Quel ventidue febbraio, alle quattro e mezza di notte (parte uno)


<<Cosa stai facendo?>> La mia voce rieccheggia nel garage enfatizzando la rabbia cocente che sto provando in questo momento. La testa di zio Brooke sbuca da sotto il mio pick-up distrutto. Il volto è sporco di olio e fuliggine, e i suoi capelli hanno bisogno di una bella lavata, ma vederlo in queste condizioni non basta per sminuire la mia irritazione.

<<Sto aggiustando il tuo pick-up>> mi spiega, con la calma che riserva a un bambino di due anni quando fa l'idiota. L'irritazione sale, e sale ancora. Stringo con violenza le mani in due pugni mentre lo osservo scivolare di nuovo sotto la mia macchina e iniziare ad armeggiare. Rumori metallici e indistinti si ripercuotono fra le pareti del garage insieme alla mia crescente ira. <<Hai bisogno di una macchina, Aleksandra, non puoi andare a piedi per tutta la città.>>

<<L'ho fatto un sacco di volte e non mi è successo nulla.>>

<<E allora pensa a Luke, lui si stanca molto più facilmente di te, non credi?>>

<<Non provare nemmeno ad usare mio fratello come tattica per avere ragione>> le parole escono dalle mie labbra con un'acredine che non sapevo nemmeno di possedere. Forse mi sono sbagliata, credo di esser messa peggio di quanto temessi. C'è rabbia in me, e tanto dolore, c'è ira furibonda che spaventa e distrugge, e che sembra in particolar modo apprezzare la presenza di zio Brooke per farsi più forte.

<<Non lo sto usando, sto solo dicendo la verità.>> Dopo un altro paio di minuti, sguscia dalla macchina e si solleva lentamente, così sporco da essere a stento riconoscibile. <<Ti sei rifiutata di farti comprare una nuova auto, perciò ti riparerò questa, che tu lo voglia o no.>>

<<Già, mi ero dimenticata che qua le mie opinioni non contano nulla.>>

Lui non risponde, si limita ad ignorarmi, come d'altronde fa praticamente ogni giorno. Mi dà fastidio, il mostro nel mio stomaco si risveglia, è furibondo, è carico di rabbia repressa. Trattenerlo è un impulso che non mi appartiene, ma lo faccio, perché è giusto, perché è importante. Perché è tutto quello che mi rimane da fare. Ma è difficile, Dio, è quasi impossibile. <<Il pick-up dovrebbe ripartire, prova ad accendere il motore.>>

<<No.>> La mia è un'affermazione carica di significati. No, non accetto aiuti da te. No, non ti voglio dalla mia vita. No, scompari per sempre, vattene via, sei un mostro e io sono un mostro molto più pericoloso di te.

Zio Brooke sospira, esausto quanto me per questa battaglia che si sta svolgendo da quando sono arrivata in questa casa, da quando ho messo piede in questa famiglia. <<Smettila di comportarti come una bambina.>>

<<Smettila di trattarmi come se lo fossi>> replico, la voce tagliente mi graffia la gola, il mostro grida, si dispera, vuole uscire a tutti i costi, incendia il mio corpo come se fossi fatta di legno. E vorrei fuggire, scappare via, il più lontano possibile. Ma non posso, non mi è concesso. Devo restare, per Luke, per il mio fratellino, per l'unica cosa che mi rimane di importante. Devo proteggerlo, sono la sua custode. Devo assicurarmi che il suo cuore non venga mai scalfito da niente e nessuno. Anche se significa distruggermi, anche se dovessi uccidermi.

<<Ti fa stare bene, non è così? Questa rabbia, questo odio>> si sfila i guanti e lascia che le sue braccia ricadino lungo i fianchi. <<Perché così non devi pensare a quanto stai male.>>

<<Ora vuoi farmi tu da psicologo?>> lo sfotto. <<Perché non ti si addice proprio.>>

<<Mi sbaglio?>>

<<Ti importa qualcosa?>>

Le sue labbra si tendono in una linea dura e rigida che accentua le sue rughe, ha l'aria stanca, disperata, e gli occhi arrossati per via della fuliggine. <<Che cosa vuoi da me, Aleksandra? Cosa vuoi che faccia? Che riporti indietro tua madre? Che la salvi da quel pazzo che le ha sparato? Che mi inchini a te supplicandoti perdono?>>

<<L'ultimo suggerimento è alquanto interessante, potresti applicarlo per davvero e vedere se funziona.>>

Si massaggia le tempie, esasperato da questa situazione. <<Devi smetterla, Aleksandra. Devi smetterla di cercare ogni scusa per arrabbiarti, non ti farà stare meglio. Non la riporterà indietro. Eleanor sarebbe distrutta se ti vedesse in questo stato.>>

<<Non parlare della mamma, tu non sai niente di lei.>> La mia voce ora trema, e mi odio per questo, odio il modo in cui il mio corpo si irrigidisce al suono di quel nome, della sua delicatezza mentre lo pronuncia come se per lui fosse importante, come se gliene fregasse qualcosa.

<<So che vi amava più di ogni altra cosa al mondo, so che si disperava perché sapeva a quante cose ti stava costringendo a rinunciare. Lei non c'è più, Aleksandra>> mormora a bassa voce, come se dirlo lo rendesse tutto molto più reale. <<Tutto questo odio, tutta questa rabbia, tutta questa voglia di picchiare, di farti picchiare, di farti detestare... nulla di tutto questo ti farà stare meglio. E nulla di tutto questo l'avrebbe resa felice. Se n'è andata, Aleksandra. Per sempre.>>

Non riesco a respirare, la palla di fuoco ha invaso i miei polmoni e impedisce loro di riassaporare l'aria. Mi sembra di esser sul punto di esplodere, e vorrei scoppiare, vorrei poter gridare, ma non ce la faccio. C'è qualcosa che non va in me, c'è qualcosa di forte che non riesco a fermare, è la rabbia che dilaga, e il dolore che viene soppresso.

Una risata amara scivola dalla gola di zio Brooke, e risuona fra le pareti del garage in un lento e straziante eco. <<Guardati... sei diventata proprio come lei, disposta a tutto pur di non cedere la tua causa, anche a costo di distruggerti, anche a costo di fingere di esser forte. Hai solo diciassette anni, Aleksandra, non puoi continuare così. Non reggerai. Per una volta nella vita, prova ad essere onesta con te stessa.>>

<<L'ho già fatto una volta, e non ho alcuna intenzione di ripetere lo stesso errore.>>

***

Non lo avrei mai creduto possibile, ma a quanto pare anche alla Star High School Academy il bullismo si manifesta con le stesse forme che assumeva nella mia vecchia scuola. E' da circa mezz'ora che sono ferma davanti al mio armadietto, nello spogliatoio, a fissare il suo interno svuotato da qualche persona che, evidentemente, fatica a tollerare la mia presenza.

Mi tampono i capelli con il cappuccio del mio accappatoio, e torno a guardare il post-it che mi è stato lasciato dopo il furto. Visto che sei così abituata a spogliarti in pubblico, ti abbiamo facilitato il compito. La scittura è tremolante e veloce, tutt'altro che naturale, forse per la paura che io potessi riconoscerne la calligrafia. Ah, sprovvedute, se fossi così intelligente non sarei di certo finita agli arresti domiciliari.

Il post-it è profumato, è una di quelle carte imbevute di lavanda che ti fanno sempre venire il mal di testa. Con un sospiro, lo lascio ricadere a terra e mi guardo intorno, pronta a dover affrontare un gruppo di adolescenti arrapati che si diverte a prendere in giro una persona che non capisce nemmeno quello che sta succedendo. Se io fossi quel genere di persona, ma questi scherzi non sono una novità per me, sono, ahimè, tristemente nostalgici, c'è un che di crudele nella consapevolezza che ho fatto così tanta abitudine a queste situazioni da non provare più nessun tipo di emozione. O forse è per via della litigata con zio Brooke... sì, deve esser stato per questo. Sono incazzata, e sono stanca. Sono così stanca che vorrei solo svanire all'istante da questo mondo.

Quando chiudo gli occhi, percepisco il mio stesso respiro convogliare nei polmoni e surriscaldarsi lentamente. Mi chiedo perché le persone desiderino così tanto far del male alle altre, agli sconosciuti, cosa le spinga a volere odiare in questo modo. Anche io sono una di loro, ma ogni mia vendetta, ogni mia forma di violenza, è sempre stata la conseguenza di qualche azione discriminatoria nei confronti di Luke e in generale della mia famiglia. Immagino sia perché deve esser molto piacevole insultare una persona con cui non hai a che fare, deve permettere a molti di stabilire un ordine dentro di sé, della necessità di predominare su qualcosa per la mancanza di controllo sulla propria vita.

Continuo a guardare l'intero del mio armadietto. Non hanno lasciato nulla, nemmeno la collana. È questo a preoccuparmi. La collana. Il ciondolo della mamma. Che fine ha fatto? Dov'è? Lo avranno buttato? Non posso perderlo. Non mi interessa di nient'altro, se non di quella stramaledetta collana. Senza mi sento persa, è come aver detto addio anche a quell'ultimo pezzo della mamma che mi era rimasto addosso.

Mi guardo attorno, alla ricerca di indizi. Non avranno lasciato niente in questi spogliatoi vuoti, è già tanto che non abbiano trovato l'accappatoio che avevo appoggiato accanto la doccia, forse temevano che le avrei viste. Sono state sicuramente delle ragazze. I maschi non amano questo tipo di scherzetti, preferiscono la violenza alle parole, e per questo sono molto più facili da affrontare.

Torno a guardare il post-it, ora per terra. E per quanto poca intelligenza possa avere, non fatico molto per riuscire a fare due più due. Stranamente, in questi ultimi mesi, sono riuscita a farmi pochi nemici, il cui numero può esser contato sulle dita di una mano. Da quando i fratelli King hanno tolto il veto su di me e mi hanno iniziato a parlare, gli studenti della scuola hanno smesso di guardarmi come se fossi un alieno o una portatrice ambulante di malattie trasmissibili via aerea. Alcuni hanno addirittura provato a parlarmi, pur continuando ad esser spaventati dal mio passato.

Quello che però Emily Elaister non ha considerato, è che io ho vissuto in una roulotte per quasi tutta la vita, che mia madre ha avuto un sacco di pessimi fidanzati, e che molti di loro mi hanno insegnato come comportarmi nelle situazioni più disperate. E un lucchetto sul suo armadietto non può certo impedirmi di vendicarmi. Sorrido quando finalmente, dopo minuti di tentennamenti, lo sento scattare.

Lo ammetto, il suo vestito da cheerleader è alquanto imbarazzante, ma è sempre meglio di nulla, e la gonna nasconde un piccolo pantaloncino interno con cui impedire agli altri di vedere cosa c'è sotto. Le tette cadono per la mancanza di un reggiseno apposito, ma sono l'ultimo dei miei problemi. Il completo mi va leggermente stretto, e stringe a livello dei fianchi, troppo muscolosi per poter esser rinchiusi in questa gonnellina svolazzante, ma potranno resistere per un po' di tempo.

Quando esco dagli spogliatoi, pulita e asciugata, lei è lì, che mi aspetta insieme alla sua amica, Tappetta, e un paio di ragazze che sembrano essere uscite dalla regia di Mean Girls. I suoi occhi si sbarrano alla vista di ciò che sto indossando, e la mano, già col cellulare pronto per scattare foto imbarazzanti, trema insieme a quella delle sue "amiche". <<Mi sta bene, vero?>> le domando, sculettando come la spogliarellista che non sono mai stata. <<Forse quando te lo rimetterai ti starà un po' largo sulla zona del seno, ma non è colpa mia se non hai tette.>>

<<Che diavolo hai fatto?>> la sua voce trema, furibonda, e il suo volto si fa violaceo. Con lo sguardo, scivolo sulle tre tizie che l'affiancano, Tappetta sta reggendo in mano i miei vestiti, ma la collana non è fra loro. Trattengo il respiro quando finalmente la trovo, legata al collo della biondina ossigenata stronza. <<Toglitelo subito di dosso!>> strilla lei.

<<Perché? Mi sta così bene, voglio dire, guardami, ho molte più tette e culo di te, direi che fare la cheerleader mi si addice.>>

Una risatina roca sfugge dalla tua gola. <<Più che la cheerleader, la puttana. Deve essere bello succhiarlo a tutti e due i fratelli King, non è così?>>

<<Per lo meno sono stata brava a non farmi beccare.>>

L'insulto è implicito, le sue labbra si serrano in una linea di violenta umiliazione, sorrido. <<Volete scattare delle foto? Devo mettermi in posa? E come? Oppure vuoi qualcosa di più spinto? Puoi farmele mentre mi sbatto tuo padre, ad esempio.>>

<<Ti conviene tappare subito quella fogna, se non vuoi...>>

<<Se non voglio cosa?>> la interrompo, incrociando le braccia al petto. <<Che dài fuoco ai miei vestiti? Che li strappi? Che li butti dalla finestra? Oh, fai pure, non me ne importa molto. Anzi, mi daresti una scusa per dar fastidio a mio zio, quindi te ne sarei grata. Vuoi che ti dia una mano?>> Stringo le dita attorno le braccia, la collana è ancora addosso al suo schifoso collo. La mamma è lì, è tutta lì, e lei la sta tenendo come se fosse spazzatura. Il mio sguardo tradisce la mia noncuranza, un sorriso diabolico si forma sulle sue labbra mentre la afferra e se la sfila.

<<I vestiti no, ma la collana sì? Oh, ci devi tenere molto, non è così?>>

Serro la mascella per trattenere gli insulti, per non parlare, per non dirle cosa significhi e darle così un altro motivo per distruggere per sempre l'ultima cosa che mi è rimasta della mamma. Si avvicina alla finestra aperta, lentamente, pian piano, e ogni passo l'ira rischia di farmi perdere il controllo. Inspiro quando sporge la mano con cui tiene la catena della collana oltre la finestra. Se dovesse farla cadere... <<E' mia.>>

<<Togliti i vestiti.>>

<<Quella collana è mia>> ripeto.

<<La rivuoi indietro?>> domanda, le sue amiche sghignazzano insieme a lei. <<Spogliati, avanti. Ti vergogni così tanto del tuo corpo? Diavolo, anche io lo farei. Ti abbiamo vista, sai, alla festa. Non sei minimamente femminile, e hai delle cicatrici disgustose...>>

<<Già, ma ho delle tette stratosferiche che tu non potrai permetterti nemmeno con una chirurgia plastica, vogliamo parlarne?>>

La mia bocca non mi ha aiutato, e ora, inesorabilmente, la collana cade oltre la finestra, lontano, via, insieme ai miei vestiti, e insieme a tutto quello che mi rimane di mia madre, l'ultimo pezzo di lei che avevo ancora attaccato addosso.


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