Capitolo 11

NY, 2020.

Lindsey non è preoccupata per la sua copertura: sa di essere una crisalide, un alfiere perfetto; e conosce la paura di Nadja, gliel'ha letta negli occhi in quella piccola stanza dalle finestre tappezzate con lo scotch e la carta da pacchi. "Tutti, dal primo all'ultimo, sono già sulla scacchiera", si dice, "e stanno giocando senza neppure saperlo". Le viene da sorridere lì dove si trova, seduta sul sedile panna di una delle vetture dei macchinisti; eppure si sforza di non farlo: rimane seria, con il gomito poggiato sul volante e il palmo che le sorregge il mento. Pensa al servizio di sicurezza dello Stato e quasi benedice il fatto che Nadja, terrorizzata com'era, abbia comunicato più volte con i suoi superiori, mentre lei era ancora incosciente. "Avrà detto qualcosa come 'Tutto regolare', no?", pensa, "Voleva prendere tempo, creare un alibi per tutti", e scuote la testa, "Mi chiedo se l'abbia data a bere anche a Raze, però". Afferra una ciocca di capelli rossi e la tira, l'allunga, se la passa sulle labbra: i ricci morbidi si tendono e assumono le sembianze di strani baffi irlandesi.

A distanza c'è Levius, che continua a caricare e scaricare i bagagli: è dalle prime luci del giorno che non fa altro e a stento si convince a fermare il tour de force in piccole pause per riprendere fiato e bere dalla sua borraccia. Verso sera, mentre il sole tramonta, si sente osservato; e lo è davvero, perché Lindsey, o B, Bishop, come diavolo si fa chiamare, non gli toglie gli occhi di dosso. Perciò deglutisce e sente il mondo gravargli addosso, pesargli sulle spalle, sul petto.

Il vento si alza, la pista d'atterraggio echeggia in un rombo forte e tutti, eccetto Levius, sembrano benedire le cuffie insonorizzate con degli schiamazzi e qualche risata.

Questo è il momento in cui Levius inizia a scherzare con gli amici, i tre colleghi di turno, ma non oggi, non mentre sua sorella lo punta come un avvoltoio pronto a divorare la preda sul ciglio della morte. Dunque solleva il mento sudato, fa scivolare una goccia salata dal mento e, con la fronte imperlata, le lancia un'occhiata di sguincio. Curvo in avanti, le mani umide e pallide, strette attorno ai manici di una grossa valigia, resta immobile e la vede ancora lì, su quello stesso sedile color panna, con entrambi i palmi premuti sulle orecchie e lo sguardo fisso. "È assurdo", si dice. Un brivido lo attraversa da capo a piedi, lo gela e gli solletica la nuca, mentre la pelle, intirizzita dal freddo, si accappona.

«Cosa c'è che non va, Levius?», chiede un collega, vedendolo diverso dal solito; o forse lo urla nel ruggito del motore vicino.

Lui non risponde, neanche si accorge di essere stato chiamato in causa. Guarda Lindsey, sente il petto vibrare d'ansia e pensa a quel nome: "Raze". Se lo ripete più e più volte, fin quando perde di significato e diventa una parola unica, un lombrico a più zampe: "razerazerazerazerazerazerazeraze"; eppure non giunge ad alcuna conclusione. "Lettere, sono solo lettere", così si dice, "le lettere del re bianco". Storce la bocca, continua a lavorare con due pugnali d'ambra addosso fin quando il turno non finisce e la luce dei lampioni prende a illuminargli la schiena, fin quando qualcuno non gli tocca la spalla sinistra e lo fa sussultare, fin quando i suoi occhi non si sgranano e la ragione viene meno. Allora scatta, va sulla difensiva e afferra il polso che si è azzardato a tanto, lo torce verso l'esterno. Con le narici larghe e il respiro corto, si volta e serra i denti rabbioso. Neanche vede: è un animale cieco.

Lindsey schiocca la lingua sul palato e d'istinto muove la gamba destra, dividendola dalla sinistra in una sorta di sgambetto elaborato, con il quale colpisce il retro delle ginocchia di Levius. «Non ho bisogno di essere quasi uccisa una seconda volta», dice, mentre lui cade all'indietro e finisce rovinosamente sull'asfalto.

L'urto lo fa gemere e imprecare di dolore, ma pare anche riportarlo sulla terraferma. «Non ho intenzione di ucciderti», biascica infatti, con la voce mozzata in gola e le pupille larghe.

«Disse l'uomo che la pugnalò».

Levius non si lascia sfuggire la nota canzonatoria di Lindsey, perciò s'impone il silenzio; tuttavia non riesce a frenare la lingua, che precisa: «Non ho davvero intenzione di ucciderti». Segue il frusciare delle pieghe della gonna di Nadja, poi si puntella sull'asfalto con entrambi i gomiti e posa un palmo al suolo, tenta di sollevarsi.

«Rifallo e ti stacco la testa», lo avvisa Lindsey, «Non ci vuole molto. Mi basta stringerti la faccia e poi tac, girarla da un lato: ci siamo capiti?». Le braccia incrociate al petto, la suola della scarpa premuta sullo sterno di Levius. Prova quasi pena per lui e si chiede: "Come può una simile nullità essere il cavallo di Raze?". Le viene da ridere, forse anche da mettersi le mani nei capelli per lanciare un grido d'allarme della serie: "No, qui c'è un fottuto errore!". E quando lo vede annuire lo lascia andare: sposta il piede in terra, non dice altro, o interrompe il progetto come vorrebbe; eppure gli dà le spalle, lo precede con un: «Dai, sbrigati, non perdere tempo a fare il bambino».

Levius ritrae il capo perplesso: ha l'espressione più basita del mondo, sembra quasi un cucciolo sul ciglio della strada e vorrebbe correrle dietro per chiedere delle spiegazioni; l'unico motivo per cui non lo fa è la certezza che assecondarla potrebbe portare allo stesso risultato. Dunque si alza con un balzo e, dopo essersi dato alcune pacche sui pantaloni, avanza spedito alle spalle di Lindsey per non perderla di vista. «Potevi anche aspettarmi», le dice a gran voce.

Lei non si gira neppure. Mugola un: «Va beh», e di nuovo, «Tanto mi saresti comunque venuto dietro».

In un attimo l'affianca e la punzecchia con un: «Cosa te lo fa credere?».

«Il fatto che mi credi tua sorella», dice, «questo basta e avanza per trascinarti ovunque, no?».

Levius vorrebbe obiettare, ma non lo fa, perché Lindsey ha ragione e negare servirebbe a poco di fronte a tanta evidenza. «Giusto», sbuffa controvoglia. Stringe le mani in due pugni chiusi nelle tasche e abbassa il mento, prima di uscirsene con una domanda a bruciapelo: «Non mi hai ancora parlato di lui, di Raze: chi è?».

Ma lei non risponde e, anzi, mantiene lo sguardo fisso in avanti per restare concentrata sui propri pensieri. "Dovrei portarlo da lui?", si chiede, "O è troppo presto?", e si arrovella pensando: "Forse dovrei evitare che infili il naso in qualcosa di scomodo, dovrei comunicare a Raze dove si trova la casa di Nadja Ramos e organizzare un incontro sicuro...".

«Chi è Raze?», insiste Levius.

Lindsey gli lancia un'occhiata di traverso, come stizzita per essere stata disturbata nel suo fitto flusso di pensieri. «Non avere fretta», dice, «lo scoprirai presto».

E quelle, alle orecchie di Levius, hanno proprio il suono di una minaccia; ecco perché si ritira nelle spalle e arriccia le labbra in una smorfia strana. Ha come la sensazione che Lindsey, quella che ormai si fa chiamare solo B e che pensa di essere una crisalide in borghese, voglia arrestarlo o qualcosa del genere. "E chi non lo farebbe dopo essere stato pugnalato a morte?", si chiede, "È un miracolo che si regga ancora sulle sue stesse gambe... Ma allora perché non mi ha già puntato la pistola alla testa? Perché non mi ha fatto scattare le manette ai polsi?".

Lei si pone pressoché le stesse domande, solo con qualche differenza: in conclusione vorrebbe legarlo come un salame e trascinarselo dietro, magari su un carretto, giusto per non sforzare troppo la schiena, e raggiungere il primo telefono pubblico. "Una chiamata veloce", così si dice mentre deglutisce, "Prima che io faccia la cazzata del secolo".

Poi, però, dopo aver stappato la borraccia, Levius se ne esce con una frase improvvisa: «Sei davvero una crisalide?».

A lei si gela il sangue nelle vene. «Certo», risponde automatica. Di certo non può dimenticare il faticoso allenamento fatto con le altre reclute, né i giorni trascorsi assieme a Raze per recuperare quelli persi nella scuola dell'obbligo. «Cosa ti fa credere il contrario?», lo incalza, prima di allungarsi verso di lui e rubargli la borraccia da sotto il naso.

Levius è sul punto di rimproverarla, ma si trattiene. Inspira a fondo e butta fuori aria calda dai polmoni. Dà le spalle alla pista di atterraggio, costeggia una navetta, mentre dice: «Non ho mai visto una crisalide parlare di un re bianco». Sente il motore sbuffare al suo fianco e sparisce in una piccola nuvola di fumo; quantomeno lo fanno le sue caviglie. È distratto, con lo sguardo perso sul finestrino della vettura, pronto a riconoscere l'autista, mentre Lindsey beve una sorsata d'acqua. «Le crisalidi non chiacchierano, non parlano quasi mai, e se lo fanno sono distaccate...», inizia, afferrando la borraccia dalle mani di Lindsey.

Allora l'autista si affaccia e, amichevole, solleva la voce per chiedere: «Vuoi un passaggio, Lev?».

Lui scuote il capo: non ha intenzione di tornare all'ingresso dell'Aeroporto LaGuardia. "Devo ancora parlare con Lindsey", si dice. «Fa niente, grazie». Solleva una mano in segno di saluto, e vede l'autista partire con la navetta piena di passeggeri. Finalmente riesce a bere; e butta giù abbondanti sorsate, si lascia colare l'acqua lungo il mento in rivoli trasparenti sotto lo sguardo perplesso di Lindsey.

«Siamo diretti ai Gate, dunque», dice lei, «come immaginavo». Incrocia le braccia al petto, lo guarda fin quando non ha terminato e poi scioglie l'intreccio, s'incammina per prima.

Levius vorrebbe negare, restare fisso dov'è fino a mettere le radici nell'asfalto, ma non è un albero e finisce con il seguirla dall'altro capo del mondo. Poco dopo, quasi senza accorgersene, ha già salito delle scale di metallo e varcato una soglia proibita grazie a dei macchinisti che conosce. E lì, nel corridoio del secondo piano, sfila controcorrente, vede le persone correre spaesate con i trolley stretti in mano. Anche lui è confuso, anche lui si chiede: "Come sono arrivato fin qui?". Perde la cognizione spazio-tempo e si ritrova seduto in un taxi, alle spalle del conducente, con le dita stranamente intrecciate a quelle di Lindsey. Dunque aggrotta le sopracciglia e non riesce a capirne il motivo. "Si è ricordata di me?", pensa, "O mi sta trattenendo?", continua. Non sa rispondersi, però non fiata e guarda solo il dorso pallido della mano di sua sorella. La fronte corrugata, mormora: «Dove siamo?», e ancora, «Dove stiamo andando?».

Lei si schiarisce la voce, scorge il brillante guizzo di curiosità del conducente attraverso lo specchietto retrovisore e lo fulmina. Sembra volergli dire: "Non impicciarti, continua a guidare", e poi si dedica a Levius. Gli carezza la fronte, i capelli rossi ancora sudati. «Non ricordi? Stiamo andando a casa».

«A casa?», ripete sommesso. Pensa a Nadja, alle sue labbra a cuore, e sorride. È certo che Salomone gratterà sulla porta blindata con entrambe le zampe, perciò emette un suono buffo, divertito, che scivola fuori dalle narici. Annuisce, si tranquillizza contro il sedile, e volta la testa a sinistra. «Sono proprio stanco, dannazione», borbotta, «oggi ho lavorato come un fottuto mulo».

Lindsey ridacchia. «Si vede». Torna a guardare lo specchietto retrovisore, poi stringe le palpebre e chiede: «C'è qualcosa che non va?».

L'autista mormora un: «Niente».

E lei risponde con un: «Bene».

Nessuno parla per i restanti minuti, fin quando l'auto gialla non accosta in una via di Brooklyn e Lyndsey non paga con la carta di credito di Levius.

Quello è il momento in cui l'autista, tenendo il palmo ben stretto sul freno a mano, se ne esce con una domanda scomoda: «Lo stai derubando, forse?».

Lindsey fa una strana espressione: le sopracciglia sollevate, corrugate, e le labbra tendenti all'insù in un sorriso contratto e arricciato; letteralmente divertita e perplessa. «No, perché dovrei», dice.

«Hai pagato con la sua carta di credito».

«Perché non ho la borsa».

«Esatto», la rimbecca.

«Non fare lo stronzo», schiocca in un singulto divertito, «non potrei mai derubare qualcuno: non io», precisa.

«E perché mai?», chiede l'autista, con un gomito sul poggiatesta. Gira di poco il collo e osserva Levius, che è sull'orlo dell'incoscienza. Lo indica con il capo, poi aggiunge: «Non mi sembra che il tipo stia così bene come vuoi far credere, bellezza».

Lindsey è stizzita. Vorrebbe afferrarli i capelli e spaccargli la faccia sul volante; ma non lo fa, perché Raze le ha vietato qualsiasi comportamento violento nei pressi del suo quartier generale.

«Di ragazzine come te ne ho viste tante, sai?», continua lui, «Irretiscono la gente, la drogano e gli spillano il denaro delle carte di credito: non è una novità qui a New York».

«Non potrei mai», prova a dire sottovoce, «Il mio lavoro m'impedisce di fare una cosa simile».

L'autista non ci crede. Sembra divertito, quasi. «Quale lavoro?», chiede provocatorio.

«Mi sto davvero giustificando?», sbotta in un picco di nervosismo, «Voglio dire, guardalo: ti sembra il tipo di uomo che ha soldi sufficienti per essere derubato da qualcuno? E io ti sembro un'adescatrice?».

«Se chiamassi la sicurezza di Stato, forse lo scopriremmo», taglia corto.

Lindsey fa stridere i denti tra loro, serra la mandibola e per un attimo s'impone il silenzio. Diventa una statua e, immobile, con le narici larghe, pensa di poter risolvere tutto con la diplomazia, magari rimandando il discorso e facendo parlare quel tipo con Raze. "Ma renderei solo la cosa più complicata", si dice, "esporrei la scacchiera agli occhi di un profano". Espira, sente i polmoni rattrappiti e la pazienza giungere al suo limite. «Io sono la sicurezza di Stato», sibila rabbiosa, mentre lui sgrana gli occhi, «e se non vuoi trovarti senza un braccio, senza una gamba, o senza palle, faresti bene a farci scendere e mettere in moto alla svelta», continua torva, dopo averlo afferrato per la t-shirt. «Capito?», sillaba.

Lui annuisce alla svelta, con una goccia di sudore che gli cola lungo la tempia sinistra, e allunga la mano verso il cruscotto. Sblocca gli sportelli, deglutisce pallido, infine vede Lindsey saettare fuori e trascinarsi dietro un Levius semi incosciente. "Una crisalide", pensa, "non è la prima volta che ne vedo una, ma non ne aveva affatto l'aria"; così afferra il cellulare indomito per segnalare l'attività sospetta a cui ha appena assistito e, suo malgrado, partecipato.

Solo allora lei è libera di alzare lo sguardo verso le stelle. Sospira e allenta la tensione che le pesa addosso da quando ha tirato via la GHB dal molare cavo per scioglierla nella borraccia di Levius. E a bassa voce, sotto al portone di Raze, dice: «Ci siamo quasi».

Note: Qualcuno ha detto che devo farmi benedire, perché ieri mi hanno investito con una bicicletta; però è una storia così assurda e trash che credo la userò per una scena ics in una storia ics, che scriverò in un giorno ics, con personaggi ics e ipsilon. No, non l'hanno fatto per errore; no, non l'hanno fatto per cattiveria; sì, mi sono fatta un male boia; sì, oggi vado a farmi un'RX. E poi boh, questo spazio sta diventando l'angolo delle mie sfighe personali.

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