Capitolo 13
NY, 2020.
"La prima mossa è fatta": è questo quello che pensa Raze, quando i raggi del sole penetrano attraverso il vetro e lo raggiungono lì dov'è, sotto le coperte; "I tre pezzi sono disposti sulla scacchiera". Non un "Buongiorno mondo", né un "Maledizione, che sonno", ma proprio "I tre pezzi sono disposti sulla scacchiera", perché è certo che il Braun 1% abbia salvato la criniera. Così si da una spinta con i reni e rotola sul materasso, volta la testa sul cuscino e allunga la mano per raggiungere il comodino. Afferra gli occhiali, se li poggia sul naso e li fa scivolare fino in fondo, vicino le sopracciglia. Batte le palpebre un paio di volte, cerca di tornare a vedere oltre il velo appannato del mattino. E al di là del giorno, mentre il pallore illumina il loft, prende a riconoscere i contorni della mobilia subito dopo quello del libro che si è trascinato dietro al rientro in casa. Sospira, carezza la copertina e pensa alla filosofia di vita svedese: il giusto, il poco, il necessario. Ancora un sospiro, le spalle che si drizzano in uno scrocchio di ossa, e poi lui intreccia le dita sopra la testa, allunga le braccia, si stiracchia. Salta giù dal letto, scivola lontano da quelle pareti di carta che fanno sembrare la sua stanza un piccolo buco giapponese nell'okiya di un'okaasan. Infine scende i due gradini che lo dividono dal resto dell'appartamento. Vede Lindsey ancora addormentata sul divano, stesa su un fianco e con la schiena contro i cuscini. Scuote la stesa, non dice una parola, ma si avvicina per accertarsi che la criniera stia ancora respirando. Al primo sibilo che gli esce dalle narici, si scansa soddisfatto e raggiunge l'angolo cottura per preparare qualcosa.
Il bollitore dell'acqua non impiega molto a riempirsi, né a fischiare; dopotutto ne contiene solo un litro. È lì che brucia arroventato ed emette sbuffi d'aria compressa, voluminose nuvole biancastre, mentre Raze l'osserva dalla sedia alta dell'isola accanto.
E per un attimo, per un solo attimo, lui considera l'ipotesi di non alzarsi. Si chiede: "Se rimanessi immobile, cosa succederebbe?". Ha gli occhi fissi sul piano cottura, sulle mattonelle bianche che ricoprono il muro alle spalle dei fornelli, e ancora sulla cappa di metallo; non può a fare a meno di pensare a un'esplosione, un piccolo incendio, le urla di Lindsey e il loft in fiamme. Ma chissà come, di colpo, si riscuote. Senz'aria, annaspa e si fa sfuggire un suono divertito dalle labbra tirate. Gli occhi sgranati, posa i piedi scalzi sul parquet e si avvicina al bollitore borbottante. Così, ancora in trance, Raze gira la manopola del gas e sente una voce che mormora alle sue spalle:
«Buongiorno».
È un suono basso, distorto come dal tempo, fittizio o immaginario, che non riconosce neppure: una voce assonnata, ovattata, lontana, quasi metallica, che si perde nelle sue orecchie; eppure, nonostante la creda inesistente, Raze risponde con un: «Buongiorno», e ancora, a seguire, «Dormito bene?». Solo allora si volta e strozza un'esclamazione in fondo alla gola. Di fronte a lui c'è Lindsey. "E chi altri?", pensa. Sorride plastico e si dà dello sciocco.
«Per quanto possibile».
«Non ti piace il divano?».
«Non è comodo come credi».
«Non ho tanti letti a disposizione».
«Ne hai uno e basta, se vogliamo essere precisi».
«Ne ho uno», conferma scrollando le spalle.
Lindsey si appoggia con i gomiti sull'isola e lo osserva, mentre lui le dà la schiena e, placido, versa l'acqua bollente in una tazza blu. Poi si sporge appena in avanti e, curiosa, si strofina gli occhi per vedere meglio. «Cosa ci hai messo dentro?», chiede.
Raze posa il bollitore sul fornello spento e afferra l'infusore, lo rotea un poco, facendolo tintinnare. «Niente di speciale», mormora assorto, «una fettina di zenzero, artiglio del diavolo e verbena».
«Sei il solito: ti stai viziando», commenta divertita.
Lui si gira a guardarla, corruga di poco la fronte e incrocia le braccia al petto. «Dici?», mormora confuso, «E perché mai, sentiamo».
«Bevi sempre cose stranissime e per i motivi più assurdi».
"Cose stranissime", echeggia tra sé e sé. Quasi gli viene da ridere, ma si trattiene. «L'artiglio del diavolo cura il mal di testa», tenta di spiegarle, «e io soffro di emicrania da quand'ero ragazzino». Scioglie le braccia e afferra il bordo del piano cottura con una mano, lasciando che l'altra libera di giocherellare con l'infusore.
Allora Lindsey solleva un angolo delle labbra e lo provoca: «Qualcuno mi ha insegnato che tanto, tanto tempo fa veniva usato anche in caso di mal di schiena». Emette una risatina bassa. «Ti stai forse invecchiando, Raze?».
Lui ignora quella domanda sciocca, ma non distoglie l'attenzione da Lindsey: la guarda in viso e studia la pelle pallida che tanto ha visto prendere fuoco negli anni, ogni piccola lentiggine che le ricopre il naso, la piega del grosso cuscino che si è ben stampata sulla guancia sinistra; e infine riprende a parlare, dice: «La verbena distende i nervi». Si schiarisce la voce, ma non va oltre, perché lei lo interrompe:
«E la pelle». Sorride. «Sì, ti stai decisamente invecchiando». Lindsey allunga le braccia sull'isola, si piega in avanti, si stende e posa la fronte contro il marmo bianco. «Aiuta le articolazioni, combatte le infiammazioni muscolari...», dice a mezza bocca, «... Dio, sei un vecchietto».
«È inutile che ti dica quanto mi piaccia il sapore dello zenzero, vero?», la incalza.
«No, come minimo ti saranno venuti dei problemi gastrointestinali con l'avanzare dell'età», ridacchia e schiaccia una guancia sul fresco del marmo. Fissa il divano, Levius, e poi torna a puntare i gomiti, a sorreggersi il mento sui pugni chiusi in una sorta di stanchezza bipolare.
Raze sospira e scuote la testa. «Sei un caso disperato», borbotta.
E Lindsey annuisce, dice: «Lo so». Sorride. "Mi piace essere un caso perso, attirare la tua attenzione, Raze". Muove di poco le labbra per sussurrare: «Ti voglio bene», che è la frase tipica di un'adolescente, una di quelle che meriterebbero risposta; eppure non la riceve, né si sorprende, quando lui cambia discorso con un:
«Ne vuoi un po'», a seguito di un cenno diretto verso la tisana vicina.
Perché negli anni lo ha catalogato come un tipo silenzioso, introverso, di poche parole. "Ovviamente...", pensa. Sorride amara ed esclama un: «Che schifo!», con il naso stretto tra indice e pollice e l'espressione melodrammatica dipinta in volto.
«Potresti anche essere più educata». Un sospiro, e Raze le dà di nuovo le spalle. Sposta l'infusore nel lavandino, lo apre e lascia cadere le erbe bollenti nel trita-rifiuti che poi accende in uno strano frastuono. «Che cosa ti succede?», chiede. "Il comportamento di Lindsey sembra più cupo del solito", così si dice. Vuole capirla meglio, perché sono dodici ore che continua ad arrovellarsi senza risultati.
«Pensavo che non me lo avresti chiesto», sussurra lei. "Pensavo non t'interessasse nemmeno".
«Perché non avrei dovuto?», chiede Raze mentre le lancia un'occhiata veloce.
Lei fa spallucce e minimizza: «Sembrava che fossi interessato solo alla criniera».
«Assurdo: come ti viene in mente?».
Lo vede sorseggiare, con le labbra socchiuse, premute sul bordo della tazza e poi ancora lontane, umide; e Raze deglutisce, solleva il mento, scompare dietro le lenti degli occhiali in un velo opaco, biancastro, che sale gonfio verso il soffitto in legno. «Hai ragione, scusa», mastica Lindsey a fatica. Annuisce e si sforza di nuovo, mente: «Non so come ho potuto dubitare anche solo per un minuto di te, Raze...».
«Che cosa ti succede?», ripete senza mezzi termini.
Lei aggrotta le sopracciglia e non riesce a tenere a freno la lingua, che scatta contro il palato e scandisce tremula: «In che senso?», e ancora, «Cosa dovrebbe succedere?».
«Ti fa male il fianco, B?». Conosce già la risposta, gliel'ha letta negli occhi; eppure la incalza, perché spera che sia lei ad aprirsi, che non debba cavarle la verità con le pinze.
Nonostante ciò, lei mormora un: «No», e lo fa senza quasi rendersene conto. Si carezza il maglione, il costato. Sa di aver detto una bugia, sa perfino che lo sguardo di Raze riuscirebbe a farla cedere in meno di un minuto, se solo fosse libero dalle lenti appannate; ecco perché si rallegra del fatto che non lo sia. Potrebbe dire altro, ma un grugnito interrompere l'interrogatorio. Lindsey si volta, vede Levius sbuffare contro i cuscini del divano, sotto il plaid, e poi sollevare un braccio per aggrapparsi allo schienale.
È così che, dopo ore, si tira a sedere. Ha un palmo ben premuto sulla faccia, che struscia sulla punta del naso e sulle labbra, Levius. E non dice niente, perché la bocca pare come impastata dal sonno, mentre la mandibola si ribella a ogni tentativo di sbadiglio con una sorta di clanch.
Perciò Lindsey strabuzza gli occhi, sussulta e trattiene il fiato. Poi si rilassa tutto d'un tratto. "È fuori pericolo", si dice. Quasi non le sembra reale. Sorride e abbandona il senso di colpa che l'ha cullata tutta la notte. Infine torna su Raze. «Vuoi preparargli qualcosa da mangiare o ci penso io?», chiede.
«Da quand'è che sei così servizievole?», la rimbecca divertito, con le lenti ancora appannate.
Sul volto di Lindsey si forma una strana smorfia di scherno. «Da quando l'ho quasi ucciso».
Lui sorseggia ancora la sua tisana. «Effettivamente non mi sembra una così pessima idea», dice scostandosi dal piano cottura, «Dovresti farlo, sì». Raggiunge l'isola e si piega in avanti. Gli avambracci sul bordo, la tazza al centro. Si sfila gli occhiali e li posa sul marmo. Torna a vedere Lindsey e l'intero loft senza un contorno bianco in stile flashback hollywoodiano. «Magari, prima chiedigli cosa preferisce per colazione».
Lei annuisce con un: «Certo, non sono mica scema», e non si accorge di come Raze se la stia ridendo sotto i baffi, perché è già in marcia, con le braccia incrociate e lo sguardo fisso. Seria, decisa, avanza con lo stesso passo che le hanno insegnato nel servizio di sicurezza dello Stato fin quando Levius non si strofina gli occhi con i pugni chiusi e biascica un:
«Che diavolo è successo?».
Allora Lindsey si ferma, gela a metà strada tra il divano a elle e l'angolo cottura. Pensa: "Cosa dovrei dirgli? 'Sai, volevo che mi seguissi senza fare domande e ti ho drogato', oppure, 'Pensavo che fossi uno pazzo-assassino-smembratore e ho deciso di punirti con una massiccia dose di GHB'. Certo, sensato, come no!".
«Allora?», la incalza roco, con la voce ridotta a un filo. Ha i muscoli delle braccia intorpiditi, pesanti almeno quanto quelli delle gambe, e un livido a metà del braccio, laddove Lindsey ha infilato l'ago per l'iniezione di Braun 1%. «Quando siamo arrivati qui?», chiede, «E dove cazzo siamo, soprattutto?», insiste. Raddrizza la schiena, quantomeno ci prova, e mugola di fastidio, con i nervi tesi del collo che lo fanno gemere piano. Poi si guarda attorno, osserva l'arredamento casuale del loft e cerca di capire se appartenere a Lindsey oppure no; dopotutto lui la ricorda ancora come la ragazzina che accostava cose di dubbio gusto solo perché le piacevano singolarmente.
«Ti ho portato...», prova a rispondergli; ma viene subito interrotta da Raze che, dopo essersi rimesso gli occhiali, si schiarisce la voce con un colpo di tosse.
«A casa mia», conclude al suo posto, «a Brooklyn». Afferra la tazza blu dal piano in marmo dell'isola e si avvicina al divano, supera Lindsey, prende posto accanto a Levius. Non lo guarda neanche, ma si rivolge a lui con un: «Bentornato tra noi», e si limita a osservare l'espressione sorpresa di Lindsey, che pare chiedere: "Perché gli stai dicendo queste cose?". «Stanotte te la sei vista brutta».
Perplesso e confuso, con la testa che gli pulsa da parte a parte in un cerchio stretto, Levius scatta e si addossa allo schienale del divano. «Come sarebbe a dire?».
«GHB». Raze fa spallucce semplicistico e gli riserva un'occhiata di sguincio. Solleva la tazza blu, mormora: «Vuoi favorire?».
«Perché mai avrei dovuto farmi di acido?», lo rimbecca in un grugnito basso.
«Ecstasy», sottolinea Raze, «nessun acido, ma ecstasy».
«So cosa cazzo è», sbotta Levius. Dà un pugno al bracciolo del divano e, furioso, arriccia il naso. Si tira in piedi con un balzo, ma se ne pente un attimo dopo, quando il loft comincia a muoversi, a oscillare: e lui, fermo, barcolla e quasi cade in avanti.
Lindsey lo afferra per la maglietta, lo trattiene. Lei sa cosa sta provando, sa quanto schifo può fare il mondo dalla cima di un'altalena.
«Allora perché non sei stato più preciso poco fa?», lo provoca Raze. Un sorriso di scherno, una piccola provocazione, e sente la voce di Levius che esplode:
«Perché sono stato drogato con la GHB!».
"Legittimo", pensa. Muove le spalle in uno spasmo divertito, trattiene una risata e si addossa allo schienale. «Giusto, hai ragione», dice Raze bonario, «ed è proprio per questo che ti consiglio di bere questa». Allunga la tisana verso di lui e lo vede ancora più teso, con le sopracciglia aggrottate e le pupille strette in piccoli puntini numerati dell'enigmistica. «Puoi chiederlo a B, se non mi credi. C'è verbena, artiglio del diavolo e zenzero: nient'altro; finora l'ho bevuta io».
E Levius lo fa, ma in silenzio. La guarda perché può, perché ne ha il permesso, e chissà come, nonostante sappia che sia stata lei a drogarlo, le crede. In silenzio la vede annuire con il sorriso sulle labbra e pensa: "Perché è così felice?"; poi, senza risposte, si allunga verso il divano e si accascia lì, tornando a pesare sul mondo con un tonfo. Solleva il braccio dai muscoli intrecciati, allarga le dita e afferra la tazza blu. «Grazie», dice.
«Prima torni in te, prima potremmo parlare di Nathan Walker», sussurra Raze.
Per un attimo si sente pesare quel nome addosso: "Nathan Walker", e se lo ripete più volte, fin quando non diventa di piombo. Dunque Levius inspira con le narici larghe e solleva ancora gli occhi su Lindsey per trovare un indizio che non arriva. Deglutisce a fatica un sorso di tisana, dopodiché torna a guardare Raze e sente un brivido perdersi nella nuca. «Mi state arrestando?», rantola in un filo di voce.
«Ti stiamo reclutando», risponde.
Note: in questi giorni sono letteralmente presa dal finale di questa storia e ho saltato molti aggiornamenti (sì, mi sento una pirla). Manca così poco che quasi me la faccio sotto all'idea di mettere le dita sulla parola fine, perché è davvero un qualcosa a cui tengo molto e che mi fa accelerare i battiti (letteralmente, raga: tipo che sono schizzati a 122 e mi si è messo a suonare in allarme l'orologio nel mentre che scrivevo qualcosa - non vi dirà cosa - su Esteban). Ma come si fa? Come si fa? Mi sono ricordata di aggiornare solo perché ci stavo collassando a colazione e sono arrivata a sera per pubblicare questo capitolo. Mi complimento con me stessa e sento già la prepotente ironia che mi solletica il palato...
Ah, per la cronaca, la costola sta meglio di ieri e peggio di domani (si spera, perlomeno così dice il detto e io mi ci affido). Ho appena mangiato tre yogurt alla frutta (NB. informazione non rilevante) e credo diventeranno la mia nuova droga. Perché non aggiorno "Come vetro"? Già, ho bloccato la revisione per colpa dell'epilogo di questa Crisalide poco-poco-poco completa.
E... nel mezzo del cammin di nostro finale mi ritrovai in un prompt oscuro, che la diritta trama era smarrita - Ahi! Quanto a dir qual era è cosa incomprensibile: esto prompt delineato e angst e incalzante, che nel cervello rinova l'ispirazione!
'Nzomma nuaccetto.
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