Capitolo 23

NY, 2020.

I segreti possono essere semplici, nati a fin di bene e solo per preservare i rapporti, ma anche più turpi, che non fanno dormire la notte, perché abbandonano in un tormento chiamato "senso di colpa": in ogni caso pesano sulle spalle di qualcuno e non lo fanno respirare. Uccidere una persona e nasconderne il corpo, per esempio, è uno di quelli che va portato fin dentro la tomba, uno di quelli che potrebbe rovinare la reputazione e la vita di chiunque. Per qualcosa del genere si è disposti a uccidere ancora e ancora; e se nel primo caso, magari, si è trattato di un errore, nel secondo e nel terzo sorge la consapevolezza. Ci si trasforma in mostri. "Ma chi è il vero mostro qui?": è questo che si chiede Raze, mentre Lindsey stringe la fascetta di plastica attorno ai polsi di Isabel Allen. "Chi e il vero mostro?". Lui non lo sa, non più, perché gli manca il respiro a un passo dalla fine. Con lo stomaco che gli si contorce, si chiede: "Chi è il vero mostro?". Lo sguardo di miele dell'alfiere, un ricordo che lo porta a Elfreth's Alley, e ancora: "Chi e il vero mostro?". Poi ode un suono basso che proviene dal bagno: l'abbaiare di Salomone di fronte alla domanda di Levius. Smette di pensare e deglutisce dietro alla carta di riso, al suo tocco d'oriente.

«Ma scherziamo?». È la voce di Levius che, retorica, irritata, risuona ovunque. «È assurdo». Posa una mano sullo stipite e il cane bianco gli scodinzola tra le gambe.

Raze sospira, poi fa scorrere il legno dei fusuma e torna nella parte più affollata del loft. Addosso ha la camicia pulita, ma la pelle gli profuma ancora di vin brûlé, quando si sistema gli occhiali sulla cima del naso; e mentre i passi di Levius sembrano rincorrerlo, cercarlo, battendo sui calcagni, lui ode addirittura lo zampettare di Salomone e lo stridere delle unghie sul parquet. "Forse qualcuno dovrebbe portarlo a fare una passeggiata", pensa, "mi dispiace di averlo tenuto chiuso lì tanto a lungo".

«Lei dov'è?», sbraita Levius. È furioso, con i muscoli del viso contratti e gli occhi in fiamme, perché di colpo non vuole più andare via, né mollare la presa. Allunga un braccio, agguanta Raze per il colletto e lo strattona indietro, più vicino a sé. Sul collo, nell'orecchio, gli sibila: «Niente prese per il culo, Raze». Non le accetta, non più, e continua a dirsi: "Solo per il bene di Esteban", ma poi si corregge, "Bugiardo, bugiardo", si appella. Vuole chiudere la faccenda per Nadja, e la cosa non gli va giù. "Non sono un traditore, non sono un bastardo". «Perché Sal è stato chiuso lì?», è la prima domanda, «Perché lo hai portato a Brooklyn?», è la seconda, «Si può sapere cos'hai in mente, Raze?».

«Datti una calmata, ragazzino...», lo provoca sornione, «... Magari è uscita ed è qui nei paraggi, non credi?». Si volta di profilo, lo taglia con un'occhiata azzurra.

«Cazzate», mastica Levius, «non uscirebbe mai senza Sal», e lo spinge via con un, «Perché?». I denti esposti, che stridono, nemmeno si accorge di sembrare un bambino che fa i capricci accanto ai pantaloni del padre.

Ma a Raze pare tutto fuorché quello. "Un condannato a morte", si dice, con il viso arricciato in una smorfia. "Mi chiede il perché, ma dovrei farlo io". Sa di essere innocente e tende le sopracciglia in un moto contrariato. "Perché insisti, Levius?", pensa crucciato, "La tua è una domanda subdola, una di quelle che fanno le vittime prima di essere uccise: perché?". Scuote il capo e ancora lo vede dubbioso, mentre chiede e ringhia, supplica:

«Perché?».

Dunque sospira. «Mi tratti come se l'avessi uccisa». "E questo, davvero, non l'ho fatto".

L'idea lo fa raggelare; eppure è la stessa che per istanti gli ha rimbalzato da una parte all'altra della testa. Pallido, Levius sente la pelle accapponarsi. Non risponde, incalzato da Raze:

«Credi forse che io ne abbia motivo?».

Vorrebbe dire: "Sì, penso proprio di sì", ma la verità è che sarebbe solo una risposta a caldo, un modo per scaricare la colpa su di lui e chiudere il discorso "Esteban". Dunque deglutisce a vuoto e se lo chiede: "Ne ha motivo?". Avvampa di vergogna, dopotutto la risposta è palese e no, non ce l'ha. "Perché dovrebbe?". «Allora perché l'hai rapita?», azzarda, con la voce che gli esce in un rantolo e si spegne e capitola e cozza anche nel suo petto, assieme all'idea di vedere Nadja nelle condizioni di Isabel Allen.

«Non ho rapito nessuno», nega Raze, «Anzi, ti dirò di più, provo una profonda stima per la tua amica Najda». Lo afferra per una spalla e, senza cattiveria o strette di sorta, prova a convincerlo. Pare un gesto amichevole, confortante, simile a quello di un padre o un amico, magari anche un parente che fa le condoglianze.

Levius è basito, incredulo. «Di quale stima stai parlando?». "Nadja non mi ha mai parlato di lui", si dice, con le sopracciglia arcuate e la fronte arricciata, "Non è come me, non è come Esteban e neppure come Lindsey: tenta solo di vivere senza farsi notare".

«È una persona molto intelligente...», inizia Raze, «... una persona disponibile, che capisce al volo».

«Che cosa le hai offerto?». La voce esce in un rantolo.

«Nulla». Le dita di Raze scivolano via dalla divisa, lungo la manica grigia di Levius. «Non le ho offerto nulla; e perché avrei dovuto?». Solleva sprezzante un angolo delle labbra, studia la reazione dubbiosa che ha di fronte. Infine solleva il palmo e blocca ogni replica. «Le ho chiesto solo se sapesse cosa tu ed Esteban steste combinando», e si ferma, osserva la furia che brilla negli occhi di miele, «mi ha detto: "Forse", "Qualcosa", "Più o meno", e poi è scoppiata a piangere, perché l'avete messa da parte, perché "Io non sono inutile"». Prende una pausa, mentre Levius china il viso e guarda il parquet, sbianca, ormai certo di aver sbagliato abbastanza.

"Se l'avessi messa al corrente di tutto", pensa, "non si sarebbe sentita tradita".

Ma il discorso s'interrompe, quando Isabel lamenta un: «Non così, mi fa male», e ancora, "Per favore". Quasi piagnucola; e Lindsey, dal basso, non se ne stupisce mentre osserva la caviglia fina.

"Taglio la fascetta?", inizia a chiedersi, "La taglio e la rimetto? Oppure no?". Seria,  dietro la visiera nera, tace e aspetta ordini superiori da Raze, perché riconosce i suoi passi placidi che si fanno vicini.

«Trattala bene», le suggerisce una volta raggiunta, con un piccolo colpo sul casco.

E lei annuisce, metallica dice: «Sì». Con le forbici taglia la fascetta bianca e ne assicura una seconda. Si alza, squadra Isabel da capo a piedi: è ferma su una sedia di legno, legata come un tubo idraulico, e non può muovere un muscolo, neppure accavallare le gambe come fa di solito ai cocktail-party. "Nathan Walker impazzirà", pensa.

È adesso che Salomone scodinzola e, curioso, si avvicina a Lindsey, annusa i piedi nudi di Isabel, mentre lei trema e attecchisce con la schiena addosso alla sedia. Poi solleva il muso curvo, la guarda e socchiude gli occhietti neri come la pece. Sbuffa un abbaio scocciato, perché lei trasuda paura da tutti i pori, e nemmeno mostra i denti: non è pericoloso e non si trattiene oltre. Se ne va, torna da Levius zampettando flemmatico.

«Che mi succederà?», riesce a chiedere Isabel, «Mi farete del male?». La voce bassa, tremula e gli occhi che scorrono su tutti i presenti. A stento deglutisce, respira e mantiene la calma, perché in realtà vorrebbe solo urlare e chiedere aiuto.

A rispondere è Lindsey: «No», mormora, «Pensavo che fosse abbastanza chiaro, ormai».

Ma Isabel non si fida; e neppure Levius, che affanna alle spalle di Raze e lo raggiunge all'altezza dell'angolo cottura. «Quali sono gli ordini?», chiede artigliato all'isola. Si sporge in avanti e l'osserva, mentre lui traffica di nuovo con la brocca di vin brûlé. «I nostri, dico...».

«I nostri?», cita poco prima di emettere una risatina fievole, «La criniera è forse tornata a bordo?», e versa da bere in due tazze trasparenti, gliene porge una come per suggellare il definitivo patto di non belligeranza. «Non che mi dispiaccia, s'intende...». Storce le labbra in un'espressione poco convinta, posa la brocca di vin brûlé e solleva la sua tazza per avvicinarsela alla bocca. Un sorso, le palpebre appena abbassate e lo sguardo fisso di Levius; poi conclude: «... il fatto è che non amo avere attorno delle persone tanto lunatiche».

«Non prendiamoci in giro, Raze», lo punge lui di rimando, «sappiamo entrambi che non ho scelta».

«Ovvio che ce l'hai».

Levius osserva la tazza trasparente, il vino caldo, e ricorda la GHB che Lindsey gli ha versato nell'acqua mentre era a lavoro. Per un attimo rabbrividisce, si chiede se anche lì dentro ci sia qualche strana droga allucinogena, se Nadja sia stata convinta in un modo simile al suo e ancora se tutto quello non sia solo un modo contorto per darli in pasto allo Stato; eppure, alla fine, carezza il manico con la punta dell'indice e del medio, lo afferra. Nelle narici il profumo speziato, sulla lingua il sapore pungente. Deglutisce e non dice nulla.

Raze sorride compiaciuto, sorseggia e poi posa il vin brûlé accanto alla brocca piena per metà. Si schiarisce la voce, chiama Lindsey con un: «Bishop!».

E lei scatta sull'attenti, si sporge per cercare i suoi occhi azzurri subito dopo essersi tolta il casco in uno sbuffo accaldato. Solleva il mento, chiede: «È ora?», e ignora l'espressione curiosa, forse addirittura confusa, di Levius.

«Sì», conferma, «puoi chiamare»: poche parole, il tono asciutto. Raze riprende a sorseggiare e dà le spalle non solo a Isabel Allen, ma anche a Lindsey e Levius; dopotutto "Non importa: non c'è bisogno di essere educati o accondiscendenti".

«Chiamerete Nathan?».

Sospira Lindsey, quando sente il lamento di Isabel. Rotea gli occhi al soffitto, verso le travi alte, dopodiché si allontana a grandi passi verso i fusuma che dividono il loft dalla stanza di Raze; tuttavia la sente ancora: "Chiamerete Nathan? Chiamerete Nathan?", così dice, echeggia, chiede Isabel. "Un disco rotto", si dice Lindsey. Dunque sbuffa. Si affretta a raggiungere il treppiedi accanto al comodino, lo agguanta e chiude di scatto il legno scorrevole sul suo montante. «Chiameremo Nathan Walker», risponde atona, frustrata, con gli occhi miele stretti in due fessure.

«Lo avrebbe capito da sola», chiarisce Raze, mentre le vede sistemare il treppiedi con in cima lo smartphone usa e getta, «non darle troppa corda, non c'è bisogno di rispondere a ogni domanda che fa: è pur sempre un ostaggio».

Annuisce, dice: «D'accordo», e poi tira fuori da un cassetto il grosso scotch isolante termico. "Solo alla fine, B", echeggia tra sé e sé le parole di Raze, "perché non siamo sequestratori"; eppure è poco convinta mentre lo srotola di fronte a Isabel con un secco strrrp, perché "Se non lo fossimo, non l'avrei portata qui e non l'avrei legata. Se non lo fossimo, non le starei per tappare la bocca...". I denti sul labbro con fare indeciso, il dubbio che le batte da una tempia all'altra, dietro la fronte. "Cazzo". Sbuffa e agisce lo stesso. "Cazzo, cazzo". Automatica, addenta un angolo del nastro grigio, e lo strappa. Ignora le proteste, perfino le preghiere, di Isabel.

E lei mugola, con gli occhi gonfi di lacrime, senza riuscire a dire una sola, vera parola. Sembra un lamento continuo, un: "No, no, no"; ma la verità è che non sa cosa sta per succedere in quel loft.

Dunque Lindsey piega le sopracciglia in un'espressione perplessa. "Che senso ha dire di no?", si chiede, "Riesci forse a prevedere il futuro, Isabel?". Batte le palpebre, si piega appena in avanti. "Io non credo affatto: nessuno può farlo". «Non avere paura dell'ignoto», le sussurra a un palmo dal naso. "Non ha senso". Con la coda dell'occhio vede Raze che si avvicina, perciò torna ritta sulle sue spalle e retrocede, prende posto dietro il treppiedi con un: «Ci siamo».

A distanza, Levius osserva la scena e quasi rimane in bilico sulla lama di un rasoio: sa di non aver finito con questa storia e ne ha la prova in mano. "Il vin brûlé", si dice, "il ramoscello d'ulivo". Serra la presa attorno al margine dell'isola, ode i primi tre squilli in viva voce e un: "Sì, chi è?"; infine, ansioso come un ragazzino prima di una verifica, si scola le ultime due dita d'un fiato e finge che siano di tequila bum-bum. "Una sbronza, ecco cosa ci vorrebbe", pensa, "una bella, grossa, sbronza".

Raze nemmeno se ne accorge, troppo concentrato sulla voce di Nathan Walker, e solleva un angolo delle labbra. Cinico, dice: «Dovresti vederlo con i tuoi stessi occhi, Nate», infine si muove, entra nell'inquadratura e posa entrambe le mani sulle spalle tremule di Isabel Allen.

Solo allora Lindsey attiva la fotocamera.

Note: Dovevo aggiornare ieri, e sono scema. Sono stata in giro tutto il giorno, quindi so sorry fringuelli.

NB. Immagine by msr ( https://www.flickr.com/photos/93922058@N00 ) is licensed under CC ( non per fini commerciali: https://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/?ref=ccsearch&atype=rich ) LINK ACCESSIBILI NEL COMMENTO

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