Capitolo 27

NY, 2020.

Ha il respiro corto e la vista offuscata, mentre il viavai delle crisalidi con in mano i walky talky e le pistole nascoste sotto le giacche dei vestiti borghesi fiancheggiano il marciapiede opposto; tuttavia si sforza per restare concentrato e non perdere d'occhio l'ingresso neppure un istante. "È da lì che uscirà", si dice Esteban, con il sangue che gli pulsa veloce nelle tempie, che lo fa sudare freddo. "Uscirà, certo, ed entrerà in questo dannatissimo taxi". Ne è sicuro, perché è quello che gli ha detto Raze "O come diavolo si chiama". Di colpo, però, lo coglie un dubbio. Trema e batte il palmo sul volante come nel bel mezzo del traffico. Le labbra tese in una linea retta, l'agitazione che gli scorre sotto pelle, inizia a immaginare e forse lo fa un po' troppo, ammonendosi con un: "Cazzate, sono cazzate", perché "Nathan Walker non si getterebbe mai giù dalla finestra". Si aggrappa al volante, posa la fronte sulle nocche, poi si tira su di scatto. "E se invece lo facesse?". Ancora il dubbio: "Io lo farei?". Con la gola asciutta, Esteban si sporge dal finestrino mezzo aperto. "No". Si affaccia in avanti, sporge e protende verso il cofano. Solleva gli occhi, il mento. "Tutto tranquillo". Sospira, rilassa le spalle. "Non ha intenzione di suicidarsi", pensa e sorride, "Nessun uomo che ama davvero lo farebbe, se la propria donna è in pericolo". L'immagine di Nadja si delinea dolce nella sua testa; ma per poco non se la taglia dal collo, quando ode il rumore della portiera. Sobbalza preso alla sprovvista e impreca con un: «Merda!». Rientra alla svelta, dà una testata al tettuccio, infine la vede e resta senza parole.

Lei è lì, sul sedile, con uno chignon basso e gonfio, nero come la pece, e una camicia aperta, che mostra la scollatura generosa grazie ai primi tre o quattro bottoni bianchi. «Ce ne hai messo di tempo», dice scocciata.

Non riesce a crederci. La guarda da capo a piedi, mentre lei siede dal lato del passeggero. Il suo nome gli scivola dentro come un insieme di pulsazioni, lettera dopo lettera, semplicemente "Nadja": troppo prezioso per essere pronunciato. Ed è quella voce squillante, un po' incline alla polemica, il suono che "Non sto immaginando"; quel viso ovale dal naso piccolo e la bocca pronta da baciare, il quadro che "Non sto immaginando"; quegli occhi profondi, terra che cullano, il vortice che "Non sto immaginando". «Tu, qui?».

Lo sportello, trascinato da Nadja, si chiude in un tonfo. «Io ho un nome». Sorride ironica ed emette un suono buffo, perché in fondo "Lui sa come mi chiamo". «Te lo ricordi, vero?», mormora provocatoria, con le ciglia ricurve, simili ad ali di rondini, che le sfiorano zigomi e ciocche ribelli. "Sì che lo sa". Si abbandona al tocco di Esteban sulla guancia: una carezza titubante, tanto desiderata, fatta di dita che tremano e nocche e dorso e pelle ruvida e sangue lavato, che scende verso il mento e poi si ferma al primo stunk che proviene dal retro.

Solo adesso Esteban si riscuote e realizza di avere un secondo ospite sul taxi. "È Nathan Walker?", si chiede: non ne è sicuro e lo riconosce a malapena, quando lancia un'occhiata allo specchietto retrovisore, perché quello che vede è un uomo teso come un ciocco di legno, totalmente rasato in volto e senza grosse basette, perfino privo di sopracciglia. "Decisamente diverso da come appare in televisione". «È lui?», quasi balbetta crucciato in direzione di Nadja.

Lei annuisce e, fiera del risultato ottenuto con la sua opera di camuffamento, incrocia le braccia al petto. «Dubiti di me, carino?», affina la voce, scherza, «Credi forse che mi sia divertita per tutto questo tempo?». Lo puntella con un indice sulla spalla e ridacchia. «Sono utile quanto te, lo sai?».

Esteban cerca di sorridere, ma contrae i muscoli in una smorfia strana, di disapprovazione. "Perché diavolo ha deciso di mettersi in pericolo?": se lo chiede con i brividi addosso e vorrebbe urlarglielo in faccia per avere una risposta, per poterle dire "Sono morto di paura"; tuttavia sa di essere diverso da tutti quegli uomini-padroni che Nadja ha incontrato nella sua infanzia.

«Devi dirmi qualcosa?».

Al suono di quelle parole, lui ingoia tutto e inspira a fondo. "È una donna libera...", pensa, "... e ha accettato di andare via di casa per continuare a esserlo". La guarda negli occhi, sorride davvero, mastica un: «Sei stata molto utile». Cerca la calma, le cosce vacillano e paiono come attraversate da una scarica elettrica. «In realtà non avevo idea di dove fossi», ammette sotto il suo sguardo indagatore, «ero preoccupato per te». La gamba destra si lascia andare a un tic nervoso. «Speravo solo che stessi bene». E deglutisce, non aggiunge altro, pensa: "Forse la amo così tanto, perché Nadja è semplicemente Nadja". Si schiarisce la voce, avvampa. "La amo...", si ripete. Afferra il volante con entrambe le mani e scrolla le spalle per sciogliere i muscoli, per distrarsi. «Pronti per il gran finale?».

Nadja annuisce, ma Nathan serra le mani in due pugni chiusi sulle ginocchia, facendo frusciare la stoffa acetata della tuta. Vorrebbe dire: "No", perché "Chi si sentirebbe pronto a incontrare il proprio ricattatore?"; ma non lo fa per evitare di aggravare la sua posizione, o quella di Isabel. Spera ancora di poter sistemare le cose "Chissà come, magari parlando", oppure facendo ragionare suo fratello, perché "Ezra era un ragazzo perbene". Perciò, con questo pensiero nella testa e lo sguardo fisso sulle scarpe da ginnastica usurate, Nathan continua a pensare e pensare.

Il nome "Raze" rimbomba nell'abitacolo, rimbalza contro i vetri di nuovo chiusi e sul tettuccio grigio, impolverato, perfino nelle orecchie dei presenti. Per ognuno ha un significato diverso: "Raze è il tipo che, arrivato dal nulla, ha creduto in me: una donna, per la prima volta, in una società patriarcale", "Raze non esiste e pare si chiami Ezra: è un fottuto impostore, che ha giocato con la vita di tutti quanti noi", "A Ezra sono sempre piaciuti i giochi di parole".

E d'un tratto il taxi si ferma a Brooklyn. Il tempo sembra non essere trascorso affatto per Nathan, perché lui è ancora là, a Philadelphia, diciannovenne e con la pistola in mano, in quel salotto che puzza di ferro, di sangue. Ha lo stomaco sottosopra, le viscere attorcigliate e la pelle d'oca, mentre la voce di Nadja, squillante, lo trascina nel presente con un:

«Possiamo scendere».

Allora lui annuisce piano. Batte le palpebre e cancella le immagini che ha di fronte a sé, inspirando la polvere dei sedili del taxi guidato da Esteban. "Che cosa mi aspettavo?", pensa. Una domanda che gli batte dentro, che martella l'anima e le tempie. "Pietà, forse, o gentilezza?". Solleva cinico un angolo delle labbra. "Che cosa pretendevo?". Deglutisce un groppo di saliva e quasi si strozza, perché questa fatica ad attraversargli la gola stretta dall'ansia. Si colpisce il petto con un pugno chiuso, tossicchia, infine annaspa e, libero, vivo, con gli occhi lucidi, torna a respirare.

Esteban sbuffa. Lo guarda dallo specchietto retrovisore e a gran voce lo sprona con un: «Ancora qui?». Schiocca la lingua sul palato, gli fa un cenno con il capo verso lo sportello laterale, dice: «Scendi, su».

Nathan annuisce. «Certo». Sente la scure della morte che gli pende sulla testa: riesce quasi a vederla brillare nel nulla, ma non si lamenta; apre lo sportello, mette piede in terra e fa stridere la suola in gomma sull'asfalto sdrucciolato, prima di scendere anche con la seconda. Prende sottobraccio Nadja, uscita dal veicolo per prima, e si schiarisce la voce, espira orgoglioso. La schiena dritta, lo sguardo marino e il volto scosso da rividi interni. «Ci sono», dichiara come in un comizio, «possiamo andare».

Per un attimo lei vacilla e si guarda indietro. "È davvero giusto così?", chiede a Esteban senza voce, "Che cosa stiamo facendo?".

Lui non risponde; e come potrebbe? Le legge in faccia un cruccio, perché è un libro aperto. Riconosce il movimento delle labbra serrate e quello delle sopracciglia tese, perfino dei denti che sembrano volerla zittire. Ma pensa: "È troppo tardi, infermierina bella". Afferra il volante con entrambe le mani, butta via aria calda dai polmoni. "Troppo tardi, amore mio...". Sorride. "Amore mio, eh?". Sente i passi rimbombare sulle pareti del vicolo, mentre osserva le sue spalle sullo specchietto laterale. «Te lo dirò dopo».

Ed è lungo le scale antincendio che Nadja ha pressoché la stessa sensazione di Esteban. Si ferma a mezzo metro da Nathan e lo vede avanzare, farsi lontano. «Dopo...», pensa, «... Cosa succederà dopo?». Ha paura e sgrana gli occhi, ma sa di non poter tornare indietro, così come il giorno in cui ha detto a suo padre: "Sì: preferisco andarmene, piuttosto che vivere sotto il tuo maledetto tetto, con le tue maledette regole, perché io non sono come le altre e non lo sarò mai". Il respiro mozzato, i polmoni vuoti. In un attimo si sente andare a fuoco le vene, i muscoli, le ossa. "Coraggio": una sensazione che ha già provato, che l'ha mandata avanti per anni. "Sono più forte di prima, più forte che mai". Se lo ripete, dice: «Io posso fare tutto». Si pizzica il naso, porta via una lacrima capricciosa e inspira a fondo. Dunque solleva il mento, vede Nathan sulla cima e subito schizza fin lì come una scheggia. Lo raggiunge per indicare la finestra del loft. «Devi entrare per primo», ordina, il volto contratto in quella che pensa sia una smorfia imperiosa, l'unica capace di farsi rispettare nel momento clou; eppure non c'è bisogno d'insistere: lui esegue l'ordine apatico, in silenzio, tanto che Nadja vacilla e muove un passo all'indietro, finendo con il battere i gomiti sulla ringhiera. "È rassegnato?", si chiede, "Oppure fa tutto questo per lei?". I sensi di colpa le azzannano la giugulare e non riesce neppure a fiatare.

Ma è chiaro che sia per Isabel, e se ne accorgono tutti, lo si vede non appena Nathan solleva lo sguardo su di lei: in fondo il piano di Ezra lo prevedeva sin dall'inizio.

«Benvenuto».

All'udire di quel mormorio, Nathan socchiude la bocca e rimane incredulo. "Sembra ironico", "Non è un benvenuto", "Perché mi sta facendo questo?", "Perché lo sta facendo a lei?": troppe domande e nessuna risposta. Affanna senza rendersene conto, lo sente ridacchiare e, ancora carponi in terra, balbetta un: «Lasciala andare», che pare un rantolo. Non è più così sicuro di poterlo far ragionare.

«Lasciarla andare sarebbe utile a entrambi», conferma, le labbra arricciate. Lancia un'occhiata a Nadja e sorride, la saluta con un cenno. «Cara...», dice, spostando l'attenzione su di lei, «... hai fatto un lavoro fantastico».

«Io?», chiede, con l'indice proteso verso il petto.

Ezra le si avvicina, annuisce e conferma con un: «Sì, tu». Allunga una mano verso il berretto sotto il quale si nasconde il capo di Nathan e glielo sfila di colpo. «È irriconoscibile!».

Isabel mugola, si lamenta dietro lo scotch isolante termico, singhiozza nel vedere lo stato in cui hanno ridotto l'uomo che ama; eppure non può fare altro che piangere, riempirsi il viso di mascara sciolto. "Maledetti", pensa. Ringhia, si muove sulla sedia, sente il dolore ai polsi e alle caviglie, mentre Nathan le dice di stare ferma, che così sanguinerà, che non ne vale la pena, perché lui sta bene. "Maledetti".

«Dobbiamo parlare, Nate». Ezra gli tende la mano, lo coglie alla sprovvista.

«Di cosa?», balbetta incerto, «Non c'era bisogno che facessi tutto questo per parlare con me...», e nell'accettare la sua presa, si pente.

Lo blocca, frena il suo discorso: «Puoi evitare ogni manipolazione, Nate», gli sibila a un palmo dal naso. «Hai fatto finire la mamma in carcere per omicidio e occultamento di cadavere, due cose che, a ogni modo, sono tua responsabilità...».

«Non era mia intenzione».

«Vero, hai detto anche questo», conferma in un ghigno amaro, «Ma hai detto che avresti pensato tu a tirarla fuori».

Nathan sente il respiro di Ezra sul viso, e la pressione della fronte contro la fronte. Impallidisce. "Sì, l'ho detto", pensa, "ma ho mentito": vorrebbe dirlo, vorrebbe liberarsi da quel peso, vorrebbe sperare di poter essere perdonato; ma negli occhi di suo fratello legge solo la furia della vendetta. «Ho sbagliato», rantola.

«Hai sbagliato cosa, esattamente?», sussurra.

«Non è il mio compito indicare chi o meno può entrare e uscire di prigione, Ezra...».

Lo afferra per le spalle, lo sente rabbrividire come un ragazzino rincasato troppo tardi la sera; e per la prima volta capisce di essere superiore a lui: quello che ha creduto di aver salvato una famiglia spargendo sangue e cervella sui cuscini del divano, quello che ha messo nella merda un Paese intero. «Ma è tuo compito decidere chi ammazzare in strada, vero?». Lo sprona verso la poltrona, respira a pieni polmoni e, con le narici larghe, pensa: "Vorrei farlo adesso". Reprime un suono divertito, sa che "Non è il momento" nonostante sul volto di Nathan si legga il terrore della morte, il brivido del trapasso, che ha voce e grida: "Non davanti a Isabel". «Perché non ti penti di tutto, Nate?».

«Di tutto?».

Ezra annuisce. «Sì, di tutto», lo incalza, «Tutte le cattiverie, tutti gli sbagli, tutto...».

«E poi?». Il cuore gli si stringe in gola, perché è lì che è finito nel momento della proposta, perché non sa se Ezra è rimasto lo stesso e se vuole davvero delle scuse. Prova a deglutire e non ci riesce. «Mi ucciderai?», chiede. "Non davanti a Isabel": è tutto ciò che desidera mentre è lì, privo d'identità e dignità.

«Dipende dalle tue scuse, Nate», mormora, «Tu sai essere sincero quanto me?».

Annuisce, trema, le spalle addossate allo schienale della poltrona. Vede Ezra, quello che una volta era il suo fratellino da proteggere, dall'altro lato del treppiedi. Al primo tocco sullo smartphone, vacilla. "Cosa devo dire?". Ha la testa vuota. "Di cosa devo scusarmi?". Ha la lingua immobile. "Cosa ho fatto di male?". Ricorda Matt Harris nella casa di Philadelphia, le minacce, lo sparo e il sangue. "Perché è così strano?". In un brivido segue il suono della plastica, la terra, Fairmount Park. E poi sono le ruote sull'asfalto, il college, le luci rosse e blu, le conferenze e leggi. «Io sono Nathan Walker e sono un assassino...»

Note: Tipo che l'altro giorno avrei dovuto aggiornare, ma Wattpad ha buffato malissimo, perciò siamo rimasti in bilico tra santi e falsi dei. Così ho deciso di pubblicare il finale assieme all'epilogo. Spero che la scelta sia apprezzata dai lettori.

NB. Immagine "Tears of crybaby" by Yann Cerri ( https://www.flickr.com/photos/93922058@N00 ) is licensed under CC ( per qualunque uso, anche commerciale: https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/?ref=ccsearch&atype=rich ) LINK ACCESSIBILI NEL COMMENTO

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