Capitolo 26
NY, 2016.
"Shakespeare scrisse 'Cosa c'è in un nome?', ma io non saprei rispondere a questa domanda...", pensa Lindsey, seduta in una stanza buia, "... forse delle lettere. Sì, dicerto delle lettere, perché 'Se noi chiamassimo una rosa con un'altra parola non avrebbe lo stesso odore soave?', cara B?". Ha le palpebre mobili sollevate, tenute ferme da due archi metallici, che sono alla base di lunghi steli simili a zampe di ragno; la testa fissa allo schienale alto con un legaccio di cuoio, così come le braccia, i polsi e le caviglie: immobile e torturata da strane immagini proiettate sul muro bianco, ha smesso di chiedersi che fine hanno fatto Greta e Uriah. "Cosa c'è in un nome?": ed è la voce di Raze a mormorarglielo nella testa, una delle poche che non vuole andarsene; come quella di sua madre, che canticchia la filastrocca di Humpty Dumpty.
«Sei sola per un motivo», dice Gregory alle sue spalle, «non ti abbiamo cercata perché saresti stata soltanto un peso...».
Lindsey non risponde. Deglutisce un groppo di saliva, con le narici larghe e le guance rigate dalle lacrime. Osserva i corpi martoriati, dilaniati, che le si affollano dinanzi, e con le orecchie piene delle parole di Levius, si sente svuotata di tutto l'amore accumulato negli anni. Non incita Gregory a proseguire, perché è certa che lo farà lo stesso. "Lo fa sempre".
«Badare a te è stato un vero inferno e avrei voluto che fossi morta al posto dei nostri genitori».
Humpty Dumpty sedeva sul muro
Humpty Dumpty cascò sul duro,
Tutti i fanti che accorsero tosto
Non seppero rimetterlo a posto.
Boston, 2016.
La difficoltà di tornare sui propri passi sta proprio nel guardarsi indietro e scoprire di avere i piedi più grandi delle orme lasciate, di dover dire "Sono cresciuto, mamma" sapendo che farà male; ecco perché Esteban tentenna con l'indice sollevato dinanzi al citofono della piccola palazzina con la facciata bianca: il braccio che trema e i brividi sulle guance, il volto scavato e freddo. Ha i capelli un po' lunghi, spettinati, perché anche loro, come lui, sono cresciuti; eppure non se ne preoccupa: sorride e sa che lei, la donna del "È tutto finito", li accorcerà con qualche colpo di forbice prima di vederlo andar via in serata. "Coraggio", si dice. Prende un bel respiro e, per distrarsi, solleva lo sguardo verso il balconcino di ferro, quello dove si rintanava da piccolo con le gambe penzoloni e le mani sulle orecchie. Poi preme e quasi non se ne accorge. "È fatta", pensa, "ho suonato". Ritira l'indice e annuisce convinto. Torna a fissare la porta bruna, si schiarisce la gola e abbozza un sorriso teso, che subito prova a rilassare assieme alle spalle sbuffando via aria calda dai polmoni.
«Chi è?». Una domanda che non attende risposta, come al solito.
L'espressione sul viso di Esteban muta subito. "Non mi aspettavo che ci fosse anche lui". Ingoia il rospo e infila le mani in tasca, allarga le narici e sputa fuori la furia come un drago. La voce di sua madre, quel mantra che fa "È tutto finito", gli risuona in testa e poi nel petto, dove il cuore accelera. «Posso entrare?», chiede guardando suo padre.
Sorpreso di vederlo, lui batte le palpebre e si scosta, dice: «Prego, accomodati».
Il cigolio della porta accompagna Esteban nell'ingresso. «Dov'è mamma?», chiede senza mezzi termini, con il sangue sempre più rapido nelle vene.
«È morta», risponde asciutto.
"Che cosa significa?". Non riesce a pronunciare una sola parola, perché la voce gli si mozza in gola e lo stomaco prende a ribollire, mentre suo padre avanza in corridoio, lo supera e raggiunge il salone. "Che cosa significa 'È morta'?". Spalanca gli occhi, lo fulmina e, da lontano, lo studia. Vorrebbe dire: "Mi prendi in giro, bastardo?", "Torna subito qui e chiama la mamma", "Dove l'hai nascosta?", "Perché non è in casa?", "L'hai cacciata?", "Sicuramente è a fare la spesa". Allora inizia a correre ovunque, diventa una trottola impazzita e ciò che trova è una casa in stato di abbandona, con i ragni agli angoli delle pareti e una blatta in cucina. Serra i denti, fila svelto in salone e poi lo vede: lì, che spicca sul calzino bianco, nero e grosso, il braccialetto degli arresti domiciliari. «Sei stato tu», sussurra, forse nemmeno lo dice e di certo non glielo chiede: è evidente che sia stato lui, è sempre stato lui e ora "È tutto finito".
«Cosa c'è?». Si sente osservato, ma non ha intenzione d'interrompere ancora una volta la visione del match Championship, perciò alza il volume nella convinzione che Esteban uscirà così com'è entrato: in silenzio.
Ma si sbaglia, perché in uno scatto lo raggiunge, gli afferra la testa e la sbatte contro il tavolo. Ode il suo primo lamento, una sorta di "Che cazzo fai?", "Oddio", o ancora "Ti prego"; eppure non si ferma: lo sbatte in terra, lontano dalla poltrona, e gli sale addosso. Le ginocchia in strette alla cassa toracica per non farlo respirare, una mano a tenerlo fermo, il pugno alto e poi i colpi che si alternano; destro e sinistro, sinistro e ancora destro. Mostra i denti come un animale rabbioso e lo massacra letteralmente, lo rende poltiglia.
Perché è tutto finito, Esteban.
Philly, 2016.
"Se solo sapessi": è un pensiero fisso, quasi fisico e tangibile, che prende forma dinanzi allo sconosciuto con il sacco nero dell'immondizia nella mano destra. "Se solo sapessi". L'osserva dall'altro lato della strada e, muto, dondola sui piedi; tacco, punta, punta e tacco, ancora tacco e poi punta. Gli occhi gelidi, immobili, e le palpebre sollevate, mentre il tale alza il coperchio di metallo, getta l'umido e poi retrocede a passo lungo. Allora Ezra sbuffa, con la pipa stretta tra i denti e una nuvola di fumo che sale al cielo. "Viziato", si dice, "nervoso", si apostrofa ancora, "isterico". Mordicchia la pipa e aspira, espira, osserva le finestre da lontano. "Quella era casa mia...", pensa, "... mia e di mia madre", e allontana la mano, lo stelo d'osso. Umetta le labbra che sanno di tabacco bruciato, infine chiude gli occhi. Ha ancora le urla di quel giorno nella testa: "Che cos'hai fatto?", "Sta' zitto", "Perché?", "Chiudi il becco", "E adesso?", "Ti ho detto di stare zitto", "Dobbiamo chiamare l'ambulanza!". Lo ricorda bene, così come ricorda l'odore del sangue di Matt e sente in bocca il suo tirando una pellicina. Aspira di nuovo Ezra, il tabacco brucia nella pipa, il fumo sale e una donna chiude le tende al piano terra "In quella stanza che ho pulito fino a spaccarmi le dita, perché 'Così si fa, non hai mai visto un film, Ezra?', no?", cita tra sé e sé. Vorrebbe averne visti di più. "Me ne sarebbero bastati un paio, forse, e lo avrei capito subito". O magari no. "Che idiozia". Il cuore incalza, e lui storce le labbra in una smorfia poco convinta. Con la pipa tra i denti, Ezra si allontana lungo il marciapiede e abbandona la facciata della sua vecchia casa per seguire la svolta fatta con l'auto di Nathan nel 1998, mentre Matt era morto e incassato nel portabagagli. "Voleva studiare, salire al potere", pensa ancora, "quel Nate era una persona che piaceva a tutti, anche se aveva premuto il grilletto contro mio padre e mi aveva fatto scavare la sua fossa in un parco". Si sistema gli occhiali sulla sommità del naso, con quel mattino fermo nella mente e il suono degli uccelli che lo accompagnano fino all'angolo. Lì si ferma, corruga appena la fronte e gela senza andare oltre. "Avrebbe liberato la mamma, così ha detto". Tira fuori dalla tasca un articolo di giornale e, come un tronco, s'irrigidisce. Una macchina gli sfreccia accanto, gli muove la giacca, i capelli, eppure non si sposta di un millimetro. "Avrebbe liberato la mamma, così ha detto...". Deglutisce a fatica, gli occhi appena velati di lacrime. "... perché lei non ha ucciso nessuno".
Arrestata la moglie di Matt Harris,
l'uomo ritrovato sepolto nel 1999
a Fairmount Park di Philadelphia.
NY, 2016.
Non è facile sentirsi a casa, perché chi la casa l'ha dovuta lasciare tende a rifuggire lì con la mente ai momenti felici e a cercare il profumo del collo della mamma in qualsiasi abbraccio, i riccioli della sorellina sulla nuca di tutti, la palla con cui ha giocato per anni ai piedi dei bambini del parco; eppure sa che niente di tutto quello è reale. "Ovviamente". E fa male: una sensazione inspiegabile, una morsa che molti chiamano "crepacuore" e indicano come causa della morte delle donne anziane, quando i figli partono per la guerra o danno loro un forte dispiacere. Ma Nadja lo conosce il "crepacuore". Insidioso, forte come un pugno, lo sente ogni qualvolta si guarda attorno e vede una famiglia felice, una luce accesa dietro la finestra di una palazzina bassa, perché "Tutto l'affetto che resta è quello di Salomone": un cagnolone bianco che è riuscita a salvare da una busta di plastica quando ancora era un cucciolo.
«Benvenuta, si accomodi».
Non è davvero facile sentirsi a casa, perché chi la casa l'ha persa un tassello alla volta tende a rifuggire lì con la mente e a proteggere i baci della buonanotte sulle fronti di tutti i bambini, il cuore di un fratello e il sorriso di una sorella; tuttavia è difficile rendersi conto di essere eroi, con le mani lorde di sangue, di avere un amico come fratello e di sperare nella gioia di chiunque, perché è "Tutto ciò che resta di un passato fatto a pezzi".
«Lei è Levius Coletta?».
Annuisce fuori dalla palazzina, con le mani in tasca, lanciando un'occhiata al tale in giacca e cravatta. «Sì», conferma subito dopo, spostando gli occhi sulla donna con il Bull Terrier a un paio di metri di distanza. «E lei sarebbe?».
«Najda, solo Nadja», risponde asciutta, scrollando la testa e le molle nere, prima che possa presentarla quello dell'agenzia immobiliare, «Credo che ci contenderemo l'appartamento».
Non è facile sentirsi a casa,
ma chissà come
è possibile riuscire a farlo.
Note: Non vedevo l'ora di pubblicare questo capitolo. Ci sono alcuni estratti che ritengo "i miei preferiti" è questo è uno di quelli. Chissà come lo avete vissuto...
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