Capitolo 1

NY, 2020.

Le finestre opache, sporche, annebbiate dal velo del mattino che s'innalza prima dell'alba e dal grasso della cena a base di pollo e patate al forno. Levius le guarda con disinteresse, di sfuggita, certo che prima o poi dovrà comprare delle tende. Sbuffa e si sposta una ciocca rossa dietro l'orecchio. "Non oggi", si dice. Pensa solo all'emicrania, quella fottuta emicrania che gli è scoppiata tirando su la testa dal cuscino, e si passa le mani sul viso, preme i polpastrelli sulle tempie, sente le ossa delle dita che gl'intorpidiscono la vista. "Al diavolo, sono in casa, a che serve vedere?". Per un attimo raggiunge il Nirvana e barcolla contro il corpo caldo di Salomone, il Bull Terrier bianco che dorme lì accanto. Infine, con le luci colorate che gli baluginano davanti, Levius si lancia sulla sedia di plastica della cucina. Sospira, percepisce le zampe di Salomone sulla coscia e storce la bocca infastidito. Lo accarezza veloce, allunga la mano libera verso i biscotti al miele e ne addenta uno per poi passarne un altro al cane, che zampetta via. E libero, finalmente, Levius si alza. Fa stridere la colonna vertebrale, le braccia, e raggiunge la macchinetta del caffè per un espresso. "Fintanto che Sal se ne sta buono sulla soglia della porta", si dice, "è meglio sbrigarsi".

«Che diavolo gli hai dato?», sbotta d'un tratto la voce di Nadja.

Levius rotea appena la testa, la cerca: è vicino, lo sa. Poi, con le palpebre socchiuse, la osserva scocciato. "Prevedibile", pensa, "la sua entrata in scena era prevedibile". «Una polpetta avvelenata», dice atono. Prova a non concentrarsi sulla sua pelle bagnata, olivastra, costellata di piccole gemme traslucide, ma soprattutto sull'asciugamano striminzito che continua a stringersi addosso.

«Non fare lo stronzo». Schiocca la lingua sul palato.

Levius torna a guardare la piccola montagna di caffè tritato. Lo pressa nel braccino, si schiarisce la voce. Afferra la tazzina vicina, si umetta le labbra, mormora: «Un biscotto, Nadja, solo un biscotto».

«Salomone deve mangiare il cibo per cani».

«Ogni tanto si può anche fare un'eccezione, no?».

«No: non voglio che si senta male».

Al suono di quelle parole, Levius trattiene uno sbuffo ironico, divertito. Lancia un'occhiata al Bull Terrier ed è quasi certo che stia abbassando le orecchie in un moto depresso, che voglia fuggire dalla rigida dieta imposta da Nadja; tuttavia decide di non insistere e alza le mani in segno di resa. Abbozza un sorriso, getta la spugna. «Ovvio», dice, «neppure io voglio che Sal stia male».

«Perfetto». Nadja prende posto laddove prima sedeva Levius e inizia a mangiucchiare un biscotto. «Sono buoni...», mugola a bocca piena, «dove li hai comprati?».

«Sotto casa», taglia corto lui. Preme il tasto dell'espresso e lo beve in un sorso. Neppure se lo gusta, così ne ricerca il sapore sul palato, con la lingua, per un paio di volte.

«Con "sotto casa" intendi al discount o dalla vecchietta del primo piano?».

«Cambia qualcosa? Se sono buoni, sono buoni».

Nadja afferra lo strofinaccio a quadretti bianchi e blu, lo batte sul lato della tavola sgombra e, pizzicandolo per gli angoli, si accerta che non contenga alcuna mollica di pane. «Cambia, sì: quella lì non mi è per niente simpatica», borbotta spronando le labbra in avanti. Si asciuga le mani, gli avambracci, infine le punte dei capelli che ancora grondano acqua dalle molle nere. Gli occhi bruni che si puntano su quelli ambrati di Levius, infila le dita tra i ricci e inclina la testa, sta per dire qualcosa, ma viene interrotta da un:

«Neanche le tre cassiere del discount».

Allora sbuffa, lascia lo strofinaccio in cima alla testa e smette di tirarlo a destra e sinistra. Storce la bocca in una smorfia e, a gambe accavallate, con le cosce esposte e umide, mentre l'asciugamano sale e quasi la rende nuda sotto gli occhi di Levius, dice: «Bene, come vuoi, hai vinto», in un tono lamentoso, scocciato.

Lui guarda Salomone. Si schiarisce la voce, punta il fondo della tazzina, poi la posa sul piano cottura e cerca di cambiare discorso. Con la gola secca, dice: «Visto che sei appena uscita dalla doccia, vuoi che sia io a portarlo a fare la passeggiata?». Accenna con il capo in direzione del cane e questo si alza sulle zampe, scodinzola, solleva il muso per annusare l'aria che sa di caffè.

«Sì, perché no», inizia Nadja, «sarebbe carino, Levius, grazie». Riprende a strofinarsi la matassa di molle nere e abbassa il mento, rabbrividisce, sente il freddo scivolarle sulla pelle nuda delle spalle e curva la schiena in avanti. «Torna prima che faccia sera», borbotta. E sotto gli occhi di Levius, come nulla, Nadja inizia a canticchiare il motivetto del carillon di sua madre.

Allora Levius fa un fischio e un gesto veloce. Vede scattare Salomone verso il corridoio e sorride, mentre lui scodinzola e gira su se stesso. Poi afferra il guinzaglio dal chiodo sul muro di destra e glielo allaccia veloce, ma solo per non avere rogne con la cosiddetta padrona. Raggiunta la porta tira via le chiavi dalla tasca dei jeans: le infila nella toppa ben chiusa, gira fino all'ultimo scatto. Quando esce, Levius è preceduto da Salomone, che guardingo digrigna la mascella e restringe i piccoli occhi neri. «Buono...», lo ammonisce, «buono, buono, non c'è nessuno!».

Ma Salomone non lo ascolta, si affanna in avanti e tira il guinzaglio, fa tendere la corda nel palmo di Levius, borbotta un ringhio tra i denti. Sbuffa infastidito, vuole andare a correre. Si guarda indietro, cerca di farsi capire, e poi torna a fissare le porte degl'inquilini del terzo piano.

Levius sospira. Esasperato, dice: «Va bene, ho capito». Scuote la testa, batte le palpebre, chiude bene Nadja in casa; "Per sicurezza, non si sa mai", pensa. E dopo aver abbandonato il tappeto con scritto "welcome", dopo aver sceso le scale, con ancora lo zampettare di Salomone nelle orecchie, Levius si lascia andare a un gemito rilassato. Le mani dietro al collo, la schiena rilassata e ancora curva come un'iperbole, le braccia simili a due archetti di violino, infine la bocca aperta in uno sbadiglio indecoroso. Sì, ha decisamente bisogno di un secondo caffè! Se ne rende conto da solo, tant'è che per un attimo ha voglia di tornare indietro per caricare la macchinetta dell'espresso. "Non succede nulla se rimando la passeggiata con Sal, no?", si chiede.

Il cane trotterella sul posto, fa avanti e indietro per quanto possibile. Legato com'è, annusa tutti gli angoli più prossimi al portone del palazzo.

«Possiamo salire cinque minuti?», gli chiede Levius, come se realmente Salomone possa rispondergli. «Solo cinque minuti. Per favore, Sal, dai...».

E lui solleva perfino il muso, lo osserva, sembra incuriosito. Poi si volta, sfodera i denti e ringhia al nulla, facendo corrugare la fronte a Levius. Le zampe ben puntate, i muscoli guizzanti, s'incammina lungo il marciapiede e ignora tanto il fatto che il guinzaglio sia corto quanto che non sia il momento d'impuntarsi.

«Ehi, Sal», sbuffa Levius mentre cerca di tirarlo a sé. Non vuole fargli male, ma neppure cedere ai capricci di un cane: e chi si abbasserebbe a tanto? È in quel momento che un pianto gli giunge alle orecchie.

Nel riverbero della luce del lampione che fende la nebbia del mattino, poco dietro l'angolo svoltato da Salomone, c'è una ragazzina che trema e singhiozza. È piegata in avanti, ha i palmi delle mani schiacciati contro il muro, sui manifesti strappati, sulla carta sporca e gli strati di colla, gli spruzzi di vernice. Non fiata, non ci riesce, ma serra i denti al di là delle labbra per imporsi il silenzio.

Salomone punta verso di lei e arriccia il naso. Di tanto in tanto guarda la crisalide alle sue spalle, l'uomo con la divisa grigia, che continua a palparle l'addome con la scusa di una perquisizione; e sprona Levius in avanti, tira il guinzaglio fino a renderlo una linea retta: ha voglia di attaccare.

Levius non riesce a tenerlo fermo, ma ci prova, perché agire quando il sole è già alto comporta dei rischi. Beninteso che vorrebbe prendere a pugni in faccia la crisalide, magari anche spararle un buco in fronte per ridurre il numero di aguzzini nel quartiere. Deglutisce e pensa: "Non posso, non ho l'automatica". In un attimo d'amarezza inspira a fondo e cerca la calma perduta.

«Cos'ha da guardare?», sbotta la crisalide. Sembra guardare verso Levius, ma non si può dire con certezza, perché ha il casco in testa e la visiera nera abbassata, segno evidente che è scesa da poco da una motocicletta di pattuglia. «Allora?», insiste.

Salomone abbaia indispettito, si piazza davanti Levius; e lui tenta di tenerlo fermo, di farlo retrocedere.

Dice: «Nulla, non sto guardando nulla», ma mente. Ha la testa piena di pensieri Levius: immagina come atterrare la crisalide, come farla azzannare alla gola da Salomone e ancora come nasconderne il corpo fino a sera, quando incontrerà gli altri del gruppo; tuttavia è in quel momento che batte le palpebre, che sgrana gli occhi, che quasi perde un battito, perché la ragazzina si libera con una forte gomitata e un'imprecazione.

«Maledetta te e maledette tutte voi crisalidi!», ringhia vittoriosa. Si divincola, si abbassa e sguscia via, scappa lungo il marciapiede. A grandi falcate, con gli occhi lucidi, dimentica la busta della spesa che ha fatto sottobanco e neppure la guarda, ora che è riversa lì in terra. Ma non riesce a svoltare l'angolo: un colpo al centro della schiena la fa vacillare, la costringe con le ginocchia in terra e le macchia di rosso il centro della camicetta bianca.

Levius rimane senza parole, con la bocca schiusa e le labbra secche. Serra le dita attorno al guinzaglio di Salomone fino a sbiancarsi le nocche e respira a fondo per non infierire sulla crisalide; e vorrebbe farlo, eccome se vorrebbe vorrebbe farlo, perché sente:

«Quella ragazzina impudente cercava altro cibo». La crisalide si piega sui calcagni, verso il sacco di farina che si è aperto e che sporca il marciapiede. Lo pungola con la canna della pistola e schiocca la lingua sul palato. «Altro cibo, capisce? Non potevo lasciar andare una ladra», ridacchia rivolgendosi a Levius. «Eppure lo Stato ne consegna una razione sufficiente per ogni famiglia...».

«Se fosse sufficiente, quella povera anima non sarebbe uscita a cercare altro cibo», si lasciò sfuggire Levius tra i denti.

«Come ha detto?», lo incalzò.

Per un attimo Levius tentenna. Vede la crisalide sollevarsi in piedi e sente un brivido lungo le braccia, mentre Salomone ringhia e tira, desideroso di attaccare per primo. «Ho detto che è difficile da credere che la razione basti per la famiglia di quella ragazzina», inizia piano, «altrimenti non sarebbe uscita a cercare del cibo sottobanco».

«Giusto», concorda. «Ma forse adesso basterà».

Quella punta di cinismo fa vibrare i nervi di Levius, tanto che deglutire gli risulta a fatica. Non riesce a sorridere, non riesce a respirare. Sente un groppo in gola mentre annuisce. Dà le spalle alla crisalide e nemmeno la saluta, ma Salomone s'impunta e raschia le zampe sull'asfalto, abbaia.

«Tenga a bada il suo cane», lo avvisa, «altrimenti farà una brutta fine».

«Il cane?».

«Entrambi».

Con la voce ovattata della crisalide che gli riempie le orecchie, Levius dà uno strattone al guinzaglio e borbotta un: «Andiamo, Sal, basta...». Lo sente ringhiare, poi se lo trascina dietro e, con le sopracciglia aggrottate, torna verso il portone del proprio palazzo, fa il giro opposto. Dinanzi a lui, ancora l'immagine della ragazzina e del colpo di pistola. Ha i nervi tesi tanto quanto Salomone, che fa i suoi bisogni solo per automatismo fin quando Levius non viene strattonato per una spalla verso un vicolo; allora ringhia e, libero dal guinzaglio, gli corre dietro.

«Che diavolo fai, Levius?», chiede Esteban, il capo del gruppo. Lo tiene fermo, con una mano sul petto, e lo schiaccia contro il muro alle sue spalle. Gli occhi ridotti a due fessure nocciola, i denti esposti e le narici larghe in un moto di nervoso. «Stavi per farti ammazzare da una crisalide di passaggio, te ne rendi conto?», sbuffa rabbioso, muove le ciocche nere che gli si attaccano sulla fronte e sulle guance. «Per cosa, poi?».

Levius scuote la testa. La nuca che friziona sul manifesto del coprifuoco, che gli pulsa per via dell'emicrania, che desidera battere più e più volte contro la cortina. «Non dire stronzate».

«Le stronzate sono quelle che fai tu».

Salomone si siede in terra placido e osserva Esteban come al suo solito: tranquillo, con le orecchie attente e il muso basso. Non ha paura di lui, perché sa che è un amico, una brava persona, anche se Levius si lamenta e tenta di sfuggirgli.

Non a caso dice: «Quella merda ha ucciso una ragazzina».

«D'accordo, e...».

«E vorrei che facesse la sua stessa fine».

«È un po' troppo presto per fare l'eroe, non credi?».

«Credo che tu sia fastidioso», borbotta Levius, con il naso a pochi centimetri da quello di Esteban. Lo arriccia, solleva il labbro superiore in una smorfia e se lo scrolla di dosso, muove un paio di passi nel vicolo. «Tieni alle leggi di questo mondo di merda più che alla vita delle persone».

«Altre stronzate», precisa sollevando le sopracciglia. «Se ti tengo a bada è solo per farti arrivare vivo fino a domani, per farti vedere un'altra alba, Levius». Ghigna. «Ti piace il sole?».

Non risponde. Una strana smorfia gli si dipinge in viso mentre si china a raccogliere il guinzaglio di Salomone, poi fischia, dice: «Dai, alzati».

E il cane torna dritto sulle sue zampe, scodinzola, lo guarda in silenzio prima di puntare Esteban con fare curioso.

«Mi piace molto di più la notte, quando le crisalidi si schiudono».

*

Attentato alla sede della Terza Giurisdizione: sono venti le crisalidi che hanno perso la vita nel tentativo di proteggere la Città e la Patria.

Note: Oggi è stata la giornata dei bug, perciò l'ho presa molto alla larga prima di pubblicare questo aggiornamento. Che dire, è un inizio strano, non trovate? Le sette di sera. Se credessi nel destino, non la prenderei bene. Volevo che fosse mattina... Tutto sommato siamo qui a costruirci il domani con le nostre mani, perché con "La crisalide incompleta" è proprio quello che voglio comunicare. Buon viaggio nel mio delirio, ragazzi!

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