Marshmallow bruciati (parte uno)

Se c'è una cosa che ho imparato nel corso della mia vita, è di sfruttare al meglio le occasioni che ti capitano davanti, anche quelle più orribili e disgustose. A volte, ahimè, ho preso troppo alla lettera questo insegnamento, e le conseguenze si sono viste quel giorno, quando ho picchiato quel ragazzo.

A dire il vero, all'inizio non era stata quella la mia intenzione. Quando avevo rubato la mazza da baseball, non ero corsa da Patrick Jordan con lo scopo di ucciderlo. Ero arrabbiata e disperata, ma non ancora così fuori di testa. La morte della mamma mi aveva trascinata in un limbo di oscurità e disperazione, un luogo freddo e apatico, e per molti giorni, per settimane, mi era sembrato di vivere dentro una bolla, di avere una parete invisibile che mi separava da tutto quello che mi circondava. Suoni, voci e rumori filtravano ovattati nella mia testa, c'erano dei momenti dove non riuscivo a percepire il mio stesso corpo, mi sentivo fluttuare nell'aria pur avendo i piedi ben saldati a terra. Mi capita ancora, nei momenti dove il mio cervello lavora troppa e io non riesco a fermarlo. Disturbo dissociativo. Così lo chiama il mio psicologo, il cui lavoro sembra essere quello di dare nome e cognome a tutti i miei problemi, a tutti i miei incubi.

Quindi, stavo avendo un disturbo dissociativo anche quel pomeriggio. E vedere Luke ridotto in quel modo, piangente, e con il volto così gonfio da non essere più riconoscibile, non ha fatto altro che aggravare la situazione. Una voce maligna si era insinuata nel mio cervello. Vendicati, fagli del male, spaventalo. All'epoca, avevo pensato fosse la voce del diavolo, ora so che era il mostro che io stessa ho creato. E il mostro mi ha guidata fino alla palestra, mi ha fatto scassinare l'armadio degli strumenti, mi ha portata davanti al ragazzo che aveva picchiato senza pietà mio fratello. Mi piacerebbe poter dire che vederlo fosse stato sufficiente, che insultarlo e gridargli addosso sarebbe bastato, di solito bastava.

Ma non quel giorno. 

Quel giorno il mostro voleva sangue, e vendetta, voleva una persona con cui sfogarsi per tutto il male che stavo provando. Volevo riversare il dolore che avevo addosso attraverso i colpi alla testa di Patrick. Non riuscivo nemmeno a sentire le sue suppliche, non vedevo neanche le sue lacrime. E più colpivo, più stavo male. Sembrava non fosse mai sufficiente. Volevo smettere, ma non potevo. La faccia di lui si era trasformata nella mia, il mio corpo si muoveva da solo, e avrebbe continuato a farlo se quei tre professori non mi avessero fermata e bloccata a terra.

Da quel giorno, ho sempre paura di avere un altro di quei momenti. Non è per il senso di colpa, sarebbe bello poter dire che mi sono pentita delle mie azioni, ma non è così. Non è per questo. E' per la perdita di controllo, per quel vuoto sordo e cieco che mi pervaderebbe se finissi di nuovo in quel limbo. 

Non sto bene. Me ne rendo conto da sola. Sto male, sto così male che a volte vorrei poter morire e basta. E poi ripenso a Luke, e il mio cuore soffre, perché lui non ha nessuno oltre a me, e io non dovrei mai avere questi pensieri, perché lui è tutto quello che rimane e io sono tutto ciò di cui dispone, perché il mio dolore non è minimamente paragonabile al suo.

Mi domando dove ho sbagliato. Devo aver sbagliato da qualche parte. Non posso credere che le cose sarebbero andate comunque allo stesso modo, se le mie azioni fossero state diverse. Ho bisogno di sapere di potermi attribuire delle colpe, di sapere che c'è qualcuno da odiare e disprezzare. Che se un giorno preciso avessi scelto di fare o non fare una cosa, ora non sarei qui, e la mamma sarebbe ancora viva.

Perciò ho deciso di colpevolizzarmi, è molto più facile odiare qualcuno, perfino se stessi, piuttosto che odiare un'entità la cui esistenza non è provata o un destino di cui non sai se fidarti. Ho trovato la causa, il mio errore. E' stato lasciare che la mamma si occupasse dei nostri problemi economici. Un turno, doppio turno... si distruggeva solo per portare a casa un po' di soldi. Avrei voluto aiutarla, trovarmi un lavoretto, e spesso litigavamo per questo. La mamma voleva che io studiassi, che stessi con Luke, sperava di impedirmi di crescere troppo in fretta. Mesi interi sprecati per litigare. Alla fine ho ceduto. E non ho lavorato.

E' stato lì il mio errore.

Deve essere stato lì. Voglio credere che sia così. Voglio credere che se avessi trovato lavoro, la mamma non avrebbe dovuto fare l'infermiera di giorno e la spogliarellista di notte. Voglio credere che se avessi trovato un lavoro, quella sera sarebbe rimasta a casa con Luke, a raccontargli la favola della bambola. Voglio credere tutto questo.

Voglio credere che anche lei avrebbe potuto essere salvata da qualcuno.

E voglio credere che quel qualcuno avrei potuto essere io.

***

Quella non è mia madre.

Quella non è la mia mamma.

<<Signorina, si sente bene?>> il medico legale non sembra affatto sorpreso dal mio volto cinereo, deve essere abituato a queste situazioni. Sempre che ci si possa abituare per queste cose. <<Agente, forse è il caso che la porti via con sé.>>

No, non voglio andarmene. Devo restare, qua, ferma. Devo guardare. Devo capire. Le mani dell'agente di polizia si posano sulle mie spalle, ma a malapena riesco a sentirle.

Quella non è mia madre.

Non può essere lei.

Mia madre ha i capelli castani e il volto ovale, da bambola, ha delle labbra sottili e un naso appuntito, e delle lentiggini che io ho ereditato, e che sembrano piccoli spruzzi di fragola sulla parte superiore delle guance.

Quella non è mia madre.

<<Aleksandra>> la voce di zio Brooke mi richiama al mondo della realtà. I miei occhi non riescono a staccarsi dal cadavere che ho davanti. Cos'è quel cranio spaccato? Cos'è quel volto distrutto? Io non vedo mia madre in questo corpo, solo una morta. <<Aleksandra, è lei.>>

No, non è vero.

Le spalle tremano. Tutto trema. Io tremo. Che cos'è? Perché fa così male? Questa non è mia madre. Quindi non dovrebbe farmi male. <<Signorina Porter...>> ripete il medico legale. <<Vuole un attimo di pausa?>>

Scuoto la testa. Non riesco a smetterla di guardare, non riesco a smettere di fissare questa donna, le sue gambe, il suo torace. Il suo petto.
Il suo petto.
Il suo tatuaggio.

Luke. Aleksandra.

I nostri nomi.

Sul suo petto.

Questa è mia madre

Dio.

<<Aleksandra...>>

La mamma. La mia mamma. Eccola, è qui. Ma non parla, non si muove, non ha nemmeno più una faccia. Non ha nemmeno delle labbra da muovere, delle orecchie con cui ascoltare, degli occhi con cui vedere. Dove sono finiti? Chi li ha portati via? Che cos'è questo mostro? Dov'è mia madre? <<Luke non può vederla>> sussurro, ed è un'impresa, non ho la più pallida idea da dove abbia trovato la forza per parlare. <<Non può.>>

<<Non la vedrà>> mi rassicura zio Brooke. <<Ora è meglio se...>>

<<No.>> Lo fermo. Non voglio che mi tocchi, non voglio che mi dia ordini. Questo istante. Solo questo istante. Devo stare con lei. Devo toccarla. Le sue mani sembrano così morbide, così calde, ma quando le sfioro con le mie dita, ghiacciano la mia pelle. E' così fredda, così... vuota. Dov'è finita? Dove se n'è andata? Le mie labbra tremano, gli occhi bruciano, ma le lacrime non scendono. Non riesco a piangere. Com'è possibile? Voglio piangere, devo piangere. E' la mia mamma. Se non piango per lei, per chi, allora? Per cosa? 

<<Don't cry, my little child>> canticchio a bassa voce. E' la canzone della buonanotte della mamma, quella che ci cantava sempre prima di andare a dormire. <<Don't be afraid, I'm here with you.>>

Le mie dita scivolano lungo il suo braccio, è completamente nuda, riesco a riconoscere centinaia di dettagli che prima avevo dato per scontato, e che invece ora mi ricordano che è lei, che non potrà più svegliarsi. Continuo a canticchiare, la voce è spezzata, sento di star per crollare. Lo faccio. Crollo e basta. Crolla tutto il mondo. Crollo io. Crolla il mio corpo. L'agente grida qualcosa e zio mi afferra per le braccia prima che possa farmi del male.

La porta dell'obitorio si spalanca, Luke entra. Non so che l'abbia fatto entrare. <<No! Non deve!>> strillo, ma è troppo tardi. Vede la mamma, i suoi occhi si spalancano, e capisco che l'ha riconosciuta. Nonostante non abbia più un volto, nonostante non sia più lei. La guarda, e un urlo straziante fuoriesce dalla sua gola. Mi divincolo dalla stretta di zio Brooke e dell'agente e gli corro incontro. Luke urla, urla forte. Urla il nome della mamma. Urla per me. Per lui. Per noi. Lo stringo a me, ma non basta. Non basta a contenerlo. Urla come urlano i bambini non appena vengono al mondo. Urla per la crudeltà della vita, per le ingiustizie di questo posto.

Lo stringo a me. Forte. Più forte. Stringilo. Custodiscilo. Proteggilo. Dove l'ho imparato? Non lo so. Non lo ricordo più. <<Mammaaaaaaaa!>> le sue grida sono strazianti, mi squarciano il petto. E' doloroso. E' reale. Ora piange. Ora grida. Caos. Devastazione. Distruzione. <<Mammaaaaa!>>

Continua a chiamarla, continua a ricercarla. Il suo nome. La sua voce. Il suo calore.

Ma è troppo tardi ormai.

Lei non può più risponderci.

Dall'altra parte non c'è più nessuno.

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