Capitolo 8

NY, 2020.

I passi barcollanti di Lindsey accompagnano il battito accelerato del cuore di Nadja, il fruscio delle lenzuola, perfino lo scricchiolio dello scotch con cui la flebo è ancora incollata alla parete; e nessuno, neppure Esteban, riesce a dire o fare niente. Poi la sacca si stacca e cade in terra con un suono liquido, molle e pesante, schiacciandosi sul pavimento. È appiattita su un lato, sembra il cuore di un cadavere appena seviziato da un gruppo di giovani tirocinanti di chirurgia.

Salomone corre. Sfreccia nella stanza di Levius, con il naso arricciato, e come colto da uno strano sesto senso sfodera i denti, punta Lindsey, abbaia: è preoccupato per Nadja mentre allunga le zampe anteriori e solleva la coda. Si prepara all'attacco, restringe le palpebre e fissa i polpacci nudi della crisalide.

Basterebbe un ordine, un solo ordine, e Nadja lo sa. Guarda il cane, Esteban, infine Lindsey, che placida e priva di espressioni si sfila l'ago cannula; allora si schiarisce la voce, ma sente la gola incastrarsi con un groppo di saliva e per un attimo vorrebbe tornare indietro nel tempo, fingersi incapace di salvare un essere umano, lasciarla morire lì, su quello stesso letto da cui è scesa. Tuttavia, mentre la tensione le scivola addosso come una cascata fredda, mormora: «Cosa vuole la Terza Giurisdizione da me?». Finge di non saperlo, di essere innocente, perché è l'unica cosa che può fare per prendere tempo.

Ma Lindsey non ha intenzione di giocare. Batte le palpebre una sola volta, come un automa, o come una bambola, e si trattiene dal massaggiarle, perché il dolore che le martella dietro è così forte da innervosirla. Nemmeno si accorge del rivolo di sangue che le cola lungo l'avambraccio: è troppo concentrata a mantenersi vigile, ritta sulla sua stessa statura, mentre le gambe tremano e a stento la reggono in piedi. «Si tratta di un controllo», dice a fatica, «solo di un controllo...». Inclina il capo verso destra, sporge le labbra in un ghigno provocatorio, stanco, e aggiunge: «Ma deduco che in questa casa abbiate dei problemi con le autorità».

«Affatto», nega Nadja.

Esteban osserva la schiena nuda di Lindsey, poi scivola verso il basso e deglutisce, si sofferma un po' troppo sui glutei bianchi e sodi che ha davanti: sa che Levius lo picchierebbe a sangue se fosse presente, ma non c'è. «Nessun problema», mormora, con la voce strozzata, prima di udire un:

«Dunque accogliete così tutti gli ospiti».

E se ne rende conto Esteban: quella di Lindsey è una domanda retorica, un modo per zittirlo, per metterlo in difficoltà; perciò si sforza di apparire naturale e tira le labbra verso l'alto, prende le sembianze di una marionetta. «No», dice, «è stato un errore», e continua accollando tutta la colpa all'unico assente, «Io e Nadja non c'entriamo niente»: è convinto che Lindsey chiuderà un occhio; eppure si sbaglia.

"Ha detto di non conoscere alcun Levius, ricordi?", pensa Nadja, con un'espressione stile: "Davvero? Sei impazzito?". E guardando Esteban pare dirgli: "Brutto-stronzo-traditore-bastardo". «In realtà c'è stato un malinteso», biascica ad alta voce.

«Nessun malinteso», conclude Lindsey scuotendo il capo. E con la stanza che pare oscillarle sotto i piedi, sospira. Si massaggia l'arcata sopracciliare, preme i polpastrelli e poi fa un gesto veloce per zittire i presenti. Incurante della sua totale nudità, si volta verso Esteban e lo fissa di traverso per riepilogare: «Un tale di nome Levius ha tentato di uccidermi». Crede che lui, Esteban, sia l'anello debole, e austera solleva il mento, lo incalza: «Giusto? Confermi?». Inspira a fondo, con le costole che quasi la pugnalano, e butta fuori aria calda dai polmoni.

Lui sbianca e d'improvviso si rende conto della realtà dei fatti: Lindsey non sta scherzando, né fingendo, perché i suoi occhi non tradiscono la minima emozione; e afferrato alle caviglie da una poltiglia di consapevolezza, a stento muove le labbra. "Non sa chi diavolo sia Levius", pensa, "Possibile?". «In realtà era solo spaventato», prova a giustificarlo in una risatina bassa, «Non sapeva chi avesse suonato al campanello e ha reagito d'istinto», dice ancora, «Di questi tempi può succedere di tutto a New York, no?».

«Dunque questo Levius è cieco, oltre che molto stupido», mormora Lindsey monocorde, «e compie atti illegali pur di proteggere i propri coinquilini, i propri amici presumo, invece di mettersi in contatto con le autorità competenti...».

«Non ho detto questo», la frena Esteban.

Allora Lindsey riprende a massaggiarsi il viso: la fronte, le sopracciglia, le tempie. «Hai parlato di autodifesa», insiste atona, forse appena piccata, «e il mio stato attuale parla da solo». Allarga le braccia, si mostra nuda e stretta solo dalle bende che Nadja le ha assicurato attorno al torace per coprire la sutura postoperatoria. «Il famoso Levius di cui parlate possiede un'arma pericolosa, un'arma che è stata in grado di cogliermi alla sprovvista e con l'ha quale ha colpito un essere umano; suo pari o superiore, crisalide o meno. E il Governo vigente non tollera certe alzate di testa, no davvero, le punisce severamente».

«Autodifesa e soccorso sono sullo stesso piano», interviene Nadja mentre di colpo le si secca la gola. Percepisce un nodo al centro del petto, nello stomaco, e allarga le narici, prova a respirare, non ci riesce. Con un peso sul petto, un incubus nella veglia, si lascia fulminare da Lindsey e ritira la testa, si trasforma in una sorta di tartaruga.

«Come?», la incalza lei sottovoce. Abbassa la palpebre, sospira e incassa l'ennesima pugnalata tra le costole. «Cosa intendi dire con questo?». Muove un passo in direzione di Nadja e si fa più minacciosa. «Era programmato, forse? Volevate fare amicizia?», chiede ironica.

«No». Nadja scuote la testa. «Solo che Levius ti ha attaccata e io ti ho salvata», risponde e deglutisce. «Con l'aiuto di Esteban, naturalmente; mentre Levius faceva avanti e indietro dalle altre stanze, mentre pregava che ti svegliassi, perché non sopporta aspettare e non sopporta nemmeno dover credere nei miracoli, visto che ha smesso di credere in Dio».

Lindsey storce la bocca in una smorfia, poi si lascia scappare un suono divertito. «Tenete così tanto alla fedina penale di questo Levius?», inizia vaga, «Più che alla vostra, vedo...», e si stringe nelle spalle, dice: «Non ha senso attaccare qualcuno per togliergli la vita e subito dopo affannarsi per salvargliela in modo abbastanza dubbio». Infine si guarda attorno, sosta appena su Salomone e mormora: «Dove sono i miei vestiti?».

Così è Esteban a prendere la parola, dice: «Puoi indossare quelli di Nadja», prima di essere fulminato con un'occhiataccia e un lento:

«Come, scusa?». Lindsey sgrana gli occhi e lo fissa, socchiude le labbra secche senza più voce ed è sul punto di aggredirlo, di afferrarlo alla gola e stringerlo forte.

«I miei vestiti, sì», conferma Nadja alle sue spalle, «ma solo perché i tuoi non sono sicuri in questo momento».

"Sicuri" è la parola che le echeggia in testa, la stessa che non può fare a meno di ripetere ad alta voce: «"Sicuri"? Cosa intendi per "sicuri"?». Ma non ottiene risposta e vede Nadja allontanarsi, aprire l'armadio in totale silenzio per tirare fuori un maglione nocciola e una lunga gonna floreale. «Cosa intendi?», riprova Lindsey. Muove un passo svelta e la testa batte a ritmo di rock: tra piatti di batteria impazziti e chitarre imbizzarrite; eppure è solo un tallone troppo frettoloso, un osso che scatta e che rimbomba nel cervello, un "Vaffanculo" borbottato tra i denti e ancora la barca immaginaria che oscilla sotto il sedere di Lindsey.

«Potrebbero essere controllati da qualcuno con delle microspie», vuota il sacco Esteban, «e la situazione è abbastanza complicata così com'è».

«Perché se io accettassi di fingere che in questa casa non ci sia nulla di strano, magari qualcun'altra potrebbe scoprirlo comunque e venire a controllare al posto mio», sussurra Lindsey.

Esteban annuisce, ma è certo che lei non lo stia neppure guardando; allora corruga la fronte e trattiene uno sbuffo scocciato. «Non c'è niente di strano in questa casa», scandisce.

«Eppure non mi avete permesso di giudicarlo con i miei stessi occhi», lo corregge atona, mentre Nadja le solleva le braccia per farle scivolare addosso il maglione nocciola. «Non sono neppure arrivata in cucina», borbotta da sotto il colletto, «mi sono svegliata direttamente qui, su questo letto».

«Potrai controllarla, se vorrai», acconsente Nadja d'un tratto, prima di spostarle i capelli rossi su una spalla. «Se vorrai», ripete tesa, o magari nervosa, mentre tenta di sembrare il più placida possibile, con un finto sorriso sul viso.

«Credi forse che un atto di carità possa cambiare le cose?», chiede Lindsey, «È a questo che serve la vostra accoglienza, a creare un debito che poi dovrò ripagare?».

Esteban si passa una mano tra i capelli e sbuffa esasperato. Forse è davvero l'anello debole, perché scandisce: «Nessun debito». Guarda Lindsey, mentre indossa la gonna a fiori di Nadja, e poi aggiunge: «Anzi, tutto il contrario: pensavamo di ucciderti e farti a pezzi».

Nadja s'irrigidisce, alza la voce e tenta di frenare la sua confessione improvvisa con un richiamo: «Esteban!», grida; eppure non ci riesce, perché lui la ignora e la interrompe:

«È così», dice: poche parole svelte e un'alzata di spalle. «Ci siamo fermati solo perché sei tu, perché Levius ti ha riconosciuta e perché io stesso non me la sono sentita di andare avanti».

Lindsey socchiude le labbra allibita. Con le sopracciglia aggrottate, mormora: «Uccidermi e farmi a pezzi». Una considerazione: niente di più e niente di meno, qualcosa che s'incastra tra le corde vocali, che le annoda lo stomaco, le viscere. Così si trasforma in una furia e scatta verso Esteban. Ignora il dolore alle costole, avanza. Lo afferra per il collo e stringe fino a fargli male, premendo con la mano libera sul suo torace. «Perché?», sibila. E mantenendo una distanza di sicurezza, sostando a quasi mezzo metro da lui, volta il capo verso Nadja. Di nuovo sulla sua barca immaginaria, ondeggiando, Lindsey sente le gambe tremare e i piedi mancare l'appiglio con il terreno; tuttavia resiste e mostra i denti come Salomone. «Credete che io sia pericolosa?», chiede, «O che possa spifferare qualcosa di compromettente alla Terza Giurisdizione?». Insiste con il palmo sullo sterno di Esteban e lo sente mugolare, tossire, mentre stringe come a volerlo strangolare.

«Entrambe», riesce a rantolarle in faccia. Gli occhi ridotti a due fessure nocciola, la minaccia in silenzio e le stringe il polso, l'avambraccio, per indurla ad allontanarsi il prima possibile.

Eppure lei non lo fa: torna su di lui, lo fissa e arriccia il naso in una smorfia. Infastidita dalla sua reazione, con il ringhio di Salomone che le echeggia nelle orecchie, serra la presa e ignora il tremore dei nervi causato da Esteban. «Potreste avere ragione», sussurra minacciosa, con un ghigno appena accennato. Poi abbandona la pressione sul torace e abbassa lo sguardo verso il cane. «Platz», ordina decisa.

Nadja sente il sangue gelare nelle vene e vede l'addestramento di Salomone finire in terra con tutta la sua voglia di proteggere casa. "È un incubo", pensa. Alle spalle di Lindsey, balbetta un: «Lascialo andare, nemmeno vive qui».

«Eppure ha confessato di volermi fare a pezzi», dice, «Perché dovrei lasciare andare un mostro simile?».

"Perché è uno scemo", pensa Nadja, "e perché non lo avrebbe fatto se non avesse pensato che fosse un modo semplice per impietosirti". «Non lo so», ammette. Si avvicina lenta, trascinando le suole di gomma verso il muro attiguo, mentre il respiro di Esteban si fa più affannato e pesante. «Ma se pensi di essere in debito, allora lascialo andare».

«Non penso di essere in debito».

«Lui voleva farti a pezzi, io ti ho salvato la vita», insiste giocando la sua ultima carta, «Sicura di non essere in debito?».

Lindsey si lascia sfuggire una risatina asciutta, infine distende le dita e, pallida, abbandona il collo di Esteban. Con il volto ridotto a una maschera sprezzante, dice: «Dunque è così, alla fine avevo ragione: sono davvero in debito». Solleva il mento provocatoria e sente le tempie martellare veloci nell'eco del cuore in corsa. «Questa pagliacciata è durata anche troppo», sibila.

Nadja ha le lacrime agli occhi e i denti che premono sulle labbra, che le tormentano. Non riesce a fiatare, si zittisce e allarga le narici, cerca aria, guarda Esteban come in fondo a un tunnel: vorrebbe avvicinarsi, abbracciarlo, gettargli le braccia al collo, ma non ne ha il coraggio.

E lui annaspa, si massaggia la gola, neppure la guarda, perché continua a osservare Lindsey e aggrotta le sopracciglia folte. «Tu sei pazza», sputa.

«Farti provare un decimo di quello che ho provato a causa vostra significa essere pazza?», replica spicciola, dopo aver mosso un passo indietro.

«Strangolare un amico è da pazzi», la incalza.

Ma lei non mostra il minimo segno di senso di colpa. «Io e te non siamo amici», mormora atona, «io non conosco pedoni».

«Ci conosciamo da quando eri alta un metro e mezzo!».

«Non ti ho mai visto in vita mia».

«Non dire cazzate, Lindsey».

Non risponde, non più, e si volta verso Nadja solo per scoprirla stravolta, con le guance umide e rigate. «Posto in essere che questa casa non viola gli standard imposti dal Governo per via del debito che ho maturato nei confronti di Nadja Ramos...», inizia e si blocca. Soppesa la sua domanda Lindsey, e poi non la trattiene, la lascia scivolare via: «Dove si trova la persona che mi ha attaccato? Levius, dico». Inspira, sente l'ennesima pugnalata tra le costole. «Vorrei parlare con lui, riflettere sulla questione del fare a pezzi una crisalide: me».

Note: Avevo intenzione di aggiornare questa mattina, ma il mio cervello ha fatto puf poco dopo il caffè, quando mia nonna ha sclerato di brutto nella sua convinzione che io e mia sorella la consideriamo di troppo. Oh, lo so bene che questo spazio dovrebbe essere dedicato alla Crisalide, ma in tempo di quarantena ogni riga è utile allo sfogo (che fa tanto "in tempo di guerra ogni buco è trincea"). Si è appena ripresa dall'attacco di panico, comunque. Morale della favola: mi è preso un colpo!

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