Capitolo 2

NY, 2020.

Le pagine del quotidiano scricchiolano, sembrano foglie autunnali sotto i piedi di un bambino uscito da scuola. E più Nadja gioca a piegare gli angoli con la punta delle dita, più Levius si massaggia le tempie. Vorrebbe dirle: "Smettila, basta, quel suono mi dà fastidio!", ma non lo fa, perché lei potrebbe sbottare con qualche frase pungente e colpire nel segno. Così, di spalle, abbandona lo strofinaccio con cui si è asciugato le mani e riprende a insaponare i piatti sporchi, quelli che sono impilati nel lavandino dalla sera precedente; o da un paio di giorni, chissà: non ne è sicuro, visto Nadja non si occupa quasi mai delle faccende domestiche.

Le stoviglie cozzano tra loro, emettono un rumore metallico. Poi la schiuma schizza contro il lavello, l'acqua gorgheggia nello scarico e trascina via i resti della cena.

«Quanto altro ancora resterai lì a fare il casalingo perfetto?», lo punzecchia Nadja. Un sorriso le si dipinge in faccia, ma subito muore nel sentire la risposta di Levius:

«Quanto basta a rendere presentabile questo posto».

«Che sciocchezza: questo posto è presentabile!». Nadja è piccata. Abbassa il quotidiano sulle cosce, poi scivola con le gambe giù dal divano e in un attimo si artiglia allo schienale. Osserva in direzione dell'angolo cottura, batte le palpebre, fa ondeggiare le molle nere che sono strette in una coda alta. «Non ti va mai bene niente...», sbuffa, «la cucina, il salone, il bagno...». Incrocia le braccia e, dinanzi alla schiena muscolosa di Levius, posa il mento sulle nocche intrecciate. «Si può sapere perché?».

Lui le lancia un'occhiata da sopra la spalla, si lascia scivolare di bocca un suono debole, ironico, infine torna a guardare la spugna verde, le mani intirizzite, e dice: «L'ordine, il problema è solo l'ordine».

Allora Nadja ritrae il capo, solleva un sopracciglio e fa scivolare un avambraccio dall'altro lato del divano. «Quando hai deciso di dividere l'affitto con me, non hai mai parlato di alcun disturbo ossessivo compulsivo», dice spronando le labbra in avanti.

«Credi davvero che voler riordinare sia sintomo di disturbo mentale?».

«Allora cosa, Levius?», chiede esasperata. Sbuffa, torna a sedere con la schiena ritta e poi curva, contro i cuscini del divano. Infine si lascia andare e stesa, con la testa sul bracciolo, con le gambe molli e le dita che sfiorano appena il tappeto verde, borbotta: «Come se dovessimo invitare qualcuno in questo buco di culo, a parte Esteban».

«A parte Esteban», echeggia divertito. Strizza la spugna sotto l'acqua fredda, poi la ripone accanto al lavello e inizia a sciacquare piatti e pentole uno dopo l'altra.

«Mi stai prendendo in giro?», scatta Nadja in un mugolio.

«E perché dovrei?», risponde ironico, con una forchetta brillante in mano. «Solo perché tu ed Esteban avete fatto sesso sul tavolo...». Gesticola, fa gocciolare la forchetta sul tappeto grigio, infine l'abbandona sul piano cottura, su uno strofinaccio, e chiude l'acqua, si volta. «Due scolaretti», continua, «due verginelli febbricitanti!».

«Okay, il concetto è chiaro, puoi tagliare corto», borbotta Nadja.

Levius ridacchia e scuote la testa. Si dà una spinta con i reni e abbandona il lavandino, avanza verso il divano. «E perché? È divertente...».

«Non è affatto divertente», lo rimbecca imbarazzata. Gonfia le guance, si nasconde contro l'avambraccio, infine percepisce un'ombra su di sé e solleva lo sguardo, intercetta il contorno di Levius che, ancorato alla spalliera del divano, fa capolino nella sua direzione. «Che c'è ancora?», chiede.

«Promettimi almeno di fare la lavatrice».

«Al diavolo», si lamenta lei, «non sono la donna di servizio, Levius: se vuoi che qualcuno ti lavi i panni sporchi, allora pagalo».

«Con i soldi che ci passa lo Stato?», la provoca mellifluo. Fa perno sulla spalliera e si sospinge in avanti, dondola, dice: «Sarebbe una paga misera», e ancora, «magari si licenzierebbe dopo il primo risciacquo», fin quando Nadja sbuffa e si mette supina per colpirlo con uno schiaffo blando e infastidito.

«Smettila di fare il cretino», lo apostrofa.

«Io la smetto, se la smetti anche tu».

Al limite dell'esasperazione, Nadja si siede. «Di fare cosa?», chiede, con le gambe incrociate.

"Sembra una bambina", così si dice Levius, "e chissà, magari somiglia ancora alla bambina che giocava e sbuffava prima del tracollo". Non ha mai visto una sua foto, perché Nadja è arrivata dal nulla e un quarto d'ora prima di lui per affittare l'appartamento: una borsa, un cane di nome Salomone, nient'altro; "Mi basta questo", così aveva detto. Ripensandoci, Levius ha voglia di sorridere. «Smetto di fare il cretino», inizia piano, «se tu la smetti di nascondere quello che provi per Esteban». Non riesce a trattenersi e piega gli angoli delle labbra verso l'alto.

«Per Esteban?», echeggia. Un suono divertito le scivola di bocca. «Che idiozia! Credi davvero che le persone non possano fare sesso senza essere innamorate?».

«Non è quello che ho detto».

«Allora cos'è che hai detto?», lo incalza.

«Non sono così vecchia scuola», tenta Levius, ormai con le spalle al muro. Poi muove un passo verso l'angolo cottura, si ritira senza neppure rendersene conto.

E Nadja aggrotta le sopracciglia, si fa minacciosa, scatta in piedi per raggiungerlo. «Da dove vengo io ci sono queste stupide regole, queste leggi non scritte, che fanno tremare le donne», sbotta. Ha gli occhi in fiamme mentre parla. «"Non mostrare le cosce, chiudi il bottone della camicia, fai sesso solo dopo esserti sposata"...», cita, «"sennò sei una puta". E nessuno vuole avere a che fare con una "puta": né un uomo, né la famiglia che ha provato a crescerla come una donna perbene». Nadja guarda Levius negli occhi e lo scopre immobile, pallido, con il fiato bloccato nei polmoni e il senso di colpa dipinto in pennellate grezze sul volto. «Tu sei come loro».

«No», sussurra.

La voce di Nadja si assottiglia, mentre lei dice: «Strano, perché i tuoi discorsi sembravano proprio quelli di mio fratello».

Un sospiro, il cuore che diventa una forma di piombo, e Levius abbassa lo sguardo. Non risponde, si lascia riempire le orecchie dal rombo del sangue e dai passi di Nadja, che si fanno via via più lontani. Immobile, una statua, è riscosso da un colpo sul polpaccio. Batte le palpebre non una, non due, ma tre volte, e mette a fuoco il manto rado di Salomone, i suoi occhietti neri. «Hey, Sal», mormora, con i brividi che gli corrono lungo le braccia e si arrampicano sulle guance. Sorride controvoglia, forse scosso da una dolcezza interna. «Sei davvero gentile, sai?», continua a bassa voce, chino sui calcagni, «Ma non devi preoccuparti per me».

«Lascia in pace Salomone», squilla Nadja dalla camera da letto.

"Ha uno strano sesto senso per queste cose", pensa Levius "chissà se è una veggente argentina". Storce le labbra, carezza la testa curva e bianca del cane con entrambe le mani e si rivolge direttamente a lui: «Ho litigato con la tua padrona, perciò pare che non potremmo parlare per un po'».

«Salomone!».

«Vai, su», lo sprona anche Levius, «altrimenti Nadja si arrabbierà». Gli dà una piccola pacca sulla cassa toracica e lo sente come sbuffare, prima di sollevarsi su tutte e quattro le zampe. Poi sorride, torna in piedi a sua volta e si gira di spalle, finge di essere interessato al disordine che Nadja ha lasciato sul divano. In silenzio, pensa ancora al peso che ha in petto, al dolore che gli brucia in gola. "Non sapevo che avesse un fratello". Ignora lo zampettare di Salomone lungo il corridoio e deglutisce. "Non sapevo neppure che mi paragonasse a lui". Con gli occhi fissi sulla prima pagina del quotidiano, Levius si lascia cadere seduto contro i cuscini e afferra la carta stropicciata. Muove appena le labbra, sussurra: «Attentato alla sede della Terza Giurisdizione», il titolo che spicca in grassetto, «sono venti le crisalidi che hanno perso la vita nel tentativo di proteggere la Città e la Patria», il sottotitolo in corsivo, quello poco sopra la fotografia in bianco e nero. "Nadja, vieni qui, dobbiamo parlare": è così che inizierebbe la sua confessione, come l'ha immaginata tante volte. "Io non sono come tuo fratello, io non scappo e non do la colpa a nessuno...", una piccola aggiunta dell'ultimo momento; tuttavia, appena si fa coraggio nel prendere un bel respiro, suona il campanello.

Salomone scatta. Abbandona la camera da letto di Nadja e corre lungo il corridoio, scivola sulle mattonelle, gratta con le unghie tra una riga e l'altra, abbaia. Fermo dinanzi alla porta blindata, solleva il muso e attende con i denti esposti.

«Stai buono, Sal», prova Levius sottovoce, mentre Nadja si affaccia con le dita ancorate al montante di legno.

«Chi è?», chiede lei, «Che succede? Perché Salomone è così arrabbiato?».

Levius solleva una mano, imponendosi un indice dinanzi il viso in segno di silenzio. Guarda Nadja, cerca di ammonirla, e lei si stringe nelle spalle, si poggia contro lo stipite attiguo, incrocia le braccia al petto senza più dire una parola.

"Sembra stizzita", perlomeno così si dice Levius "mi chiedo perché". E batte le palpebre perplesso, ritira il capo, non reagisce fin quando il campanello non suona una seconda volta e Salomone riprende ad abbaiare con più veemenza. «No», bisbiglia nella sua direzione. Spera che si calmi, che gli dia ascolto, ma non lo fa e addirittura si lancia contro la porta blindata, iniziando a grattare la lamina di ferro dopo essersi levato sulle zampe posteriori.

Pallida e intimorita, Nadja decide di farsi avanti. Deglutisce e, in punta di piedi, si avvicina alle spalle di Salomone. Lo afferra da sotto l'addome e, mentre lui si dimena, lo trascina indietro: verso il corridoio, verso la porta della cucina. «Zitto», sibila al suo ennesimo abbaio, «sta' zitto, altrimenti stasera non ti faccio mangiare». Lo atterra su un fianco e lo fissa seria in volto, con il cuore che pare scoppiarle in petto e le orecchie tese, il respiro ansante.

Poi Levius preme sul tasto elettronico di quello che un tempo era lo spioncino e un'immagine monocromatica blu compare sullo schermo rettangolare posto lì accanto. «Esteban», borbotta, «Cristo santo, è solo Esteban». Non ci vuole molto affinché tiri un sospiro di sollievo.

«Cosa?». Nadja abbandona la presa su Salomone e lo sente sgusciare via come un'anguilla. «Che diavolo ci fa qui Esteban?».

«E io che ne so?». Levius fa spallucce e, senza neanche girarsi, tira fuori le chiavi dai jeans con uno sbuffo. Le infila nella toppa, fa scattare la serratura fin quando non è al suo limite, infine le sfila e abbassa la maniglia. «Non è presto per una rimpatriata?», schiocca ironico, con un sopracciglio sollevato.

Esteban sorride, sembra raggiante. Si porta i capelli all'indietro e mostra la fronte biscottata con orgoglio, prima di dire: «Non è mai troppo presto per andare a salutare gli amici». Inclina appena la testa, cerca lo sguardo di Nadja, che è seduta sprezzante sull'isola della cucina, e le fa l'occhiolino.

«Uomini», borbotta con una punta di cinismo. Scuote il capo, le molle nere, e scende giù in un balzo, dopo aver arricciato il naso. «Siete terribili», continua tra sé e sé, mentre Salomone si volta a guardarla perplesso. «E tu stasera non mangi, chiaro?».

«Che ha fatto quel cane?», chiede Esteban entrando in casa.

«Ha cercato di sbranarti».

«Gentile, da parte di Nadja, preoccuparsi tanto per me». Esteban ridacchia e mostra appena i denti ingialliti dal troppo caffè. «È per questo che abbaiava tanto: voleva farmi diventare uno stuzzichino?».

Levius scuote la testa. «Probabile, amico», dice, «e comunque Nadja non è il tipo».

«Allora dimmi...», lo incalza, «Che tipo è?». Uno sguardo d'intesa, poi Esteban si allontana, gira intorno a Salomone con le mani alzate in segno di resa, sorpassa il divano e l'isola per raggiungere l'angolo cottura. «Te lo chiedo solo perché sembra che tu la conosca molto più di me, s'intende».

«Non è con me che dovresti indagare, se t'interessa davvero».

«No?», insiste. Picchietta con i polpastrelli sull'angolo cottura, poco distante dai fornelli. «E a chi altri potrei chiederlo: al cane?».

Levius fa spallucce. «Se credi che Sal possa risponderti...», dice. Gli si avvicina, poi afferra lo schienale di una sedia e la scosta, prende posizione. Con il mento alto e lo sguardo noncurante, aggiunge: «Non sembra che tu gli sia poi così simpatico, però».

«Ah, vorresti farmi credere che Salomone sa parlare?». Esteban trattiene a stento una risata. «Non prendermi in giro». Gli scocca un'occhiata di sguincio e, dopo aver smesso di giocare con l'accendigas, ghigna.

«Sei venuto qui per questo?», chiede Levius, con la fronte corrugata.

«Cosa intendi dire?».

«Per Nadja, dico», inizia a bassa voce, posando un gomito sul tavolo, «è per lei che sei venuto qui a quest'ora?». Solleva la testa, punta l'orologio analogico con il quadrante lilla che Nadja ha appeso sulla sommità della porta della cucina: "Le sette e mezza", pensa, "Esteban non è mai venuto qui alle sette e mezza del mattino".

«Quanto sei rude», ride in tutta risposta. Muove qualche passo sul tappeto grigio, sfila davanti a Levius nel suo vecchio completo di lino e poi si ferma. Le labbra arricciate, dice: «Pensavi forse che fossi venuto a trovare te? Ti mancavo così tanto?», e lo sbeffeggia, «Sono passate poche ore, Levius, non avrai mica cambiato sponda...». Inclina la testa, gl'infila una mano tra i lunghi capelli rossi e lo sente grugnire. «Mi dispiacerebbe doverti rifiutare, sono una persona sensibile».

«Non dire idiozie». Se lo scrolla di dosso e continua: «Speravo solo che fossi venuto qui per un motivo sensato».

«Per esempio?».

Levius si solleva in piedi e fa retrocedere Esteban. Passa accanto all'isola, raggiunge il divano su cui ancora riposa il quotidiano stropicciato e lo afferra. «Per esempio...», ripete, echeggia, calca la voce su quelle parole. Allora si volta, glielo porge e attende. Quando sente la carta scricchiolargli tra le dita sa che è il momento di riprendere il discorso: «Pensavo che ti andasse di parlare della prima pagina».

Un suono divertito scivola dalle labbra di Esteban. «La prima pagina? È fantastico!».

«Non è affatto fantastico», sibila Levius, dopo averlo afferrato per un avambraccio.

«Perché no?», lo incalza Esteban, «Si sentono minacciati, intimiditi: sono dovuti ricorrere a un titolo in grassetto per sembrare delle vittime agli occhi del popolo!».

«Ma chi li ha resi delle vittime?», insiste.

«Il giornalista».

"Impossibile, non lo ha detto davvero". Levius batte le palpebre e osserva gli occhi nocciola di Esteban, la sua espressione scanzonata, il febbrile movimento dei muscoli facciali che lo inducono a sorridere. «No, cazzo, no!», esplode, «Nessun fottuto giornalista, Esteban, siamo stati noi».

«Tu dici?». Trattiene un suono cinico e solleva di poco lo sguardo, lo sposta dall'avambraccio serrato alle due lame d'ambra di Levius. «Eppure le vittime sono altre», dice, «sono tutte quelle persone a cui finisce una pallottola in testa appena svoltano l'angolo della strada con un volantino rivoluzionario in mano, quelle che le crisalidi picchiano, malmenano, pestano fino alla morte quando suona la sirena del coprifuoco...». La voce si assottiglia, ed Esteban sprona Levius ad abbandonare la presa. «O ancora la ragazzina per la quale ieri notte c'è stato "un attentato nella Terza Giurisdizione"», cita. «Non sono queste le vittime, Levius? Quelle che a malapena riescono a mangiare e che devono sudare sangue per comprarsi il pane sottobanco?».

Levius deglutisce a fatica. La pelle che si accappona, quasi non riesce a rispondere, mentre il cuore gli batte furioso nel petto. E con la testa offuscata pensa di nuovo a Nadja, perché sa che una volta ogni due settimane esce con Salomone e torna con delle buste cariche di cibo extra. «Queste non sono vittime», lo corregge in un sussurro.

«No? Cosa sono allora?».

«Sono eroi». Levius lo scandisce e punta l'indice sul petto di Esteban, che si dà per vinto e scuote la testa.

«Touchè». Muove un passo indietro, ridacchia, si guarda intorno nell'angolo cottura e infine, con entrambi i gomiti posati sull'isola, osserva sia il salone che la cucina. «Non ho mai capito perché avete una porta», confessa.

Levius si stringe nelle spalle, lo raggiunge e cerca di guardare il mondo dalla sua prospettiva: la colonna portante, l'isola, infine un pavimento di due colori diversi; bianco a destra, per riprendere le maioliche, marrone a sinistra, per abbinarsi alla mobilia del padrone di casa. «Scelte personali, credo», borbotta.

«Scelte di merda!», commenta Esteban senza mezzi termini, «Voglio dire: camminate su una casa che sembra un videogioco dei primi Duemila e poi all'improvviso bam, c'è una porta». Batte le palpebre, ritira il capo e, divertito, si gira a guardare Levius. «Non potete scardinarla? Se vi alzate di notte ed è chiusa non vi ci schiantate addosso?».

"Tipico di Esteban", pensa Levius, "prima o poi avrebbe dovuto dire qualcosa d'idiota per stemperare l'atmosfera...". Ma non appena prova a dire qualcosa, quando smette di ridere e lo indirizza verso il divano, vede Salomone alzarsi di nuovo su tutte e quattro le zampe e drizzare le orecchie, sfoderare i denti per scattare verso la porta blindata.

Note: Scrivere questa storia in questo periodo è davvero strano, ragazzi. In realtà vorrei dire qualche cazzatella per stemperare l'atmosfera, ma ho la testa veramente presa da pensieri brutti e parolacce, perché sto chiusa in casa e seguo il bel consiglio di Conte.

Insomma, è folle e brutto, ma #iorestoacasa.

Non sono una complottista e la mia storia non è affatto lo specchio dei miei pensieri, anche perché l'ho strutturata prima della disgrazia che c'è capitata... Però fa strano lo stesso stare in casa e scriverla.

Di mio posso solo augurarvi di stare bene e che questo periodo passi presto. Posso dirvi di non fare stronzate, di uscire solo se necessario, di volervi bene e di voler bene al prossimo. Posso dirvi di non discriminare nessuno, perché nessuno sta discriminando noi (cazzo, ci stanno aiutando da ogni dove!), ma anche di non comprare più cibo del necessario, perché quando andate a fare la spesa e gli scaffali sono vuoti, qualcuno li ha svuotati prima di voi. E non è giusto, penserete. Dunque non sarebbe giusto farli trovare vuoti ad altri dopo di voi.

Non fate pazzie: non uscite per nulla. Per incontrare gli amici del cuore, per vedere chi amate.

Io non lo sto facendo. Vorrei farlo, ma non lo sto facendo. Se amate davvero, pensate al tempo che potrete passare insieme quando tutto questo finirà. E ai vostri nonni, ai bambini, a tutti quelli che sono più deboli.

Vedo video dove i ragazzi dicono di non poter resistere senza ballare e bere la sera. Davvero non si può? #iorestoacasa e voi?

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