Capitolo 5
NY, 2020.
Chissà come e perché, ma dietro le palpebre, Lindsey vede ancora le crepe di Humpty Dumpty ed è certa di essere caduta da un muretto troppo alto, di aver fatto una qualche sciocchezza, di essere circondata da fanti che non riusciranno a metterla in sesto, perché lei è un guscio d'uovo e ha il respiro debole, le labbra tese dal dolore, le sopracciglia aggrottate e la fronte imperlata di sudore mentre mugola qualcosa che nessuno riesce bene a identificare; e più Levius la guarda, più si sente nervoso e non riesce a frenare l'avanti e indietro di fronte la finestra della sua stanza.
Sa di aver agito bene, lui, ma nonostante tutto il cuore gli scoppia in petto, perché aver fatto la cosa giusta per Nadja significa anche aver ferito sua sorella. "Dovevo farlo, sì, dovevo farlo per forza", continua a dirsi, "Poteva essere una crisalide qualunque", così si giustifica, "Sarebbe entrata con un mandato di perquisizione, avrebbe giustiziato Nadja in salotto", e ancora, "Se l'avesse arrestata, poi? Se non l'avesse uccisa? Nadja sarebbe finita in prigione e tutti l'avrebbero usata come carne da macello... Dio, non voglio nemmeno pensarci".
«Stai bucando il pavimento», borbotta Esteban spostandosi dalla parete attigua alla porta. «Se farai ancora avanti e indietro finirai con l'andare a trovare gl'inquilini del piano di sotto». Indica in basso.
Levius storce le labbra e si ferma di botto, dinanzi al riverbero della luce mattutina che filtra attraverso le finestre opache. Restringe lo sguardo, quasi lo minaccia. Con il battito in gola, dice: «Non ce la faccio a stare calmo».
«Eppure dovresti, amico mio». Esteban indica il letto a una piazza cui si trova Lindsey, poi solleva l'indice verso Nadja e aggiunge: «Lei è un'infermiera bravissima: non ti fidi?».
«È una cazzo di veterinaria», lo rimbecca «non un'infermiera».
Nadja volta di poco il capo e li fulmina rabbiosa: «Smettetela voi due, o finirò con il fare qualche stronzata!». Non aggiunge altro e torna a guardare la ferita di Lindsey, la piccola fessura tra le costole che in un primo momento l'aveva data per spacciata, con una pugnalata diretta ai polmoni. Dunque scuote la testa, muove appena le molle nere sulla fronte e preme sulla pelle bianca, sull'emorragia di destra.
«Si può sapere se vivrà?», sussurra Esteban a mezza bocca, «Vorrei prepararmi psicologicamente se dovremmo farla a pezzi».
Levius allarga le narici, perfino le palpebre, e lo gela sul posto. «Non farò a pezzi mia sorella», dice.
«È una cazzo di crisalide».
«È mia sorella», ripete alzando la voce.
«Non morirà». Nadja interviene e poi si lascia andare a un sospiro teso. Solleva il viso, guarda Levius negli occhi e, con le braccia piene di brividi, prova a tranquillizzarlo. «Non morirà, non se riuscirò a tamponare la ferita come si deve e se si riposerà qui per qualche giorno», mormora, «Devo medicarla per bene e tenerla d'occhio per un po'».
«Basta così poco a guarire un cristiano?». Esteban solleva un sopracciglio con fare incredulo. «Fate così con cani e gatti, ma con gli esseri umani non è un po' diverso?».
«Aggiungiamo un antibiotico sottocutaneo sul dorso, dietro al collo, quando sale la febbre», spiega atona mentre sbircia sotto l'asciugamano ormai rosso, «Per lei, magari, possono bastare un po' di sali minerali...».
«Solo?». Esteban ridacchia e incrocia le braccia al petto. «Sono finito in ospedale un paio di volte, infermierina bella», l'apostrofa, «e ti assicuro che non è così».
«Allora le somministrerò l'antibiotico sottocutaneo che tengo per le emergenze di Salomone».
«Non dietro al collo, spero», scherza.
«Ovviamente».
Levius si passa le mani sul viso e sbuffa frustrato. «Come ha fatto a diventare una di loro?», chiede più a se stesso che agli altri, «Perché?».
«E io che ne so», risponde Esteban automatico. Fa spallucce e storce le labbra, sospira, dice: «L'hai persa di vista anni fa, dopotutto; l'abbiamo persa. Non puoi sapere cosa sia successo nel frattempo e quanto sia cambiata: era una ragazzina, adesso è una donna».
Nadja sente le suole di Levius che riprendono a fare avanti e indietro nella stanza, il suo borbottio a denti stretti, il chiacchiericcio contrariato con Esteban e ancora i grugniti, le imprecazioni, il nervosismo che scivola e la raggiunge; così, d'un tratto, esplode: «Potete stare in silenzio per cinque minuti?».
Esteban tossicchia, si schiarisce la voce per sembrare offeso. «Prego?», la incalza. Solleva una mano e si copre gli occhi come un gentiluomo mentre avanza di un paio di passi. «Ti distraiamo, infermierina bella?».
«Molto, sì», conferma Nadja senza degnarlo di uno sguardo. «Non fate che parlare e bisticciare come due bambini, quando invece potreste aiutarmi a fermare l'emorragia!».
«Cioè, vuoi dirmi che posso guardare?», azzarda, «Perché credo che Levius mi brucerebbe gli occhi con un ferro rovente, se vedessi le tette di sua sorella».
«Cristo santo: esci!», sbotta infatti lui, dopo averlo afferrato per una spalla.
Esteban abbozza un sorriso, si lascia spintonare verso la porta, infine chiede: «Posso fare qualcosa di utile nel frattempo?».
«Prendi delle garze, sono in bagno». Nadja alza la voce e mantiene lo sguardo fisso sulle costole di Lindsey. «Anche delle bende, magari, e al più presto». Gesticola veloce, poi aggiunge: «Vedi se c'è qualcosa di serio per chiudere una ferita come questa».
Lo sguardo nocciola di Esteban si posa su quello affilato e irritato di Levius. «Allora...», gli dice, ma non aggiunge altro, perché viene preceduto fuori dalla porta con un grugnito. «Come non detto», borbotta. Lo segue in silenzio, con le mani in tasca e le palpebre appena abbassate, fin quando non lo vede trafficare con il mobile bianco accanto al lavandino.
È nervoso, Levius, e agitato, impacciato: non sa dove cercare, dove toccare, mentre butta giù i pochi flaconi di medicine che restano; ha le braccia piene di spasmi, la pelle che si accappona e il respiro corto, perché tutto potrebbe sfuggirgli tra le dita da un momento all'altro. "Cos'avrei potuto fare?", si chiede ancora. Guarda la vasca da bagno con la coda dell'occhio, spia la scia di sangue di Lindsey e sa che, se andrà male, sarà costretto a fare a pezzi la sua stessa sorella. Allora sente un conato e si sposta, rantola sulle piastrelle, raggiunge il water. Aggrappato alla tavoletta di plastica, deglutisce e si dice: "Non è così che finirà".
Esteban è al suo fianco, gli dà un colpo sulle spalle e dice: «Non fare così», lo sostiene, si fa vicino e umetta le labbra, prova a sorridere. «Nadja è in gamba, non lo vedi? Cazzo, tiene i medicinali in casa come una fottuta infermiera di contrabbando. E chi lo fa, Levius? Non è per questo che volevi proteggerla? Ha le palle quella lì, ascoltami».
«Lo so».
«E adesso hai paura?».
«Ho paura, cazzo, perché ho pugnalato mia sorella e non sapevo nemmeno che fosse ancora viva», risponde. Ha le lacrime agli occhi mentre lo dice, perciò abbassa il viso e si nasconde da Esteban, si appoggia all'anta aperta del mobile fin quando non la sente scricchiolare sui propri cardini. Storce la bocca e si scosta appena, imbarazzato, schioccando la lingua sul palato. «Le garze, le bende», sussurra senza voce, «dobbiamo portarle di là».
«Le garze e le bende, sì...», ripete Esteban in preda allo sconforto, «Adesso le prendiamo». Lo vede annuire. «Pensaci: dove sono?».
Levius si massaggia la sommità del naso, cerca di sembrare solo scosso e non sul punto di un pianto dirotto. Fa un colpo di tosse, guarda il soffitto e spera che le lacrime si ritirino da sole. Infine prende un bel respiro, si stropiccia gli occhi e borbotta: «Se non sono nell'anta, allora sono nel cassetto: il primo, il secondo, forse il terzo; non lo so, Esteban, aprili tutti».
E lui lo fa: va verso la cassettiera, manda all'aria gli asciugamani e trova addirittura un kit del pronto soccorso dietro un pettine e due dentifrici ancora inscatolati. «Andiamo?», chiede sommesso all'indirizzo di Levius. Ma, quando si volta, lo vede ancora in terra, con le gambe scosse da un fremito, e può solo decidere di non perdere tempo, "Perché il tempo è prezioso". Così deglutisce a vuoto e lo precede con un: «Intanto porto di là le cose che servono a Nadja». Avanza svelto in corridoio, raggiunge la stanza di Levius e smette di essere galante. "Mi scuserò più tardi", pensa, "ma adesso devo fare qualcosa". Inspira ed espira, poi varca la soglia e dice: «C'è un kit di pronto soccorso, Nadja: può servire?».
«È perfetto».
Quasi non riesce a credere, Esteban, di aver fatto la cosa giusta. Le si avvicina con un sorriso e subito sente il cuore più leggero, perché lei riprende il suo discorso a mezza bocca:
«Lì dentro dovrebbe esserci l'occorrente per drenare il sangue», borbotta concentrata, «l'ho preparato a lavoro per i casi d'emergenza». Solleva gli occhi e storce la bocca in una smorfia. «Aprilo, avanti!».
Esteban avvampa e annuisce in tutta fretta. "Che idiota", si dice, "stavo guardando il nulla", e mastica un: «Sì, scusa». La gola secca, la vista appena appannata, si affretta a trafficare con i ganci della scatola bianca e li fa scattare entrambi dopo un tentativo andato a vuoto e qualche insulto come: "Hai le mani di ricotta? Le dita a banana?".
Poi Levius fa il suo ingresso. Osserva Nadja, che è impegnata sul suo primo essere umano, ed Esteban, che sembra essere l'infermiere in carica, quello che passa garze e attrezzi al limite del pulito: "Un po' goffo, troppo vicino a Lindsey, ma comunque interessato a salvare la vita", si dice; perciò trattiene il fiato e non interviene, non si lamenta, resta in disparte accanto alla finestra per quasi un'ora, mentre le coperte si riempiono di batuffoli rossi.
«Ora lasciamola riposare», mormora Nadja d'un tratto, riscuotendolo con voce tremula.
Lui annuisce per riflesso, dice: «Sì», infine si concentra su di lei e la vede scostarsi dal letto, dare un colpo al filo che pende dalla flebo di sali minerali che ha improvvisato con un po' di scotch sul muro. Batte le palpebre, mentre Nadja si piega per raccattare le garze sporche, quando le vede muove il naso per trattenere un pianto liberatorio, e allora si dice: "Sembra un piccolo coniglio color biscotto". Sorride senza volerlo, avanza di un passo, chiede: «Si riprenderà?».
«Deve riprendersi per forza, no? Altrimenti tutto questo non sarà servito a niente e io avrò una persona sulla coscienza».
«Non intendevo...», inizia e subito si ferma, Levius, perché fulminato dagli occhi bruni di Nadja e dalla voce che, stridula e nervosa, si assottiglia in un:
«Cosa?».
«Non intendevo dubitare di te, né gettarti addosso la responsabilità del mio gesto o di quello che potrebbe accadere», mormora, «Il fatto è che sono preoccupato per Lindsey». Abbassa il capo e non ha più il coraggio di guardarla. Si stringe nelle spalle, mentre Esteban raccoglie le ultime garze e preferisce filare via in silenzio. «Non vedo mia sorella da anni, Nadja: pensavo che fosse morta in un fottuto attentato, un blitz e che so io...».
Lei non risponde subito: l'osserva in silenzio e piega le labbra all'ingiù, in quella che tutti potrebbero definire un'espressione delusa. Poi, però, si lascia andare a uno schiocco secco e chiede: «Perché hai creduto una cosa simile?». Scuote la testa, le molle nere, infine si scioglie i capelli e se li sistema in uno chignon basso pieno di piccoli bozzi. «Avresti fatto bene a cercarla, invece che darla per spacciata».
«Credi che non lo abbia fatto?».
«Non lo so, Levius, dimmelo tu».
«L'ho fatto, e l'ha fatto anche mio fratello», dice, con la fronte corrugata. «Siamo stati mesi, anni, a dannarci l'anima; ma poi è successo: la sua faccia è apparsa in televisione».
«Lo Stato l'ha data per morta», conclude Nadja in un filo di voce.
«Un corpo a Philadelphia, dove abitavamo», sussurra Levius, «Dicevano che era stato trovato lungo il Delaware».
«E non vi siete accorti di nulla? Non siete andati a identificarlo personalmente?», insiste.
«Io da solo, perché Ralph era già ricercato come sovversivo».
"Dios mío...". Nadja solleva le sopracciglia e si passa una mano sul viso. Con l'odore di disinfettante nelle narici, sussurra: «Dunque è colpa tua. È per questo che non ti dai pace, perché sei stato tu a confondere quel corpo con quello di tua sorella».
E Levius serra i denti, annuisce a fatica, tira su con il naso. Sente le braccia tremare e si artiglia alla felpa. «In parte, sì», dice. Sente la propria voce tremare e ha quasi voglia di chiudere il discorso, di uscire dalla stanza per raggiungere Esteban e farsi un goccio di birra. Allora solleva il viso, guarda ancora il soffitto, inspira ed espira per buttare fuori l'angoscia che gli serra il centro del petto, lo stomaco. «Ma quel corpo era in condizioni pietose, Nadja», ammette, «e ricordo che la scientifica non era nemmeno riuscita a trovare le impronte digitali, che aveva dovuto fare il calco dei denti per riconoscerla».
Lei non risponde, lo guarda e basta. Si morde il labbro inferiore, poi pizzica le narici tra indice e pollice, e punta Lindsey, che è stesa sul letto incosciente. "Non oso immaginare", pensa; tuttavia non dice nulla, perché non ha il coraggio di fiatare e perché la voce pare morirle in gola.
«Ora so che era tutta una montatura, che quello non era il corpo di mia sorella e che la pelle bianca, gonfia, che cadeva a pezzi e che i pesci avevano mangiato pezzo dopo pezzo, non le apparteneva; però, sai, in quel momento mi è sembrato di morire e ho creduto di essere la peggiore persona al mondo, Nadja».
«Non lo sei».
Levius sente la voce di Nadja incrinarsi e non può fare a meno di sollevare il mento. Attraverso il velo di lacrime, riesce quasi a figurarsela: dolce, apprensiva, preoccupata quanto lui, mentre si fa vicina e gli carezza una guancia. E può sentirla sulla pelle accaldata, perciò chiude gli occhi e percepisce il suo tocco leggero, amichevole, assieme all'odore del disinfettante. «Ti voglio bene», ammette a malincuore mentre strozza il significato di quelle stesse parole.
«Anch'io ti voglio bene, Levius».
Ma è fuori dalla porta, in corridoio, che s'incrina qualcosa: un altro Humpty Dumpty che non ha la forma di un uovo e che batte in Esteban attimo dopo attimo.
Note: in questa settimana ho letto tanto, ma ho anche combattuto con un hacker terribile è cambiato nome su Facebook. Spero che continuerete a identificarmi, perché è davvero stressante. Cinque giorni di ordinaria (non troppo) follia. Un abbraccio a tutti. xoxo
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