Capitolo 14
NY, 2020.
Seduto sul divano a elle, Levius osserva il mobile pieno di dischi quarantacinque giri e affonda in una Brooklyn dimenticata da anni. Prova a immaginare i gusti musicali di Raze e non sa bene cosa aspettarsi da quei quadrati che spuntano anticonformisti e zigzaganti in pile multicolore. Accanto a lui, un grammofono spento sopra uno stereo di musicassette anni '90, una pila di libri letti un po' troppo, con gli angoli spiegazzati, e un'anonima bicicletta blu. Ha la fronte contratta, tesa, umida, lessa come un pesce azzurro, e sembra un piccolo grumo di trincee. È perso nel limbo di alti e bassi creato dalla GHB ancora in circolo, con la testa sottosopra e l'emicrania simile a quella di un post-sbronza indesiderato, si sente morire le parole in gola, tra le corde vocali, mentre continua a chiedersi: "Che diavolo sta succedendo?". Vede la luce del secondo mattino sollevarsi piena dietro i palazzi e poi brillare trasversale fino in terra, sul parquet. Dunque sorseggia la prima tisana, la seconda, infine la terza; e solleva gli occhi, li punta sull'espressione pacata di Raze. Si sente come una botticella di vino rimboccata fino all'orlo: è pronto a esplodere, ingozzato di liquidi com'è. Ma non si lamenta, non dice niente, perché la sua priorità è quel "Ti stiamo reclutando" che ancora non riesce a entrargli in testa. "Non ha senso", si dice al riguardo, "Reclutarmi per cosa, poi?". Sa che è stato tirato in ballo Nathan Walker, ma la sola idea di avvicinarsi a lui in modo sfacciato gli mette i brividi. "Non sono mica un kamikaze", pensa storcendo il naso. E si sente osservato, quasi fulminato, come se avesse parlato ad alta voce e qualcuno lo stesse biasimando. Chissà perché, sente come il peso dell'attenzione altrui gravargli addosso. Ma non si volta, nossignore, né prova ad accertarsi di essere ancora sano di mente: lo sa e basta, per mero istinto di sopravvivenza. Poi deglutisce. Sulle spalle, sulla nuca, c'è un brivido angosciante, o forse un verme, che lo fa tremare. Ma Levius non lo dà a vedere e si artiglia al bracciolo, ingoia il rospo che subito gli gracida in pancia.
Poi Raze afferra la tazza di tè bianco che ha appena liberato dall'infusore e se l'avvicina alle labbra. Soffia, sorseggia, ignora le lenti appannate e muove qualche passo lontano dall'isola. «Dovresti esserti ripreso almeno un po», mormora facendo attenzione che neppure un biscotto cada dal piattino che sorregge.
Levius annuisce. «Può darsi».
«Come sarebbe a dire "può darsi"?», cita mentre solleva le sopracciglia, «Non lo sai, oppure stai chiedendo conferma a me in quanto occhio esterno per avere il quadro generale?».
«Forse entrambe».
Allora Raze trattiene un suono divertito e dice: «Ti svelo un segreto: io non sono te», e continua ironico, provocatorio, «tu sei il solo a poter rispondere, quando ti viene posta una domanda del genere». Si siede a mezzo metro da Levius e, dopo aver adagiato i biscotti su un cuscino scamosciato, incrocia le gambe. Si sfila gli occhiali e fa scorrere una stecca oltre il collo della camicia, laddove il primo bottone è lasciato aperto per respirare, come dice lui. Poi sorseggia il tè bianco e allunga le dita ossute verso il piattino.
Levius abbassa le palpebre e sbuffa un: «Immagino che tu abbia ragione».
«Su questo non c'è dubbio». Annuisce. «Ma se ti pesa così tanto fare un'autoanalisi, proverò a darti la mia impressione».
«Spara».
Ancora un sorso, un biscotto glassato al cioccolato che viene scelto e addentato, sbriciolato sotto i denti e sulla lingua. Dunque Raze soppesa l'idea di un risveglio improvviso: "Il cuore in gola e la testa scombussolata, le tempie che martellano e lo stomaco in subbuglio". Infine guarda Levius, lo studia da capo a piedi e inizia a parlare senza sosta, dice: «Vorresti un'aspirina, ma non sai che potrebbe mandarti ko; definitivamente ko. Vorresti tornare a dormire, magari in un letto, in una stanza con quattro pareti e una porta, come quella del tuo appartamento in affitto, ma non sai che uscire di qui ti metterebbe nei casini. Vorresti chiedere aiuto a qualcuno, ma non sai che i buoni siamo noi. Vorresti più informazioni, più tempo, più tutto, ma non hai niente di tutto questo e puoi solo fidarti di me».
Levius si volta a guardarlo e osserva le sue labbra piene di briciole. Per un attimo riepiloga tutto ciò che gli è stato detto e pensa: "Sì, è vero", ma poi deglutisce e scuote la testa. Mormora un: «Non è questo il punto», e solleva una mano, indica il fondo del loft, la porta del bagno dietro la quale ha visto sparire Lindsey quasi un'ora prima. «Cos'è successo a mia sorella?», chiede serio. Ha le sopracciglia tremule, contratte, che quasi si scontrano sulla sommità del naso, mentre l'emicrania gli pulsa dietro i bulbi e s'ingigantisce parola dopo parola. «Non sa chi sono, non si ricorda di me: perché?», lo incalza.
Raze mastica placido il biscotto glassato e resta in silenzio fin quando non ingoia il boccone. Poi solleva le spalle, si stringe in se stesso e ritira il collo. «Non è certo colpa mia».
"Sembra un ragazzino fin troppo cresciuto", così pensa Levius, "ma non lo è". La rabbia gli vibra nei muscoli delle braccia mentre chiede: «Vorresti dire che è colpa mia?». Allora schiocca la lingua, emette una risata asciutta, di scherno. «Non diciamo stronzate». Scatta in piedi, ignora le vertigini e si trattiene ancorato al parquet grazie a un baricentro trovato per fortuna. Guarda Raze dall'alto e, con disgusto, aggiunge: «Mia sorella Lindsey è sparita sei anni fa: sei, hai capito? Cosa le è successo nel frattempo? Perché è diventata una crisalide?».
«Potevi cercarla», sussurra, «potevi trovarla». Immobile e con la tazza di tè bianco a pochi centimetri dalle labbra, Raze ricorda le parole che Lindsey ripeteva sempre i primi tempi a Philadelphia. La voce vibra per un attimo, le parole si sollevano e poi solleticano le orecchie di entrambi. Non dice altro, si nasconde in una piccola nube di vapore e scruta Levius, lo vede barcollare.
«Credi forse che non lo abbia fatto?», chiede rabbioso.
«Chi può dirlo».
«L'ho cercata», insiste, «l'abbiamo cercata», si corregge, «io e Ralph: ovunque, in ogni strada di Philadelphia».
«Non avete cercato bene», lo rimbecca Raze. Addenta un altro biscotto e lo mastica piano, lo gusta. Mantiene gli occhi fissi mentre si sente bruciare addosso lo sguardo di Levius; eppure non gl'interessa di lui, non si scompone di un millimetro. Ingoia il boccone, poi sorseggia e si pulisce il palato. «È sempre stata a Philadelphia, proprio sotto il vostro naso».
Il dolore che prova Levius è indescrivibile: una fitta al petto, un colpo basso, le viscere ribaltate. Sente le costole che si stringono, che quasi non lo fanno respirare; si ribellano, lo puniscono. E sgrana gli occhi, sì, dice: «Non è vero...», perché si rifiuta di credere alle parole di Raze e non vuole ammettere a se stesso di aver perduto Lindsey a causa della propria inettitudine, «... non è possibile, non è vero», continua. Serra le labbra, i denti, mentre le narici si allargano come quelle di un coniglio. La vista appannata, i pensieri incastrati, il suono della porta del bagno che scricchiola ovattato sul fondo del loft e lo raggiunge come una condanna. "Cos'è successo a mia sorella?", si chiede ancora, "Mi ha dimenticato perché sono un mostro?". La sola idea lo uccide.
«Non ho alcun motivo di mentire», sussurra Raze «Tu mi servi tanto quanto lei: sei la criniera». Addenta di nuovo il biscotto; o, per meglio dire, lo infila tutto in bocca. Poi solleva un dito e lo muove a destra e sinistra, mugola qualcosa di simile a un "no", mentre Lindsey sbuffa.
Lei solleva le sopracciglia. «Che ho fatto?», chiede, uggiola, rotea perfino gli occhi.
Levius si volta e per poco non cade in terra: sa che dovrebbe evitare i movimenti bruschi, ma proprio non riesce a farne a meno; dopotutto è una questione di abitudine, perché il suo lavoro all'Aeroporto LaGuardia consiste nel sollevare, passare e gettare qualunque carico abbia in mano. "Idiota", si apostrofa, con una mano premuta sulla fronte. Il loft traballa, lui surfa.
Raze solleva la voce all'indirizzo di Lindsey e chiede: «Dove vai in quel modo?».
«Quale modo?». È perplessa, ma non si scompone. Mantiene un tono neutro, distante, come le è stato insegnato durante l'addestramento, e continua a domandarsi: "Perché mi guarda così?", "Avrei dovuto mettere le scarpe?", "Vuole che mi asciughi i capelli?". Ha le braccia lungo i fianchi e il volto dritto dinanzi a sé, mentre le gocce d'acqua scivolano lente verso il basso, sul parquet, per unirsi alle impronte già lasciate.
Dunque Levius riesce a socchiudere le palpebre. La fissa attraverso un velo traballante, ondulato, simile a un miraggio. Deglutisce un grumo di saliva, caccia via la nausea del finto post-sbronza e la vede con indosso uno striminzito asciugamano bianco. "Ha ragione lui", si dice, "ha ragione Raze". Inspira a forza e abbassa il capo, perché è una vita che non vede sua sorella dopo una doccia. "Nemmeno io voglio che vada in giro mezza nuda". Dimentica la pugnalata allo sterno, la ferita rattoppata da Nadja, e pallido come uno straccio si ritrova a cercare Raze con la coda dell'occhio. Quando lo trova, però, storce le labbra confuso: è tranquillo, con il volto rilassato, inespressivo, simile a una maschera mal riuscita, e siede con le spalle contro lo schienale del divano. "Sembra abituato", pensa, "Possibile che Linsey faccia spesso certe cose?". Avvampa di rabbia, di gelosia, e immagina chissà quale relazione tra i due. Vorrebbe alzarsi, coprirla con il plaid fino a ridurla a un burrito umano; eppure non lo fa: da bravo fratello, attende che sia l'ipotetico fidanzato a risolvere la situazione. Stringe i pugni e ingoia il rospo.
Raze ha l'intuito fino: gli basta un'occhiata per capire di essere la pedina in gioco. Così sospira, lascia la tazza in terra e afferra il plaid. «Non puoi girare per casa in questo modo», dice. Si alza senza aggiungere altro, mentre Lindsey grugnisce come un cane in gabbia.
«Che stronzate», lamenta a mezza bocca, «Ho solo fatto la doccia...», e sbuffa di nuovo, «Vuoi dirmi che tu non la fai mai?». Incrocia le braccia e poi solleva un sopracciglio retorica, provocatoria. Segue i passi di Raze, tiene il mento alto e cerca di presentarsi come quella in vantaggio; e ci crede: veste la pelle di un serpente dai denti affilanti, con la lingua biforcuta e gli occhi attenti.
Ma lui demorde. «Ho più pudore di te», dice.
Allora Lindsey socchiude le labbra. Stizzita, echeggia quelle parole nella testa: "Ho più pudore di te", e risponde arricciando il naso. Immobile nello stesso punto, scivolando con i palmi lungo l'asciugamano, carezza la pelle umida delle cosce. «Il pudore intrappola le persone», dice. Ha lo sguardo torvo, forse addirittura assente, vuoto. "Il pudore uccide", pensa. Non muove un muscolo, respira a un palmo dal suo naso, con le pupille ristrette che si allargano pian piano, un battito alla volta, pompando sangue nelle vene gonfie.
«Sciocchezze», conclude Raze nel posarle il plaid sulla testa. Sospira un: «Finiscila, B», che sa di tè bianco e cioccolata, infine la stringe in un abbraccio di plastica tirata a filo come un mare caraibico. «Se non hai intenzione di vestirti, a me sta anche bene: posso guardare da un'altra parte; tuttavia immagino che alla criniera dia fastidio», bisbiglia vicino al suo orecchio.
«Perché dovrebbe?».
«Perché ha più pudore di tutti noi messi insieme», mente.
Lindsey mugola, storce le labbra in una smorfia appena contrariata e osserva il volto di Raze che si allontana. Come al solito vorrebbe mormorare un: "Non te ne andare, resta qui", e baciargli la fronte, le guance, entrambe le palpebre; ma non lo fa e indurisce i muscoli della mandibola, deglutisce. Sorpassa la sua spalla, raggiunge Levius e cerca i suoi occhi ambrati. Stretta con le dita attorno al plaid, dice: «Forse è ora di spiegarti come stanno le cose».
E quelle parole gli bastano per non replicare, per scostare un attimo il suo cuore da fratello maggiore geloso. Ricorda in un lampo che Lindsey, sua sorella, veste i panni di una crisalide dal nome B, o Bishop; ricorda anche che è entrata nel suo appartamento per fare chissà cosa, magari per mettere nel sacco tutti quanti con quello che si definisce "un semplice controllo"; infine ricorda la cazzata più grande della sua vita: il tentato omicidio, la corsa nella vasca, il voler fare a pezzi una persona come suggeriva Ralph. E annuisce, non può fare altro, fin troppo conscio di traballare sui tizzoni ardenti. «Sì, vorrei proprio saperlo», scandisce nel magro tentativo d'incalzare i presenti.
È adesso che Raze solleva un angolo della labbra, che dice: «Giusto». Siede sul divano, si china e, con un sospiro, raccoglie la tazza ancora calda di tè bianco. «Dobbiamo mettere il re nero nell'angolo». Si sfila gli occhiali dal collo della camicia e li fa passare lenti fino alla sommità del naso; "Dopotutto non c'è più pericolo di nubi bianche", lo sa, "non si appanneranno". Sorride, vede Lindsey prendere posto accanto a Levius in uno sbuffo di sabbia e palme piegate. «Continua tu...», la invita.
«Ora ci siamo tutti», dice, quasi scandisce in una cantilena.
Parole che Levius non capisce, che lo fanno voltare confuso nella direzione di sua sorella. «In che senso?». Corruga la fronte, la scruta.
«Il re bianco», inizia facendo un cenno verso Raze, «il cavallo bianco», continua nella direzione di Levius, «l'alfiere bianco», e solleva le spalle per indicare se stessa. Poi tira fuori le braccia dal plaid e si tuffa nell'aria. Il tessuto acrilico pieno d'acqua, i capelli rossi di Lindsey ormai mogano e appiccicati in un'unico corpo. «Tre pedine importanti», mormora soprappensiero, «le uniche tre che ci servono per fare un matto».
«Non m'intendo di scacchi, ma credo che si possa fare un matto anche senza queste tre pedine», la contraddice Levius.
Lei scuote la testa, muove le sopracciglia divertita e dice: «Non in questo caso, cavallino: evita di parlare se non sai le cose».
«Il re nero è un pezzo grosso della scacchiera», interviene Raze, «perciò può essere raggiunto solo da altri pezzi importanti». Allontana la tazza, la sorregge tra le ginocchia schiuse e lancia un'occhiata a Lindsey come a intendere: "Sii più educata con lui".
Così lei gonfia le guance, si addossa allo schienale del divano cui è seduta e trattiene uno sbuffo infantile. Allunga una gamba nuda fuori dal plaid, carezza con le dita il parquet e non è certa di viaggiare nel mondo; "Forse", si dice, "a diecimila miglia da terra". «Alfieri, cavalli e torri sono crisalidi», cita a modo suo. Batte le palpebre, sente le ciglia umide contro le guance e per un attimo le sembra di camminare a ritroso nel tempo. "Forse", pensa ancora, "nello spazio infinito".
Gli occhi di Levius vengono subito catturati dalle labbra rosee di sua sorella. Aggrotta le sopracciglia, non riesce a credere che abbia detto una cosa del genere con così tanta naturalezza dopo averlo appellato "cavallo bianco". Biascica un: «Come?», e ancora, «Io non sono una crisalide», perché non è certo scemo, non è un idiota. Lui ha capito il senso di quelle parole, e non gli piacciono affatto. "Non voglio entrare nel servizio di sicurezza dello Stato", rantola la coscienza, "io voglio distruggerlo pezzo dopo pezzo".
«Puoi esserlo temporaneamente».
La voce di Raze gli risuona nelle orecchie, gli martella nelle tempie e dice: "temporaneamente-temporaneamente-temporaneamente" dietro ai bulbi bianchi, in una fitta rete di nervi ottici. E sono immagini al contrario, colori straripanti d'illusioni come i fuochi d'artificio che sembrano estinti dal 2011. "Puoi esserlo temporaneamente", e chissà perché gli si accappona la pelle. Vorrebbe rispondere Levius, dire "Sì", o magari "No": qualcosa, qualunque cosa, un monosillabo che ha in testa e che si spegne nel momento in cui Raze inizia a ridere con picchi bassi, cristallini, sinceri.
È un volto piegato il suo, che mostra denti d'avorio e cura personale; poche grinze d'età, guance distinte e ben rasate, che si sollevano infine per mormorare: «Una crisalide incompleta».
Note: Ho finito di scrivere questa storia e sono così happy, così happy, così happy. No, non ho finito di pubblicarla, ovviamente, ma ho potuto registrarla completa a Patamu, cosa non da poco, e adesso non avrò motivo di tardare con gli aggiornamenti.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top