Capitolo 4

Philly, 2014.

I mattoni rossi, la stradina ciottolata, le porte azzurre e verdi dipinte più volte: tutto quello che c'è a Elfreth's Alley fa scaldare il cuore di Lindsey e la trascina indietro nel tempo, tra le braccia di sua madre, con la filastrocca di Humpty Dumpty nelle orecchie. E lei la canticchia per non sentirsi sola mentre dondola sui gradini di una casa che non le appartiene, ma che le ricorda i libri delle sorelle Brönte.

In mano ha una matita e sulle ginocchia un quaderno a righe di quando andava a scuola due anni prima. A tratti scrive, a tratti disegna e cancella le crepe del guscio caduto dal muretto. Ci sono fiori negli angoli, parole a caso nel centro, spirali che si allungano in rovi di rose e foglie tutto intorno a poesie, appunti e nomi sentiti a South Street; dopotutto è una ragazzina orfana di genitori, con due fratelli strani che se ne vanno in giro da mattina a sera a fare Dio solo sa cosa. "I cretini", si dice spesso, "i cretini, cos'altro?", perché è troppo piccola e ancora non pensa alla resistenza: "Lo Stato è lo Stato, e pur ingiusto che sia resta intoccabile", suggerisce la vicina.

«Già, intoccabile», mormora Lindsey. Scrive questa parola, intoccabile, e la sottolinea, ci gira attorno con la mina un paio di volte, la riempie di petali color grafite. Tira il labbro in avanti e, con gli occhi bassi, sospira. «Intoccabile», ripete senza capirne bene il significato.

«Chi o cosa è intoccabile?».

Lindsey trasale. Trattiene il fiato e, sollevato il mento di scatto, si guarda attorno. Ha come l'impressione che qualcuno possa sgridarla, che la domanda provenga da un professore, un giornalista, un uomo illustre; tuttavia non vede nessuno. Guarda prima a destra, poi a sinistra, ma niente. Le palpebre tese, sente i raggi del sole che penetrano attraverso le ciglia rossicce, che scivolano fino a bruciarle gli occhi ambrati, e per un attimo si dà della sciocca, pensa di aver immaginato tutto. «Diavolo...», borbotta gonfiando le guance.

«Cosa c'è adesso?», ritenta la voce, «Perché mai una signorina così graziosa dovrebbe imprecare?». Ad accompagnare queste parole è un tocco gentile, lieve, sul dorso di Lindsey: la presa di due palmi grandi e dita ossute, tipiche di un pianista o forse uno scrittore.

«Chi sei?», chiede lei timorosa anche solo di voltarsi. Sente un respiro addosso, il suono della suola delle scarpe che scricchiola sul gradino di marmo bianco, e all'improvviso capisce che si tratta di un uomo, dell'abitante sconosciuto della casetta dalla porta azzurra; quella che ormai non è più chiusa sul suo uscio, che si è aperta da chissà quanto e ha smesso di guardarle le spalle.

Lui si sporge appena in avanti, fa capolino e le mette in ombra, coprendo la luce dall'alto. Un sorriso dipinto in faccia, la barba curata e gli occhiali d'osso, dice: «Mi chiamo Raze Sirrah». Abbandona la presa, fa scivolare le dita lungo le scapole di Lindsey e la sente rabbrividire. Poi si solleva ritto sotto il montante della porta e punta dritto dinanzi a sé, infila le mani in tasca, si mostra tutto fuorché molesto. «Ti ho visto spesso da queste parti...», dice e lascia cadere la frase aspettando che sia lei a presentarsi.

«Lindsey». Non dice altro, non aggiunge il suo cognome, perché immagina già Ralph sul piede di guerra per farle una lavata di testa. Chiude il quaderno, infila gomma e matita nella tasca del cappotto di lana, infine si alza in piedi e fa per andare via.

Ma Raze la ferma con un: «No, resta, non mi dai alcun fastidio».

Lei s'immobilizza a distanza di un passo dai paletti rossi che dividono il marciapiede dalla carreggiata e sente il petto stringersi in una morsa di disagio. Non sa se dargli ascolto oppure no. "In fondo ha una voce pacata, morbida, e sembra una persona perbene", così pensa; e le piace stare a Elfreth's Alley, le piace davvero. Ma adesso, mentre deglutisce, ha paura. Si volta verso di lui, prova a scrutarlo negli occhi azzurri, cerca una traccia d'inganno. Poi sgancia la prima scusa che le viene in mente: «Dovrei comunque rientrare, perché a casa saranno in pensiero».

«Famiglia apprensiva o numerosa?».

«Entrambe, se vogliamo». Quasi ridacchia dinanzi all'espressione comprensiva di Raze. Poi annuisce, fa un passo indietro e si muove verso sinistra. «Buona giornata, e scusami per aver bloccato le scale!».

«Torna quando vuoi», inizia sollevando una mano, «la strada è pubblica, Lindsey!»

«Lo farò...». Sorride verso di lui, stringe il gomito contro le costole e trattiene meglio il quaderno sottobraccio. «Grazie, Raze».

Lui non risponde, la osserva e basta: Lindsey prova a camminare dritta, ma ha le spalle appena curve sotto il cappotto nero e trema un po' per il freddo mentre dalla sua bocca fuoriescono nubi bianche d'inverno. «A domani», sussurra Raze. Scende i due gradini e chiude la porta azzurra.

Allo stesso tempo, Lindsey svolta l'angolo e si lancia un'occhiata dietro furtiva, con i capelli rossi che ondeggiano nel vento. Si aspetta di vedere Raze comparire dal nulla una seconda volta, ma non è così, perché lui è diretto altrove e lei è sola all'incrocio. Il cuore batte frenetico: un tamburo di pelle animale, o ancora la carrozzeria sotto le mani di un bimbo curioso. Perciò si ferma e lo appunta alla svelta: "Raze", un nome che si ripete mentre scrive in stampatello a bordo linea, che non vuole dimenticare, "Raze Sirrah". Ha le orecchie ovattate, la testa in panne e la vista offuscata, quando pensa: "Che strano". Ma non ha il tempo di aggiungere altro, né di decorare la scritta, perché terminata l'H sente un'auto schiantarsi alle sue spalle.

Il quaderno cade, si chiude da solo, e la matita le scivola dalle dita tremule, rotola lungo il marciapiede, accanto alle sneakers rosa.

Lindsey grida per lo spavento, sobbalza e si volta di scatto. Quasi non si accorge del doppio plotone di crisalidi armate con AK-12, vede solo il cofano accartocciato contro il muro e le gomme sollevate, il cartello piegato che cita "senso unico". Gli occhi le si velano di lacrime, il corpo pare gelare sul posto e trattenerla, stridere a ogni tentativo di fuga. Solo allora percepisce il caldo lungo le guance, il gelo del vento che solleva e sfoglia le pagine scribacchiate, il rumore dei passi a ritmo di guerra. Trema, barcolla contro il muro, per poco non singhiozza.

E qualcuno si affaccia dalle finestre, si nasconde dietro le tende, sbircia curioso e intimorito il blitz delle crisalidi, che iniziano a gridare minacce al tipo ancora chiuso in auto. Poi una divisa grigia punta un Kalashnikov verso il finestrino, e le gambe di Lindsey diventano di burro.

«Aiuto», rantola lei. È solo presente, non è colpevole. "Come si dice?", pensa, "Al posto sbagliato, nel momento sbagliato". Nessuno l'ha sentita, probabilmente, perché alla gente piace il sangue e l'azione, non il salvataggio e il dare e basta. "Se solo ci fosse Ralph, se solo ci fosse Levius...". E di colpo si sente afferrare per un polso. Sobbalza, grida di nuovo. La sorpresa è tanta e per un attimo pensa di potersela fare addosso. «Aiuto», sussurra, forse non lo dice nemmeno. Si volta, scatta, muove la testa per spostare un ciuffo ribelle.

Raze è lì: la guarda da dietro la montatura pesante, con le labbra tirate e il respiro corto. È serio, deciso, e pare non volerla mollare. "Io non ti abbandono", sembra dire.

Lei lo capisce, così rilassa le spalle. I muscoli si abbandonano, i polmoni si rilassano. Di colpo, l'aria fluisce via dal petto pieno e la mandibola trema, le lacrime abbondano verso il mento. «Grazie, grazie...», inizia a dire, «grazie», e non la smette più, è un fiume in piena, quando Raze se l'avvicina e la stringe.

Poi arriva il primo colpo, e anche il secondo, il terzo, il quarto. Chissà quanti scattano dalle carabine e finiscono sull'auto storta, contro la carrozzeria, mentre Lindsey singhiozza e si lascia trascinare indietro, lungo Elfreth's Alley, da Raze.

Chiede: «Dove mi porti, che facciamo?».

«Al sicuro».

«A casa tua?».

Raze annuisce e ripete: «A casa mia». La guarda appena, poi torna a fissare la strada ciottolata di Elfreth's Alley e accelera il passo. «Se resteremo al chiuso non ci succederà niente, sai bene come funziona».

E, neanche a dirlo, si accendono gli altoparlanti: «Siete pregati di restare chiusi in casa, o in un posto sicuro, fino a nuovo ordine, altrimenti non sarà garantita la vostra incolumità», scandisce una voce gentile, «Siamo spiacenti per l'inconveniente», continua morbida, meccanica, «Il servizio di sicurezza dello Stato sta lavorando per voi. Grazie».

«L'inconveniente», borbotta Raze scocciato. Tira fuori le chiavi dalla tasca del cappotto color cammello e le infila nella toppa. «Questo non è un inconveniente, è un inseguimento in piena regola».

«È successo tutto all'improvviso». Lindsey solleva appena la voce e se la sente morire in gola. Poi ritenta e dice: «Avrebbero potuto avvisare prima, avrebbero potuto far passare l'annuncio con gli altoparlanti, mentre ero ancora qui seduta». Trema, seguendo Raze nell'ingresso, infine chiede: «Perché non lo hanno fatto?».

Lui sospira, la sposta un po' verso la parete di destra e chiude il chiavistello a doppia mandata. «Non comunicano tra loro, è evidente».

Ed è difficile, per Lindsey, mantenere la calma, perché in questo momento vorrebbe solo trovarsi in camera sua, con Ralph e Levius che controllano porta e finestra per farla stare tranquilla; non che non si fidi di Raze, dopotutto l'ha appena salvata. "Ma si tratta di uno sconosciuto", pensa.

«Hai paura?».

A quella domanda, Lindsey solleva la testa e si accorge di aver tenuto lo sguardo basso sul pavimento, o forse sulle sneakers scolorite. Deglutisce a vuoto e punta Raze negli occhi, lo studia in cerca di un inganno, di una trappola; eppure lui sembra innocente come un bambino. «Ho paura, sì», gli confida sommessa. Rabbrividisce sotto il maglione rosso intrecciato e il cappotto, perfino dietro la sciarpa tartan, che cade da una spalla e scivola dal nodo, si scioglie. Allora lei solleva le spalle, tentenna e si mordicchia il labbro. D'improvviso poi, trasale, perché ripartono i colpi dalle carabine. «Ho tanta paura, Raze», balbetta, «e non ti conosco, non ci siamo mai visti, non dovrei nemmeno essere qui», e si blocca. Sente la gola secca, il senso di colpa che l'assale, eppure mormora: «Perché mi stai aiutando?».

Lui sorride sotto i baffi, si allontana di un passo e, raggiunto l'interruttore, si schiarisce la voce, illumina a giorno il corridoio. «L'essere umano ha paura di una sola cosa: l'ignoto», dice. Si volta verso Lindsey e le vede battere le palpebre con fare perplesso. Allora, divertito dalla sua reazione, Raze riprende: «L'ignoto, si, perché l'ignoto è in ogni cosa», e fa una piccola pausa, si sfila il cappotto. «Nell'ultima pagina di un libro, nello sconosciuto in strada, nel domani, in ciò che succederà con le crisalidi qui fuori... Ma anche nel dolore: giusto, Lindsey? Perché fa male il petto quando ci dicono qualcosa di brutto? E quanto durerà? Si può morire d'amore, o di solitudine? Cosa c'è dopo la morte?». Infine Raze abbandona il cappotto sull'attaccapanni di ferro e le indica il mobile vicino. «Lì c'è un tagliacarte con cui apro le bollette: puoi prenderlo se hai paura di me».

«Posso davvero?», chiede Lindsey titubante.

Raze non si ripete, mentre lei si piega verso il cassetto e cerca tra le buste aperte e quelle chiuse fin quando non trova il tagliacarte. Si sistema il colletto a righe di fronte allo specchio, poi sorride, annuisce e ricomincia a parlare: «I primi uomini della Storia guardavano il cielo e avevano paura del buio, della pioggia; temevano i tuoni, i fulmini, cercavano riparo nelle caverne. Poco dopo: il fuoco... nato per caso, probabilmente, e proprio a causa di un fulmine». Dunque si volta, la vede a un passo di distanza, con tutte le nocche sbiancate e gli occhi che si fanno sempre più grandi. "Ha paura, sì, ma è anche affascinata", così si dice, "chissà se va ancora a scuola o se ha smesso, chissà quanti anni ha". E prima che possa dire altro, Raze sente la voce di Lindsey che azzarda una domanda:

«Hanno imparato a fare la brace grazie a un fulmine?».

Trattiene un suono divertito. «Più o meno, ma per abbandonare la carne cruda, il cibo grasso che li ha accompagnati tra una gotta e l'altra, l'evoluzione deve aver impiegato anni».

Lindsey si porta una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Cosa c'entra questo con l'ignoto?».

«Era solo un esempio».

«Un esempio che conoscevo anch'io», sbuffa, con il mento alto e gli occhi ridotti a due fessure. «Ci sono andata a scuola, cosa credi?».

«Ah sì, e oggi?».

«Oggi no».

«La salti spesso?».

«Che importa?». Lindsey fa vibrare la voce in un lamento, reclina perfino la testa e osserva il soffitto, mentre Raze avanza verso il salone illuminato dal mattino e la incalza con un:

«Importa».

"Ma chi è questo: mio padre, forse? Nemmeno Ralph e Levius rompono tanto le palle". Gonfia le guance in un moto d'irritazione e, quando torna con gli occhi su di lui, decide di farsi avanti. Sbuffa, abbassa il tagliacarte lungo un fianco e scandisce: «No, non importa». Cammina piano, lenta, un piede alla volta, con le frange della sciarpa che carezzano il pavimento. "Paura dell'ignoto", pensa; e per un attimo crede che l'ignoto sia la casa di Raze Sirrah: un signore troppo intelligente che vive a Elfreth's Alley. «Non mi sgrida nessuno se faccio delle assenze».

«Questo non va affatto bene», mormora lui, che non è più in piedi, ma su una sedia e con il mento posato su il pugno chiuso. Ha gli occhi attenti, fissi su Lindsey, e la montatura pesante che cala appena lungo il naso, quando incalza con un: «Ci sono regole troppo flessibili in casa tua».

"È concentrato, confuso, forse addirittura pensieroso", così crede Lindsey e così continua a dirsi man mano che si avvicina al divano, man mano che osserva il tamburellare dei polpastrelli di Raze sul tavolo. «Vorresti che qualcuno mi sgridasse? Non ti facevo così perfido». Ridacchia e prende posto lì, in bilico sul bracciolo.

«Il fatto è che la tua educazione dovrebbe interessare tutti».

Lindsey batte le palpebre e, come fulminata, lascia che le parole di Raze le rimbombino nella testa. Le basta un'occhiata per capire che quello sul bracciolo di pelle non è il posto che dovrebbe prendere un ospite, o comunque una persona normale; allora deglutisce, abbassa il capo e, con un sorriso tirato, si sposta sui cuscini ricamati di destra, quelli che si addossano allo schienale. «Perché dici così? T'interessa la mia educazione?», chiede sottovoce, un po' tesa e un po' a disagio per aver fatto la ragazzina a casa d'altri.

«Non personalmente».

Le sue ginocchia scattano appena verso l'alto, l'una contro l'altra, e le sneakers rosa strusciano sul tappeto, mentre Lindsey si solleva con le spalle in avanti. «In che senso?», chiede, «Non riesco a capire».

«Cerchiamo dei giovani che sappiano superare la paura dell'ignoto».

*

Humpty Dumpty sedeva sul muro

Humpty Dumpty cascò sul duro,

Tutti i fanti che accorsero tosto

Non seppero alzarlo e rimetterlo a posto.

Note: sapere che la mia storia sta piacendo è troppo, troppo emozionante per me. Non smetterò mai di avere gli occhi a cuore per questo e credo che ringrazierò a vita @sandylm9 per il supporto che mi dà capitolo dopo capitolo.

Per citare le parole di qualcuno, vedrò di scrivere molto in questa vacanza forzata!

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