Capitolo 12
NY, 2020.
Ha gli occhi chiusi Lindsey, ma non riesce a prendere sonno. Sente ancora il rimprovero di Raze risuonarle nelle orecchie, in testa, nel cervello, in quelle piccole camere di materia grigia; e questo cita: "Come hai ridotto la criniera?". Parole che rimbombano una dopo l'altra, che si fanno spazio a forza nel suo petto; e lì si artigliano, quasi sanguinano assieme a lei. "Criniera", continua a ripetersi Lindsey. Sa che quel soprannome ha vibrato con più affetto di un abbraccio dopo la guerra e che non era diretto a lei. Si chiede: "Perché?", ma non ha alcuna risposta e si tormenta, si rotola a destra e a sinistra sul divano, sotto il plaid che le ha dato Raze. Annega in un confine di "non ha senso", in un mare di "impossibile". Pensa: "Non mi aveva mai parlato di lui, non lo conosceva. Per Raze era sempre stato solo una pedina ipotetica". Si morde le labbra, quasi stacca una pellicina. "Un senza-volto, un cavallo bianco, qualcuno di sacrificabile, mai 'la criniera', mai". Ecco perché non si cura di lui quando, in piena notte, lo sente scattare, o forse addirittura tremare, dall'altro capo della struttura a elle. Arriccia il naso, sbuffa. Infastidita, Lindsey si raggomitola come un gatto e così, stretta in posizione fetale, mentre Levius ha le convulsioni a causa della dose di GHB, solleva le palpebre e pensa: sì, pensa; a se stessa, a Raze, alla scacchiera e a Nathan Walker, perché non ha ancora imparato a giocare.
E dall'esterno proviene la luce sempiterna della Grande Mela. Batte appena sui contorni degli infissi in piccoli flash rossi e gialli che rimbalzano qua e là al passaggio delle auto in strada.
È così che Lindsey ricorda di essere nel pieno centro di quella che molti definirebbero "la città che non dorme mai"; e come lei, come New York, si sente brulicante di vita sotto pelle. Di colpo è viva, è sveglia e soffre d'insonnia. Sorride plastica, nervosa, fottendosene bellamente degli effetti della droga che ha somministrato a Levius. Si puntella su un gomito e passa la mano libera tra i capelli per renderli appena più vaporosi nell'ombra. Inspira, carezza le costole dolenti e poi decide di lasciar stare, di non provarci nemmeno. "Ho dormito troppo", pensa Lindsey, "che lo faccia lui adesso". Mette i piedi in terra, sul parquet che Raze non ha ancora fatto lucidare, e si stringe nel plaid. Lo sguardo vacuo, disinteressato, perso verso il cielo stellato che è al di là del vetro. Per un attimo sente come l'impulso di raggiungere la finestra per guardare giù come quando era nel Pearl District con le tante B; eppure non lo fa. Si ricorda che lei ha già il suo posto accanto a Raze e si riscuote, capendo che il cavallo bianco, Levius, sembra stia avendo un collasso alla sua destra. Non può permetterlo. "Non sono una ragazzina gelosa", si dice pallida. Così si lancia verso l'interruttore della luce e illumina a giorno metà del loft.
A distanza, Raze corruga la fronte. È seduto nel letto, con la schiena dritta, posata contro la testiera imbottita e le gambe nascoste sotto le coperte ben tese. In mano ha un libro letto per metà, che esula dalle strategie militari e spiega invece la filosofia dell'equilibrio di vita svedese. Accanto a lui, fioca, l'abat-jour dai tratti vintage che ha raccattato in un mercatino dell'usato a Chinatown, sembra scomparire nel nulla sotto i neon delle travi in legno. «Che succede?», chiede a gran voce. Non si alza nemmeno, ma aspetta delle spiegazioni lì dov'è.
Peccato che Lindsey non abbia voce per rispondere. La sente morta in gola, al centro del petto, bloccata dai suoi sensi di colpa. È lì, stesa tra le corde vocali intrecciate, che dice: "La criniera potrebbe morire, Raze", mentre lei apre e chiude la bocca. Così Lindsey spalanca gli occhi e ode un fruscio lontano, il rumore pesante delle coperte di Raze che si aggrovigliano su loro stesse; poi il susseguirsi dei passi, il ritmo dei talloni, l'incalzare del suo respiro affannato e il lato del libro che urta la pelle del divano dopo un piccolo arco nell'aria.
«Quanto ancora avevi intenzione di aspettare prima di venirmi a chiamare?», sbotta lui a mezza bocca.
Lindsey si ritira nelle spalle. «Mi dispiace», mormora, o forse non lo dice davvero e muove solo le labbra in un sussurro stentato.
Raze si avvicina. Ha gli occhi sbarrati e i battiti accelerati, il nervoso che gli corre nelle vene un secondo alla volta. Inizia quasi a sudare freddo, mentre Levius si contorce sul divano e scatta sotto il plaid che gli ha gettato addosso un paio di ore prima. «Puoi rispondermi...», la incita, ma non si volta, «Adesso sarebbe il momento giusto per farlo».
Lindsey deglutisce a vuoto. Rabbrividisce colpevole e serra le dita, si sbianca le nocche. Vorrebbe non farlo, ma alla fine reagisce d'istinto e dice: «Ho versato tutta la dose».
È così che Raze scatta: il volto bianco come un cencio, come la luna, e le palpebre sollevate, le sopracciglia corrugate, che quasi si scontrano tra loro dietro la montatura pesante. «Che cosa hai fatto?», chiede retorico, sull'orlo di una crisi di nervi, mentre la fissa sconcertato.
Lei si ritira di un passo e stringe gli occhi, si rende sorda. Sembra che si trovi dinanzi a un rimprovero di famiglia, seduta sulla stessa sedia cui la costringevano mentre puntavano il dito per dirle che doveva applicarsi di più, che l'insufficienza in chimica e biologia non andava bene; eppure è un ricordo così vago: una bolla nel cielo, delle sagome senza volti. Batte le palpebre ed è quasi certa che sia così, è quasi certa che quel loft non sia veramente un loft. Inspira ed è di colpo a Philadelphia, perché lui, Raze, è l'unica persona che le è rimasta. Così Lindsey pensa di aver fatto una stronzata, una di quelle grosse, e per un attimo vorrebbe scomparire sotto le assi del parquet. «Avevo poco tempo», si giustifica balbettante, «ho reagito d'istinto».
«Non m'importa quanto tempo avessi a disposizione», replica spicciolo, «non avresti dovuto farlo». Non aggiunge altro e, torvo, solleva il braccio per indicare il mobile alle spalle di Lindsey, prima di fare un veloce gesto con la mano.
Lei lo segue, ma è ancorata a terra e non si muove. «Non potevo centellinare la dose», tenta nervosa, con la voce che si affievolisce e quasi proviene da una dimensione che non le appartiene.
Raze ritorna a guardare Levius e, rapido, sposta il plaid per intervenire. «Allora non avresti dovuto somministrargliela», dice.
«Se non lo avessi fatto, ora non sarebbe qui».
«La criniera, o un cadavere?», la rimprovera pungente, «Perché c'è una bella differenza». Si china sul pavimento, solleva gli occhi e cerca Lindsey. "Che diavolo sta facendo?", si chiede. È in attesa, ha bisogno del suo aiuto, ma la trova ancora lì, ferma dove l'ha lasciata. Così, prima ancora di cominciare con la ventilazione meccanica su Levious, la fulmina. «Apri il secondo cassetto», dice, «prendi il Braun 1%, sbrigati».
Sembra un ordine alle orecchie di Lindsey. "E forse lo è", pensa: perciò si trascina lì e serra la mandibola, va in apnea per il panico. Ha le ossa che scricchiolano sotto i muscoli intorpiditi, le tempie che pulsano e le dita sudaticce; ecco perché il plaid non regge il colpo e le cade dalle spalle, scivola e finisce sul parquet. Ma lei non se ne cura, forse nemmeno se ne accorge, mentre apre il secondo cassetto indicato da Raze. Cerca la boccetta di vetro del Braun 1% e la scatola con le siringhe. Ne prende una ancora imbustata, sigillata e sterile, infine la stringe tra le dita e se la porta alla bocca per addentarne un angolo.
«Sbrigati»:
Questo si sente dire da lui. Ma non reclama e, anzi, tace. "È tutta colpa mia", pensa ancora, "solo colpa mia". Inspira a fatica, mentre le costole pungono e dolgono, mentre una spada invisibile tenta di entrarle dentro per strapparle l'anima, mentre il cuore batte così forte da distruggerle il petto. "Sbrigati", echeggia la coscienza. E Lindsey lo fa: getta in terra la plastica di protezione dopo averla strappata come un animale, assicura l'ago della siringa, infine affonda nella boccetta. Conosce già la dose: 10 ml. "Un buco nel braccio e finisce tutto", prende a dirsi.
«Sbrigati», ripete Raze. Preme sul costato di Levius, si affanna contro le sue labbra e sputa aria, tenta di farlo respirare a forza più e più volte.
Ancora quella parola: "Sbrigati", che è solo una delle tante, una di quelle che le rimbalzano in testa. La sente mentre si avvicina e biascica un: «Ecco». Ha in mano la soluzione, il modo per resettare il tempo e l'errore commesso all'Aeroporto LaGuardia. Con gli occhi fuori dalle orbite Lindsey si china accanto a Raze e afferra il braccio di Levius, cerca la vena più gonfia; tuttavia non riesce a penetrare nella pelle, perché subito lui scatta. E quasi le sfugge la siringa dalle dita, quasi trasale. Sente il sangue affluire alle ginocchia, perdersi dal viso, ed è certa di poter svenire da un momento all'altro, perché "Potrebbe venirgli un ictus".
Quello di Levius non è un gesto intenzionale, ma uno spasmo; uno dei tanti. Non pensa a niente ed è perso in chissà quale trip mentale. Sciolto nel sonno, dorme.
"Domani non ricorderà niente", pensa Raze, "Ma io sì". Lancia un'occhiata a Lindsey e, freddo, è quasi è sul punto di strapparle la siringa di mano.
Lei ha gli occhi lucidi, si morde il labbro inferiore e non dice niente. Afferra ancora il braccio di Levius e ritenta senza aspettare neppure un secondo: affonda con l'ago nella vena e tiene il suo polso ben fermo tra le ginocchia, impedendogli qualsiasi scatto. «Mi dispiace tanto», mormora.
«Lo so», sospira Raze. Stanco si avvicina al petto di Levius e rimane in ascolto per qualche istante: nelle orecchie ha un tamburo africano; perciò non risponde e, ansioso com'è, non aggiunge altro. Impreca a denti stretti, tra sé e sé, mentre la pazienza raggiunge il limite. Sente i talloni di Levius che scattano sul divano, contro il bracciolo ai suoi piedi. Dunque riprende con la respirazione artificiale, si dice: "Non posso perdere la criniera, non posso cercarne un'altra", e dà un ritmo ai polmoni che si ribellano, li fa alzare e abbassare come vuole lui fin quando questi non prendono a comportarsi normalmente.
Eppure Levius dorme ancora, è incosciente, quando Raze si scosta e si passa una mano sul viso, quando si scompiglia i capelli incollati sulla fronte, quando afferra gli occhiali posati in terra per inforcarli sul naso dritto.
Lindsey lo guarda dal basso, seduta, mentre lui si alza. Lascia andare il polso di Levius, che cade a peso morto nell'aria, contro il lato del divano, e socchiude le labbra. Vede camminare Raze sotto le luci a neon e lo segue con gli occhi fin quando non raggiungere la porta-finestra. Poi deglutisce, si tira in piedi e carezza le pieghe della gonna a fiori di Nadja, preme sull'interruttore, fa cadere il loft nel buio più totale e lo raggiunge lì, sulla scala antincendio, nella penombra della Grande Mela. Seduta accanto a lui, si sente dire:
«Sei stata davvero una sciocca, B».
«Mi dispiace».
«Non devi reagire d'istinto, devi pensare a ogni azione».
«Giusto».
«Ti ho insegnato a pensare».
«È vero».
«E l'addestramento come crisalide ti ha forse fatto disimparare?».
«No». Scuote la testa e si stringe le ginocchia al petto, posa la fronte su di esse, si nasconde.
Raze sospira ancora, le carezza la schiena in un moto di dolcezza. «Mi raccomando», mormora, «Se non vuoi farlo per me, allora fallo per la tua famiglia».
Lindsey mugola, ma non riesce a rispondere, perché vorrebbe rispondere che la sua unica famiglia è lì, accanto a lei, e che non ha bisogno d'altro. "Tu sei tutto", pensa, "Sei mio padre, mia madre, mio fratello, tutto". E deglutisce, si morde le labbra per non fiatare. Gli occhi lucidi, le guance rosse, annuisce contro il tessuto fresco.
«Fai in modo che la loro morte non sia stata vana, B», sussurra, prima di darle un bacio sulla testa.
Note: E bhe, che dire, ora attendo la risposta dell'RX come si attende il voto di una verifica a scuola, perché porca paletta, giuro che in questi giorni sto uno schifo. Tipo che se rido soffro, se respiro soffro, se muovo il braccio soffro... Madre sostiene che sia "un'insaccatura" e io sto lì a pensare "Ma che sono una salsiccia?". Adoro quando le persone prendono le parole e le usano a caso.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top