spirito d'osservazione da sapere che sformerei qualsiasi maglia di sua sorella per via del mio prosperoso seno. Dovrei sentirmi violata, o comunque imbarazzata, ma sono sentimenti che raramente mi capita di provare, se non in occasioni di pericolo imminente, e per quanto odi ammetterlo, ora come ora, il campanello d'allarme non ha ancora iniziato a trillare.
Quando esco dal bagno, mi ritrovo a scendere le grosse scale che portano al salone principale. Questa villa è immensa, gigantesca, un vero e proprio castello a cui non farò mai l'abitudine. Trovo Aaron, a sua volta appena uscito dalla doccia e a petto nudo (forse per dimostrarmi che le sue non sono tette, ma pettorali), seduto comodamente sul divano come se non avesse alcun problema al mondo. Quando lo raggiungo, la moquette soffice del pavimento accarezza i miei piedi nudi. <<Ho messo le tue cose da lavare>> mi informa, mentre mi siedo dall'altro lato del divano, il più possibile distante. Accovaccio le gambe in una posizione comoda e fisso le maniche della mia camicia, più lunghe del dovuto. L'indumento è suo, non ci sono dubbi, ha il suo stesso odore. <<Fra mezz'ora dovrebbero essere pronte.>>
<<I tuoi genitori non si arrabbieranno?>>
<<I miei genitori non esistono in questa casa.>>
Non lo dice con rabbia o sofferenza. Lo dice e basta. Indifferenza totale. Apatia assoluta. Forse dovrei invidiarlo, dovrei invidiare la sua totale incuranza e incapacità di lasciarsi trascinare dalle emozioni, ma non ci riesco. E' per carattere, immagino. È per desiderio di sangue, per vendetta. È questo che il mio corpo richiede, che il mio animo desidera. Sono folle, pazza e fuori di testa, e lo rimarrò per il resto dei miei giorni. <<Peccato, mi sarei divertita a sconvolgerli.>>
<<Per carità di Dio, è già tanto che tu non sia uscita da quel bagno completamente nuda.>>
<<Ti spaventa così tanto l'idea di vedere il mio corpo?>> lo prendo in giro.
<<Mi spaventa la totale noncuranza con cui lo tratti.>> Il suo volto, prima rivolto al televisore dal maxischermo, si volta così da incontrare il mio sguardo. Come al solito, è più serio e noioso e stoccafisso che mai. <<Sei una ragazza, dovresti stare attenta, Sasha.>>
Credo sia la prima volta che mi chiami in questo modo, per lo meno la prima volta che mi ci chiami quando non siamo circondati da altre persone. Reclino leggermente il capo, confusa. <<Ti comporti come se non ti considerassi neanche una donna>> continua, perché lui è una di quelle persone che perserva con un argomento fino a quando il discorso non può dirsi concluso. Maledetto.
<<Io non mi considero una donna.>>
Aggrotta un sopracciglio. <<E allora come ti consideri?>>
Ci rifletto su. Non ci avevo mai pensato prima d'ora. <<Non saprei... come un essere umano?>>
Scoppia a ridere. La sua risata, così forte e potente, rimbalza fra le pareti immense del salone in un'eco meraviglioso che farebbe sciogliere qualsiasi altra ragazza al mio posto. Ma io, ahimè, ho smesso o non ho mai considerato troppo la possibilità di avere una cotta per qualcuno o una vera e propria infatuazione. Non per desiderio, solo... non mi interessa. Ci sono situazioni da gestire ben più importanti. <<A volte persino io sono incerto sulla tua natura umana, Aleksandra Porter. Ma non ho mai dubitato, neanche una volta, che tu sia una donna.>>
<<Perché ho le tette grosse?>> E' alquanto patetico notare la nostra differenza lessicale, il suo vocabolario è sicuramente molto più vasto del mio, che potrebbe riempire solo sette o otto pagine di un libro tascabile.
<<Perché tu ragioni da donna.>>
<<In arrivo il commento maschilista.>>
Mi fulmina con la sua solita occhiataccia da maschio alfa. <<Non traviare le mie parole, sai a cosa mi riferisco.>>
<<A dire il vero, no. E se è per questo non so neanche cosa significhi "traviare".>> Mi sembra il caso di fargli notare questa notevole mancanza di cultura basilare.
<<Tu vivi per tuo fratello, più che sua sorella ti comporti come sua madre. Sei una donna in tutto e per tutto, Sasha.>>
<<Adesso voler bene al proprio fratello ti trasforma automaticamente in una donna? Allora anche tu lo sei, mio caro Stoccafisso.>>
<<Mi riferisco al modo in cui lo proteggi. Sempri una leonessa pronta a sbranare qualunque possibile minaccia che possa danneggiare i suoi cuccioli. Sei sempre in modalità allerta, e sono sicuro che non sono il primo a dirtelo>> la sua occhiata è abbastanza eloquente. <<Tratti tutti come se fossero dei nemici.>>
<<Perché è così.>>
<<No, non è vero.>> Scrolla le spalle ben ampie e sospira. <<Perché sei così fissata con tuo fratello?>>
<<Perché ti interessa?>>
<<Perché sto cercando di capirti.>>
<<Perché?>>
<<Cosa c'è di male nel voler comprendere una persona?>>
Non so rispondere a questa domanda. Perciò rimango in silenzio, per un bel po' di minuti. Ricordi lontani e sospesi nel tempo rieccheggiano nella mia mente, e le parole escono dalle mie labbra prima che possa fermarle, facendomene pentire l'attimo dopo. <<L'ho promesso.>>
Aaron aggrotta appena la fronte. <<A chi?>>
<<A me stessa.>> Vorrei zittirmi, ma non ci riesco. Ho bisogno che sappia, che capisca, ho bisogno di qualcuno che possa smetterla di guardarmi come se fossi un mostro uscito dalle fogne, qualcuno che possa anche solo immaginare tutto quello che abbiamo dovuto passare, e che, nonostante ciò, non provi quell'odioso sentimento di pietà che accomuna molti esseri umani. <<Molti anni fa.>>
<<Che genere di promessa>> non c'è giudizio nella sua voce, solo sincero interessamento. Osservo le dita dei miei piedi nudi mentre ci giocherello, e passo lo sguardo alla cicatrice orizzontale che si trova all'altezza della caviglia destra, un ricordo di una delle mie prime risse.
<<E' stato poco dopo la nascita di Luke, poco dopo che il bast... nostro padre se ne era andato.>> Chiudo gli occhi per qualche secondo, cercando di ricordare, cercando di riportare alla mente quel passato fuggevole da cui non voglio separarmi. <<Luke aveva... due o tre anni, forse un po' di più, e all'epoca non riusciva nemmeno a parlare. Io lo adoravo, avevo sempre desiderato un fratellino. Era piccolo, goffo e rotondo, mi sembrava un peluche, lo trovavo irresistibile.>> Ogni giorno al suo fianco era meraviglioso, poter avere finalmente la compagnia di qualcuno della mia età mi aveva resa immensamente felice, fino a quando non avevo capito che molte cose che potevo fare Luke non le avrebbe mai fatte nemmeno da adulto. È stato allora che la realtà si è abbattuta con violenza su di me, molto più tardi di quanto avesse fatto con mia madre, reduce dell'abbandono dello stronzo donatore di seme e dell'aborto.
<<Ma tu non hai idea... oh, no, tu non hai idea di quello che gli hanno fatto, durante quel periodo. Ogni insulto, ogni pugno, ogni schiaffo che riceveva. Non puoi neanche immaginarlo. E io non capivo, non capivo davvero, ogni singola persona che incontravamo non faceva altro che chiamarlo ritardato, mongoloide o stupido. Gli insegnanti dicevano che aveva un problema, tutti ripetevano che era anormale. Luke non comprendeva, ci stava molto male. E io non sapevo come consolarlo. Non sapevo cosa fosse la sindrome di Down, non avevo nemmeno capito che l'avesse, per me era solo il mio fratellino con gli occhi storti e le guance paffute, nient'altro.>>
Anche se i miei occhi sono ancora puntati sulla cicatrice, potrei giurare di sentire il suo sorriso addosso, ed è quel che mi basta per continuare la storia. <<E io? Io ero la bambina killer. La psicopatica che se ne andava in giro per l'asilo usando uno yoyo come arma di difesa, quella che invece di giocare con le bambole passava giornate intere a tentare di rubare i soldi dal portafogli degli insegnanti.>> Una risatina nasale mi raggiunge, nemmeno io riesco a trattenere il sorriso, stavolta. <<Sono stata molto male in quel periodo. All'epoca non avevo ancora appreso la piacevole sensazione che si prova quando mandi affanculo tutto e tutti e te ne fotti altamente delle conseguenze. Stavo cercando di sopravvivere, ma nessuno sembrava capire, a nessuno sembrava importare.>> L'immagine di quel giorno, all'asilo, mentre me ne stavo da sola in un angolino della sala giochi, a fissare gli altri bambini mentre si divertivano fra loro, basta per strapparmi un altro sorriso. <<E un giorno Luke arrivò da me, aveva da poco iniziato a parlare, e sembrava distrutto, era sporco di terra e aveva un brutto bernoccolo sulla fronte.>> Vengo scossa da una risata. <<Aveva fatto a botte con un altro bambino per poter giocare con la sabbia bagnata, e mi era sembrato strano, lui odiava quella sabbia e ancor più odiava litigare con gli altri bambini. Ero già pronta ad andare ad ammazzare chi gli aveva fatto del male, quando ha tirato fuori una palla di fango a cui aveva cercato di dare la forma di un cuore. Mi disse "tieni, Sasha, questo è il mio cuore per te. Perché non voglio che tu sia triste, e voglio che ti ricordi sempre che io ti voglio tanto bene, e che sei la mia sorella preferita.">>
<<Sorella preferita?>> ripete Aaron, divertito.
Annuisco, le spalle tremano per l'ilarità. <<E lo sostiene tuttora.>> Mi schiarisco la gola. <<E' stato allora, quando mi ha dato quello stupido, piccolo cuore di fango. Il solo riceverlo mi è bastato per capire che andava tutto bene, che non c'era nulla di strano in me, che avevo tutto ciò di cui avevo bisogno. Luke. Mia madre. La mia famiglia. E ho promesso a me stessa che li avrei protetti sempre e comunque, a qualsiasi costo.>> Mi gratto la fronte. <<Perciò sì, riconosco che posso sembrare un po' strana e fuori luogo a volte, ma continuerò a farlo. Non c'è niente che non farei per mio fratello. Persino uccidere, se necessario. Quello che ho fatto alla mia vecchia scuola era sbagliato? E chi lo sa. Ho smesso da tempo di chiedermelo, non voglio nemmeno pensarci.>> Mi stringo nelle spalle. <<Voglio solo fare ciò che ritengo giusto per mio fratello, che vada contro o a favore della legge non mi interessa.>>
<<Rischierai grosso, Porter.>>
<<L'ho già fatto. Un sacco di volte, non mi interessa>> mi ritrovo ad aggiungere.
<<C'è un termine preciso per quelle come te, sai? Lo conosci? Masochismo.>>
Sollevo divertita un sopracciglio. <<Non mi sono mai inflitta del male volontariamente.>>
<<Non parlo di lesioni fisiche>> ribatte. <<Stai sacrificando tutta la tua vita per tuo fratello, finirai per consumarti nel tentativo di salvarlo da ogni possibile minaccia, e quando te ne accorgerai sarà troppo tardi per rimediare.>>
<<E meno male che ero io l'uccello del malaugurio.>>
Si stringe nelle sue possenti spalle, da bravo maschio alfa cavernicolo.
Con lo sguardo, scivolo sul suo corpo per osservarlo al meglio, persino con quel poco di lucidità che mi resta non posso negare che sto avendo a che fare con un vero esemplare di virilità pura. Gli occhi scendono ancora, fino a raggiungere il suo tatuaggio, sul fianco sinistro, quello che posso scorgere dalla mia posizione. Il disegno tribale è finemente lavorato, chiunque lo abbia realizzato è stato molto attento ai dettagli, sento una risata scivolare lungo la mia gola quando noto le due parole nascoste sotto una piccola tartaruga. <<Sophia. William>> leggo ad alta voce. <<Chi sarebbe ora quella fissata col fratello?>>
<<Loro sono la mia famiglia. Me li farei tatuare cento volte, se necessario.>>
Sto per dirgli che è un gesto incredibilmente carino, ma certi commenti non si addicono a una persona come me, perciò gli confesso un altro dettaglio della mia vita infame. <<Anche mamma aveva un tatuaggio simile. Nulla di elaborato come il tuo, si era semplicemente fatta scrivere il mio nome e quello di Luke sul petto. E' stato grazie a quello che sono riuscita a riconoscerla...>> mi fermo, sto parlando troppo, spero che la mia improvvisa voglia di comunicazione sia dovuta a una malattia terminale o alla broncopolmonite che sto rischiando d'avere dopo quel tuffo al lago.
<<Ho saputo. Non deve esser stato facile.>>
<<Non lo è ancora.>>
Aaron non parla per un bel po', nella mia mente lo ringrazio per non aver protatto ancora questa discussione senza meta, sarebbe stato imbarazzante e umiliante. Non sono solita avere conversazioni approfondite con persone che fino a pochi giorni fa non potevano neanche tollerare la mia vista.
Sul tavolino in vetro davanti a noi c'è una confezione aperta di orsetti gommosi, ne prendo un po', addentandoli con gusto. Amo decapitare gli orsetti gommosi, e sì, sono una persona orribile.
<<Parlami della tua vecchia città>> domanda all'improvviso Stoccafisso, sorprendendomi. I suoi occhi tornano su di me, più verdi che mai.
<<E tu mi parlerai del Texas?>>
<<Come fai...>>
<<Andiamo, credi davvero di essere invisibile? Riconoscerei quell'accento da chilometri di distanza. Moana, un'amica e collega della mamma, ce l'aveva così marcato che quando pronunciava una "g" sembrava stesse grandinando.>>
Un sorriso curva lentamente le sue labbra prima tese. <<Okay, ti parlerò del Texas. E tu mi parlerai del tuo paese.>>
<<Come mai questo improvviso interesse?>>
Mi guarda, e io guardo lui, e sembra strano, ma potrei giurare che stia ancora sorridendo. Non per la battuta, non per i miei sospetti, sorride e basta. Solo perché ci sono io.
Forse sono davvero malata.
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