Capitolo 9
NY, 2020.
Agli occhi della gente può sembrare una persona comune, con dei vestiti comuni e un atteggiamento comune; tuttavia non lo è affatto, perché sul suo volto è tratteggiata la stessa freddezza dei soldati di pattuglia: le crisalidi. E lo è, Lindsey è una di loro, seppur con dei panni discutibili indosso. Ecco perché non ha paura di nulla, neppure di sfilare davanti un gruppo armato fino ai denti, o entrare nell'Aeroporto LaGuardia senza autorizzazione. Lei non ne ha mai avuto bisogno, perlomeno da quando è diventata un alfiere, da quando Raze l'ha posta sulla scacchiera, sul primo quadratino bianco. Così cammina: seria, decisa, un passo alla volta, con la gonna a fiori di Nadja che le batte sui polpacci, che ondeggia e l'accompagna; ma poi è costretta a fermarsi accanto a un cordone di uomini e donne, schiacciata contro il plexiglass, dopo averne superato la metà. "Che importa", pensa, "io posso farlo".
Eppure qualcuno non è d'accordo: un omone con il naso a patata impreca, una signora la spintona e le dà addosso come può, mentre lei batte appena le palpebre e resta immobile a respirare placida; poi è il turno di una ragazza, che abbandona il bagaglio a mano e grida qualcosa come: «Che diavolo stai facendo, mettiti in fila!», e dopo c'è un tale con il dilatatore all'orecchio e i dreds che arriccia il naso e sbuffa, che sputa un: «La gente non è normale, cazzo; ohi, fila in fondo: non sarai mica ritardata?».
Lindsey spalanca gli occhi e inclina il capo quasi in un tic. Sente una presa salda sul braccio, qualcuno che la tira, e si accorge dello stewardess sulla sinistra, del suo:
«La prego, mi segua», mormorato con fare irritato.
Pagherebbe oro per avere indosso l'uniforme grigia delle crisalidi, per poter sfoderare la pistola o anche solo il distintivo, ma è costretta a dire: «Sono qui a nome della Terza Giurisdizione», e ancora, con voce più alta, «La prego di accertarsi del mio codice di appartenenza», qualcosa che avrebbe preferito evitare, che le costa molto e che la mette in imbarazzo di fronte a una massa di sconosciuti. Così restringe lo sguardo e solleva la mano, espone il palmo e fissa lo stewardess di sottecchi. «Sono qui, avanti», lo sprona. Il respiro corto, la rabbia nelle vene, attende che almeno uno dei suoi polpastrelli venga posto sullo scanner di controllo che pende dal collo dello stewardess.
E così accade: lui non fa complimenti e le afferra l'indice, lo schiaccia letteralmente contro il vetrino illuminato di verde. Neanche due secondi dopo si ode un beep lontano che proviene dalla colonnina cui è posto il computer; così lo stewardess si allontana e muove qualche passo a ritroso senza toglierle gli occhi di dosso, preoccupato che lei possa scappare.
«Non me ne vado», precisa Lindsey.
Non è convinto lo stewardess, perciò si sbriga a abbassare gli occhi sullo schermo nella convinzione che dovrà sollevarli veloce e chiamare le guardie; tuttavia si ricrede in un lampo e rilassa le spalle, sospira, quasi trema per la tensione accumulata: B, una crisalide di nome B, ecco chi ha di fronte, e non ha bisogno del suo codice di appartenenza.
«È tutto chiarito?», chiede lei.
«Tutto chiarito», conferma. Si scosta dalla colonnina, dal computer, e torna al cordone di uomini e donne. Schiarita la voce, fa un gesto con il braccio per dividere la fila e farle spazio. Dice: «Nessun favoritismo, signore e signori: ha il permesso della Terza Giurisdizione».
Qualcuno mugola, qualcuno borbotta e arriccia il naso contrariato. Il tipo con i dreads sbuffa un: «Ti pareva», e la ragazza del bagaglio a mano rotea gli occhi infastidita, dice: «Sempre così»; eppure nessuno fa niente, lasciano passare Lindsey indisturbata.
Lo stewardess china la testa, nemmeno la guarda, si sente a disagio per l'errore appena commesso e vorrebbe sparire sotto le mattonelle bianche dell'Aeroporto LaGuardia. Allo stesso tempo, però, ha come voglia di lanciarle un'occhiataccia, di dirle: "Non capisco perché girare in borghese e poi dichiarare a gran voce di essere una crisalide". Perciò tace e si sbianca le nocche in due pugni chiusi, mentre Lindsey avanza spedita sotto il Metal Detector e ancora dopo lungo le scale mobili, verso i Gate.
E lì, al piano di sopra, guardandosi attorno, lei sospira. Vede le persone che fanno avanti e indietro tra i negozi, che entrano negli unici due bar aperti per prendere un caffè o un cappuccino nel tentativo di tenersi svegli dopo una nottata tesa, e non dice niente: li studia, li scruta, li cataloga mentalmente; infine s'indirizza verso il corridoio dei Gate e accelera il passo fin quando non raggiunge l'ottavo. Dunque si ferma e resta in piedi accanto alle panche di metallo. Fa un cenno a una delle due hostess che sostano dietro la colonnina con il terminale di controllo e si schiarisce la voce, attende di essere raggiunta.
«Mi dica», mormora formale la hostess, dopo averla raggiunta con un sorriso di stampo quasi prefabbricato. «Si sente bene?», indaga poi.
Lindsey ha la stessa espressione di prima: statica, immobile, monocolore. Batte le palpebre una sola volta e allunga l'indice verso la hostess, che si sente additata e ritira il capo con fare perplesso. «Sono una crisalide, mi chiamo B». Si stringe nelle spalle. «La prego di controllare con lo scanner», dice, «Sono qui a nome della Terza Giurisdizione, ma non devo imbarcarmi con il volo...», s'interrompe e sposta lo sguardo verso lo schermo blu e rosso, «diretto a Madrid». Lancia un'occhiata alla divisa della hostess e cerca l'etichetta con il nome posta sul suo petto. «Devo scendere nella zona di carico, signorina Missie».
L'hostess annuisce: "Sembra un atteggiamento abbastanza credibile", così si dice; tuttavia controlla lo stesso con lo scanner e attende conferma dalla collega posta di fronte alla colonnina. Quando le vede sollevare il capo in una muta conferma, dunque, fa un passo indietro e mormora: «Prego, passi pure», rivolgendosi a Lindsey.
Lei lascia cadere le braccia lungo i fianchi, solleva appena un angolo delle labbra e s'incammina verso il tubo di metallo, l'ingresso del Gate 8. Dice: «Grazie tante, Missie», ma non si ferma nemmeno un secondo, né saluta l'altra hostess o la degna di un'occhiata. Accelera il passo, con le suole delle sneakers di Nadja che rintoccano sulla texture in ferro, e in breve raggiunge la fine del tunnel, si aggrappa alle maniglie bianche. Sporta in avanti, osserva i due operai e lo stewardess a un paio di metri più in basso, sull'asfalto pieno di linee gialle e blu, che stanno per avvicinare la scala.
«Chi è lei?», grida un tale, un operaio con le cuffie arancioni. Libera un orecchio, aggrotta le sopracciglia e attende la risposta di Lindsey, che non tarda ad arrivare:
«Mi chiamo B, sono una crisalide: le vostre colleghe si sono accertate della mia identità e del mio codice d'appartenenza, perciò ho avuto il permesso di arrivare fin qui prima dell'imbarco dei passeggeri», dice spicciola, «Devo scendere alla svelta e raggiungervi nella zona di carico».
«C'è qualche problema con l'imbarco dei passeggeri o con il volo per Madrid?», chiede lo stewardess.
Lindsey scuote la testa e si mette seduta sul bordo del tubo di metallo. «Sono qui per un altro motivo».
Gli operai sembrano sbiancare, iniziano a chiedersi se hanno fatto qualcosa di sbagliato e si guardano fra loro, si lanciano occhiate preoccupate con la coda dell'occhio. Con i muscoli delle spalle tese, uno deglutisce a vuoto e si morde la lingua, mentre l'altro dice: «L'aiuto a scendere».
Ma Lindsey lo precede e si lancia nel vuoto: atterra sull'asfalto a piedi pari, sente una scossa scivolare lungo entrambe le gambe, dopo aver vibrato nei calcagni. Per un attimo si convince di avere il cervello ridotto in poltiglia, come gelatina, e si pente di aver voluto fare bella figura con i presenti; tuttavia solleva le palpebre appena serrate per il dolore e inspira, espira, percepisce l'ennesima fitta al costato. Dice: «Grazie, ma come vede non è necessario».
Lo stewardess annuisce, muove un passo indietro e le fa spazio. Rabbrividendo, non si azzarda a dire una parola e lo stesso fanno gli operai, che però le indicano la zona di carico.
Lei annuisce e mormora di nuovo un: «Grazie». Accelera il passo frastornata, con la pista di atterraggio che le ondeggia nella testa e la vista appannata, mentre altri operai con le cuffie arancioni la guardano confusi da lontano. Ed è certa che Levius la riconoscerà, Lindsey, che si volterà per primo e che non dovrà riconoscerlo tra tanti nella zona di carico. Perciò si avvicina e incrocia le braccia, mentre gli uomini indaffarati con le valige continuano a infilare i trolley nella stiva di un aereo con il motore spento.
Poi uno si ferma: ha la fronte sudata, la maglietta grigia macchiata con aloni più scuri e il fiato corto. Non parla, non ha voce, ma spalanca la bocca come un pesce, cerca aria e sputa anidride carbonica dopo aver infilato ossigeno a forza nei polmoni. La cassa toracica si muove, il cuore balza veloce nel petto. Con il volto contratto in una maschera di preoccupazione e le sopracciglia aggrottate, gli occhi sgranati, riesce appena a biascicare un: «Lin...».
Allora lei ne è certa, si tratta di Levius. Solleva un angolo delle labbra, ghigna soddisfatta e sospira. Le costole fanno male, la ferita freme. "Ho trovato il cavallo", pensa. «Volevi farmi a pezzi?», chiede.
Lui manca la presa su un trolley nero, lo fa cadere in terra e quasi si schiaccia un piede. Batte le palpebre confuso, perché nonostante il rumore lontano, nonostante le cuffie arancioni e l'insonorizzazione, ha letto il labiale. Un brivido gli corre lungo la schiena, gli accappona la pelle delle braccia e fa gelare il sudore sotto la maglietta grigia. «No», mente, «non lo avrei mai fatto», una frase gridata nel vento, che supera l'eco di un motore di prova a mezzo chilometro di distanza.
Lindsey inclina la testa e incrocia le braccia al petto. «Me l'hanno detto i tuoi amici».
Il tale accanto a Levius si lamenta, lo scuote per un braccio e grida: «Che cazzo fai, stiamo lavorando!», e ancora, «Ci parli dopo con la tua ragazza!».
Ma lui nemmeno se ne accorge e scavalla il trolley che ha lasciato cadere, esce dal cordone di operai per avvicinarsi a Lindsey e chiarire la questione. «Non volevo, Lindsey, non sapevo che fossi tu e si trattava di un'emergenza».
«Che tipo di emergenza?», lo incalza, finalmente faccia a faccia.
«Era mattina, pensavo di aver ucciso una crisalide in casa e dovevo liberarmi del corpo». Levius si sposta le cuffie, le lascia cadere lungo il collo. «Era una cosa grossa, Lindsey, una cosa davvero grossa».
Lei si lascia scappare un suono divertito. «Perché, fare a pezzi la gente è una cosa piccola?», chiede provocatoria. Scuote la testa, infine dice: «A ogni modo io non mi chiamo Lindsey, ma ti ringrazio ugualmente per la premura dimostrata, per avermi mantenuta in vita».
Levius sgrana gli occhi, balbetta un: «Che stai dicendo», e solleva una mano per carezzarle il viso.
Tuttavia Lindsey lo frena, schiaffeggia il suo braccio, gli vede sgranare gli occhi. «Sono B, una crisalide», mormora.
Lui legge ancora il labiale e rimane di sasso. È certo che stia mentendo, che quella ragazza sia sua sorella Lindsey, la stessa che ha cercato per anni assieme a Ralph ed Esteban; ma non può fare nulla per dimostrarlo, non riesce nemmeno a toccarla senza che lei reagisca in malo modo. Dunque sente il respiro mancargli, le lacrime iniziare a pizzicare per uscire. Socchiude le labbra e butta fuori un groppo di aria calda. Chiede: «Da quanto tempo sei la crisalide B?».
Lindsey, però, non risponde. Lo guarda e basta. E d'un tratto dice: «Raze ha bisogno del tuo aiuto».
Gli occhi di Levius si fanno più liquidi, intensi, persi in quelli gemelli di Lindsey. Sono pozzi d'ambra, velature d'acqua che non hanno il coraggio di abbandonarsi verso il basso. «Chi è Raze?».
«Il re bianco».
Note: In questi giorni sto cercando di fare revisione a tutti i costi, ma la verità e che sto sotto un tir per la stanchezza, visto che combatto con le adenoidi. Scene da film dell'orrore, stile Crisalide, quando ho iniziato a sanguinare. Roba che nemmeno su internet si sono lette. Bah, questo perché nessuno si è accorto che erano loro il problema da tipo settembre. Ma complimentisissimi, lasciamo morire gonfia 'sta tipa, che importa se ti viene una volta a settimana a lamentare gli stessi sintomi che vanno via via peggiorando. Applausi anche all'otorino, stupendo lui, che mi ha praticamente fatto infiammare il doppio 'ste schifeh. Ohibò, raga, comunque sul mio profilo c'è uno scambio di letture... passate a farci un salto, perché dopo la prima lista disastrosa ho avuto una seconda lista bellissima, che mi ha dato tanta gioia e nuove storie da continuare a leggere!
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