Capitolo 3
NY, 2020.
"Quando sei di New York e vuoi liberarti di un corpo senza che lo Stato venga a saperlo, non c'è miglior modo che farlo a pezzi", così ha detto Ralph Colletta, il Macellaio, prima di essere freddato da una crisalide nel pieno di una retata notturna; e Levius lo ricorda perfino ora, a distanza di cinque anni, perché non potrebbe mai dimenticare la voce di suo fratello. Guarda Salomone, lo vede annusare curioso il casco integrale che il cadavere ha ancora in testa, e poi torna sulla divisa grigia, quella che per tutti i newyorkesi simboleggia l'oppressione.
La voce di Esteban si fa vicina: «Che diavolo hai fatto?», gorgheggia ovattata e a gomitate irrompe nelle orecchie di Levius. «Che diavolo hai fatto, eh? Si può sapere cosa ti è saltato in mente? Siamo nella merda. È mattina, cazzo. Siamo a casa tua, cazzo. Quella crisalide è stata mandata qui per un motivo, cazzo...». Esteban afferra Levius per un braccio lo scrolla, lo strattona, cerca di riscuoterlo dal torpore in cui sembra essere caduto all'improvviso. Mostra i denti, arriccia il naso furioso, mentre il sangue della crisalide si allarga in una chiazza rossa nell'ingresso.
Poi, dal fondo del corridoio, spunta ancora la testa riccioluta di Nadja. Sta tremando e a stento riesce a mormorare un: «Cosa facciamo?». Ha visto tutto, perfino quando Levius ha invitato la crisalide a entrare e gli è saltato alle spalle con un coltello a serramanico, quando Salomone è stato tenuto per il collare da Esteban e quando ancora la lama ha gracchiato tra le costole per raggiungere il polmone e perforarlo.
«La facciamo a pezzi», mormora Levius. È atono, con lo sguardo perso sulla crisalide. «Dobbiamo per forza farla a pezzi».
Nadja sgrana gli occhi e sente le gambe cedere come rami secchi dinanzi alla brace. Barcolla, cade in terra. Il coccige sul pavimento, la colonna vertebrale contro il legno del montante. Apre e chiude la bocca, sembra un pesce fuor d'acqua. «No», dice scuotendo la testa, «non possiamo fare una cosa simile, Levius». Lo punta da lontano e quasi prova l'impulso di alzarsi per schiaffeggiarlo; tuttavia non riesce a muoversi, è ancorata a terra, è parte delle mattonelle scure. «È disumano!».
«I consigli del Macellaio», borbotta Esteban mentre un suono ironico gli scivola di bocca. «Quindi conti su di me, eh?».
«Posso farcela da solo», lo contraddice, «non ho bisogno del tuo aiuto».
«E dovrei lasciarti da solo, mentre fai una stronzata del genere?». Abbandona la presa sul braccio di Levius e si porta indietro le ciocche nere sfuggite all'acconciatura. «Non voglio farti fare la fine di Ralph».
Le labbra di Levius si piegano in un sorriso abbozzato. «Grazie».
«Dovere», minimizza.
Allora Nadja riesce a muoversi: gattona in avanti, quasi scivola lungo il corridoio, infine si alza e, con il fiato corto, li raggiunge. «Abbiamo un maledetto cadavere in casa e voi volete farlo a pezzi?». Li fissa entrambi arrabbiata, poi si sofferma sulla crisalide stesa in terra. Dopo qualche istante di assoluto silenzio, le salgono le lacrime agli occhi ed esplode: «¡Ay, Dios mío! Dime que esto no es cierto, Esteban».
Levius sbuffa. «Odio quando non parli la mia lingua».
«Dio mio! Dimmi che non è vero, Esteban», traduce l'interpellato in un sospiro. «E no, non posso farlo: non stiamo scherzando, Nadja».
«Chi cazzo è il Macellaio?», continua lei. È sulla difensiva e si muove svelta, passa attraverso la porta della cucina, raggiunge il cassetto con le posate per cercare un coltello decente con cui potersi difendere da un attacco a sorpresa. "Sono pericolosi, sono davvero pericolosi", così continua a dirsi, "come ho fatto a non accorgermene?". Solleva una lama ben messa, una di quelle che ha fatto arrotare di recente per tagliare il pane: zigrinata, lunga, affilata quanto basta. "Non si avvicineranno", pensa proteggendosi dietro l'isola.
«Era mio fratello». Levius solleva le braccia e lascia cadere il coltello a serramanico in terra. È disarmato mentre si volta verso Nadja, e vuole sembrare quanto più sincero e rassicurante possibile, quando dice: «Mi dispiace di non averti mai parlato di lui»; eppure ha le mani sporche di sangue.
«Ti dispiace», echeggia lei, «e perché ti dispiace?». Batte le palpebre un paio di volte, poi riprende: «Tuo fratello faceva a pezzi le persone, non è certo un classico argomento da bar...».
«Il fratello di Levius era uno di noi», interviene Esteban.
Interrotta di soppiatto, Nadja aggrotta le sopracciglia. «Cosa intendi dire con "uno di noi"?». Ritira il capo e arriccia le labbra in una smorfia. «Non l'ho mai visto, mai conosciuto, e sono certa di non aver mai fatto colazione con un tagliagole... almeno fino a oggi». Vede Esteban muovere un paio di passi verso l'isola e allora scatta, batte la lama contro la colonna, fa cadere dei calcinacci. «Fermo, o ti taglio l'uccello!», scandisce.
Esteban gela sul posto. Chissà come ci crede e sgrana gli occhi. Deglutisce appena e a fatica, con un nodo in gola. «Ahora no digas esas cosas, Nadja...».
Allora Levius vuota il sacco: «La crisalide era qui per un controllo».
«E con questo?», lo incalza lei.
«Se non l'avessi fermata, a quest'ora potresti essere tu quel cadavere in terra».
Nadja deglutisce e distoglie lo sguardo. Sente le zampe di Salomone che battono sul pavimento e si avvicinano lente verso l'angolo cottura. Poi, di colpo chiede: «Quanto tempo è che fai certe cose, Levius?».
"Sembra triste", così si dice. La osserva e non sa cosa rispondere mentre le si avvicina. Ha quasi paura che possa scoppiare in un pianto disperato, piuttosto che accoltellarlo. «Da una vita, credo», inizia sommesso, «da quando questo casino è iniziato, Nadja».
«Quando hai messo piede qui dentro eri già un assassino?».
«E tu eri già una ladra?». La domanda gli sale alle labbra senza che lui possa controllarla, perciò non si sorprende dello schiaffo che riceve. Tace, mentre la guancia va a fuoco e le dita di Nadja restano ferme a mezz'aria. Bruciato dallo sguardo bruno, respira piano e sente il cuore battere come impazzito. «Non volevo», sussurra, «So che è normale, di questi tempi, cercare di sopravvivere».
«Dici davvero?», lo provoca con una punta d'ironia.
Esteban ricorda il loro attentato alla sede della Terza Giurisdizione, la furia di Levius con il giubbotto antiproiettile e il fucile in mano, perfino il suo "Voglio pareggiare i conti, vendicare la morte di un innocente". «Lo sa molto bene», dice, annuisce, quasi ridacchia in un moto isterico. Ha ancora le mani alzate e mostra un ghigno sardonico, quando insinua: «Vuoi ancora tagliarmi l'uccello, Nadja?».
Lei grugnisce, gli lancia un'occhiataccia e poi sbatte il coltello del pane sull'isola. «Non potete tagliare a pezzi una persona», sibila, «non in questa casa: ve lo proibisco».
«Se dobbiamo tagliarla a pezzi è proprio perché non possiamo portarla fuori», obietta Levius stringendole la mano. «Daranno la crisalide per scomparsa e ne manderanno un'altra, ma nel frattempo ci libereremo del cibo che hai acquistato illegalmente, di quello che lo Stato sostiene tu gli stia rubando...», mormora, «così saremo puliti per l'ispezione».
«Ma è una follia...», balbetta, con i polpastrelli che tremano sul piano dell'isola, «Se qualcosa andasse storto? Se capissero cos'è successo». Sente il cranio curvo di Salomone contro lo stinco, ma non riesce a calmarsi. «E i pezzi, Levius? Dove finiranno i pezzi?», quasi geme immaginandoli sparsi per la cucina, «Non è un pollo, è un essere umano».
«Tranquilla», mormora Esteban alle sue spalle.
Nadja sussulta, volta appena la testa e fa ondeggiare le molle nere. E mentre il respiro le viene meno nei polmoni, vorrebbe chiedergli: "Quando ti sei mosso?".
Esteban le carezza le spalle, poi si piega appena in avanti e mormora: «Non dovrai fare nulla, ci penseremo noi alla crisalide». Lancia un'occhiata d'intesa a Levius, che annuisce e conferma con un:
«Certo, ci penseremo noi».
Ma Nadja se li scrolla entrambi di dosso. «Non posso crederci», borbotta. Muove qualche passo e raggiunge il divano. I denti serrati, che quasi battono tra loro, e le braccia intrecciate in un abbraccio inconsolabile, solitario. "Ditemi che è un incubo", pensa, "ditemi che sto dormendo e che ancora non è mattina". Schiude le labbra, poi le chiude e le schiude di nuovo. «Quel titolo sul giornale», inizia incerta, «c'entra qualcosa con voi due, non è vero?».
Nessuno risponde, e il silenzio si confonde nel ticchettio dei secondi che l'orologio dal quadrante lilla segna sulla porta della cucina. Poi viene rotto da quello che sembra un mugolio, o un suono scomposto, debole, che fa rizzare i peli sulle braccia di Levius, che fa sgranare gli occhi a Esteban e rabbrividire Nadja. Così accade tutto rapidamente, in un vociare confuso dove solo il cane rimane in disparte:
«Dobbiamo sbrigarci: portiamola in bagno».
«Lo facciamo davvero?».
«Sì, dobbiamo farlo».
«Non sono più sicuro di volerlo fare».
«Mio fratello lo avrebbe fatto».
«Levius, corri, prendila per i piedi».
«No, io prendo la testa, tu prendi i piedi».
«E io che prendo?».
«Tu prendi la sega».
«Dios mío...».
E nessuno sa più chi ha detto cosa: sono tutti nel panico, lì in bagno, di fronte al corpo della crisalide distesa nella vasca, mentre il suo lamento si ode appena al di là del casco integrale.
«Che succede adesso?». Nadja ha la nausea e sente la colazione fare su e giù lungo lo stomaco. «È una persona viva, no? Voi avete una cazzo di sega in mano, ma non potete tagliare a pezzi una persona viva».
Esteban pensa al Macellaio e per un attimo non ne è poi così convinto. "Ralph avrebbe potuto fare di tutto", si dice, "ma solo se necessario". «La strangoliamo, o magari la anneghiamo qui, nella vasca», propone a Levius facendo spallucce.
E lui risponde con noncuranza: «Morte per strangolamento». Continua a fissare il petto che gli rantola davanti, fin quando la crisalide non muove un palmo contro la ceramica. «Voglio guardarla in faccia», aggiunge, mentre Esteban gli passa il cavo elettrico che ha tirato fuori dalla tasca di lino.
«Legittimo». Non obietta, ma con la coda dell'occhio spia la reazione di Nadja, che retrocede verso il lavandino e trattiene un conato.
Allora Levius tende i due capi del cavo e lo fa vibrare nell'aria un paio di volte. Guarda la crisalide, si china in terra e sporge nella vasca. Pensa di non avere tempo, di doverla uccidere e basta. Quasi preme sul suo collo, si lascia trasportare dall'ansia; tuttavia, a denti stretti, deglutisce l'amaro e inspira, si dice: "Aspetta, Levius, aspetta. Non vuoi vedere la sua faccia?". Abbandona un capo del cavo elettrico, allunga la mano e raggiunge il casco integrale solo per sollevare la visiera scura e scorgere delle ciglia rossicce e qualche lentiggine. Pallido, si sente come mancare.
«Levius?», lo chiama Esteban.
Eppure lui non se ne accorge. Sente un richiamo lontano, come un ronzio. Batte le palpebre tre o quattro volte, sbuffa aria calda dai polmoni, spalanca la bocca in una sorta di O. "Non può essere, non ci credo", pensa. E scatta, lascia cadere completamente il cavo nella vasca, si affanna per togliere il casco alla crisalide.
Ora il volto è libero da ogni maschera: non più alieno, nascosto, sconosciuto; e mentre Levius lo guarda si sente crollare il mondo addosso, perché quella che ha davanti non è solo una donna, ma anche sua sorella Lindsey.
Note: Le cose iniziano a farsi complicate nella nostra storia, eh? Mi piace creare degl'intrecci strani, lo so, ma più andremo avanti e più si scenderà in degli abissi inimmaginabili: parola di giovane (mica tanto) marmotta (se così vogliamo dire, ma anche alce va bene).
E di questi tempi sono a casa, comunque. Io, rispettosa della legge, che ho creato Levius e compagnia per non rispettarla affatto (inserire risata qui), che tengo alla mia salute (al contrario di... di... non lo so). Comunque mi auguro che voi lettori siate al calduccio nelle vostre cambrette, magari anche sulla tazza del gabinetto (oh, mi accontento di poco), sul divano o boh, nell'armadio (why God?) mentre leggete le mie parole. Di mio, sappiate che vi penso tanto e vi mando un abbraccio: grazie di essere passati e di avermi dedicato il vostro tempo. A giovedì!
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