👹6 - Il figlio dell'Ombra


Penisola di Iriba. Regione di Mirŭjin.

Dodici cicli nel passato.

Dahon si mosse guardingo verso il boschetto di faggi alle spalle della sua casa, una costruzione di legno e pietra a un piano, cinta da un basso muretto a secco. Gli occhi socchiusi e ogni senso teso, l'Aku percepiva la presenza viva del bosco e dei suoi abitanti.Una a una escluse tutte le altre forme di vita, focalizzandosi solo sulla sua preda: il figlio.

Ravi, compagna e madre, assisteva divertita alla sfida tra padre e figlio seduta sul muretto. Con un gesto dolce si accarezzò il pancione: poche lune e la famiglia si sarebbe allargata.

"Impara prontamente" pensò Dahon pieno d'orgoglio. Subito dopo l'angolo della bocca si piegò in un sorriso divertito. "Nondimeno, la gioia che prova in questa sfida, lo tradisce."

Avanzò sino al margine del boschetto senza produrre il minimo rumore. Le sue capacità però, le stesse che avvertiva nel suo primogenito, andavano ben oltre. Si fermò e rilassò ogni muscolo. La respirazione poco alla volta divenne lieve e profonda, il battito del cuore rallentò.

Nonostante tutti i cicli insieme, Ravi non riuscì a trattenere lo stupore: a pochi passi da lei c'era il compagno, la figura non troppo alta ma slanciata, i capelli cremisi tagliati corti. Eppure era come guardare un'immagine, un riflesso, qualcosa di non vero. Perché se avesse chiuso gli occhi, ogni altro senso le avrebbe detto che ai margini del boschetto non c'era nessuno. E così sarebbe stato per quasi tutti gli Aku.

Ombre.

Così erano chiamati gli Aku capaci di rendere invisibile la loro presenza anche ai loro stessi simili.

Era un talento non comune, che li rendeva i candidati ideali a diventare le guardie del corpo delle figure più importanti della comunità, a partire dalla Guida. Essere un'Ombra era un privilegio che veniva però pagato caro: una vita votata alla persona che si era chiamati a proteggere, segnata dal sacrificio e dalla solitudine, almeno fino al termine dell'incarico.

Dahon si voltò e sorrise alla compagna. Lui era stato fortunato, Ravi aveva atteso il suo ritorno nonostante fossero passati quindici cicli dal giorno in cui si erano scambiati la promessa a quello in cui, finalmente, era davvero tornato da lei. E se Ombre nascevano nella stessa famiglia a distanza di diverse generazioni, in quella di Dahon, negli ultimi cicli, si erano susseguiti: suo nonno, sua sorella, lui e infine suo figlio.

L'Aku si avvicinò ai cespugli in cui si era nascosto il suo primogenito.

"Per tuo nonno e per me essere un'Ombra è stata una scelta compiuta in piena libertà. Tua zia invece ha scelto di non mostrarsi e di essere una madre prima ancora che un'Ombra. Tutti l'appoggiammo, in fondo c'ero già io al servizio della comunità" ricordò, parlando al figlio con il pensiero. "Così sarà per te. Quando sarai adulto, starà a te decidere se rivelarlo o no, e come utilizzare questo tuo dono. E la famiglia sarà al tuo fianco."

Arrivato alle spalle del bambino si rese repentinamente visibile ai suoi sensi.

Ryusei si voltò, gridò per lo spavento e subito scappò via, accompagnato dalle sue stesse risate e dall'eco di quelle del padre.

Regione di Mirŭjin.

Nove cicli nel passato.

«Vieni con me, Ryusei» gli disse suo nonno.

Il bimbo seguì l'anziano Aku in una casa un po' isolata, suddivisa in due ali collegate da un pergolato e circondata da un giardino ricco di piante e di molte strane strutture.

«Meridiane segna tocchi» gli spiegò suo nonno.

Entrarono nel più piccolo dei due edifici, e il contrasto tra il pieno sole dell'esterno e la penombra all'interno fece strizzare gli occhi a Ryusei, che si fermò sulla soglia.

«Vieni. Io mi chiamo Yeou» lo accolse una donna dai capelli corti e ricci, rossi come un tizzone.

«Io sono Ryusei» rispose lui strofinandosi gli occhi. Timidamente mosse qualche passo in quel luogo che vedeva per la prima volta e che gli si apriva davanti come un mistero.

«Ti piace?» gli chiese la donna.

Il bimbo annuì, incapace, nonostante fosse a bocca aperta, di proferir parola.

C'erano due banchi da lavoro pieni oggetti e strumenti che non conosceva, altre cose strane erano appese alle pareti. Tutto l'ambiente era pervaso da un odore insolito che la sua testa definì "olioso".

Suo nonno rise sommessamente. «Passano i cicli, ma l'effetto di questo luogo rimane immutato.»

Ryusei si avvicinò a uno dei banconi da lavoro che occupavano il locale. Mani dietro la schiena studiava con curiosità un meccanismo metallico smontato.

«Sai cos'è?» gli domandò la donna.

Lui negò con la testa: non ne aveva proprio idea.

«È la serratura di una delle porte interne dell'Istana Putih. Sto cercando di migliorarne la sicurezza.»

«La serratura di una porta?» domandò stupito allungando una mano.

«Ryusei» lo richiamò suo nonno.

Subito le mani tornarono dietro la schiena.

«Ti piacerebbe capire come funziona?» gli domandò la donna.

Assentì con energia: ai suoi occhi quegli ingranaggi, quei perni e quelle leve avrebbero potuto svelare il segreto del ciclo delle lune nel cielo.

«Non disturberà?» le domandò l'anziano.

«No, tranquillo.»

"Se diventerà un'Ombra, chi può preventivare di quali abilità avrà bisogno in futuro?" rifletté guardando il nipote. «D'accordo».

Ryusei sorrise: «Grazie nonno!»

Regione di Mirŭjin. Boschi alle spalle dell'Accademia.

Mezzo ciclo prima dell'arrivo di Akami.

I dieci allievi di primo rango erano seduti a semicerchio. Erano stanchi, sporchi e avviliti. Daalee li osservava inespressivo, mentre al silenzio dei giovani Aku faceva da contrappunto l'allegro vociare delle creature del bosco.

"Sembrate deriderci" considerò Ryusei lo sguardo rivolto i rami dell'abete alle sue spalle.

«Quale esito attribuite alla vostra prova?» domandò Daalee. «Un fallimento? Un successo?»

La risposta s'innalzò dalle espressioni degli allievi come un coro muto: un totale, indiscutibile, catastrofico fallimento.

«Nuovamente in errore» li bacchettò il maestro.

Nei giorni precedenti, Daalee aveva più volte suggerito ai suoi studenti quanto fosse importante, per vedere davvero ciò che li circondava, tenere la mente aperta. Messi alla prova, i giovani si erano comportati come tutti gli allievi di primo rango: sordi, ciechi e pieni di quelle sicurezze che, invece di essere la loro forza, erano state la loro trappola.

«Ancora una volta considerate gli eventi da una sola prospettiva» riprese Daalee. «Rigidità, pregiudizio, assenza di umiltà. Questi sono il solo, vero e unico fallimento.»

"Occhi al cielo, sbuffi trattenuti, sguardi bassi e abbattuti... tutto come previsto" considerò Ryume, presente come guida. "Non fummo solo noi a sbagliare la prova, dunque..." si consolò.

«Alzatevi e rientrate» ordinò Daalee agli allievi. «Superfluo precisare che non farete parola di quanto accaduto, così da non togliere ai vostri compagni l'opportunità di mettersi alla prova» aggiunse con tono neutro ma carico di autorità.

"E di fare la nostra stessa figuraccia..." previde tra sé e sé Ryusei.

Arrivati in mensa, furono accolti dagli sguardi ironici degli allievi di secondo rango.

«Assumere un diverso punto di vista. Se il maestro l'avesse ribadito ancora, mi sarei messo a gridare» confessò Fiteny torturando un pezzo di carne del pranzo.

Alcuni compagni fecero eco al suo malcontento.

Sul volto di Ryusei lampeggiò un'espressione da vera canaglia, subito nascosta. "Due giorni al rientro del maestro... nessuno metterà piede nella sua stanza... stanza che confina con il deposito della biancheria e la scala... Oh, quante cose si possono fare in due giorni!"

A fine pranzo ebbero l'ordine di andare nelle loro stanze e riposare.

«Dove vai?» gli domandò Fiteny vedendo che imboccava la scala per il secondo piano.

«Credo d'aver dimenticato qualcosa in laboratorio» abbozzò lui.

«Ah, va bene» rispose l'altro senza dar peso all'assurda motivazione.

"Beata indifferenza!" esultò Ryusei.

Arrivato al secondo piano, entrò in un laboratorio e in un magazzino. Mentre la sua mente pianificava, le mani prepararono ciò che gli serviva.

Rientrato nel suo alloggio sedette a gambe incrociate sul letto e rivide il da farsi. Un attimo dopo si lasciò cadere su un fianco, sul viso l'espressione imbronciata di un bambino deluso. "Che disdetta avere solo due notti..."

Quella sera, appena la campana suonò la ritirata in stanza, si mise all'opera.

Inudibile e invisibile al giro di vigilanza, recuperò le cose dal magazzino e le portò nel deposito della biancheria. Nascose che non avrebbe usato e portò con sè un piccolo secchio riempito della sostanza che aveva preparato in laboratorio,  un grosso pennello e alcune funicelle.

"Quando venni per restituirgli il libro, non immaginavo certo a cosa sarebbe servito ricordarsi la disposizione dei mobili" ammise con un sorriso sguincio.

Al centro della stanza c'era un tappeto ocra su cui erano poggiati un robusto tavolo quadrato e due sedie, nella parete alla sua sinistra una finestra con tenda e il letto, in quella opposta un armadio a un'anta e due librerie alte circa quanto lui.

"Librerie fissate alla parete" scoprì con disappunto.

Fece scorrere la tenda, lasciando entrare la luce delle lune: quella e i suoi occhi da Aku e da Ombra, avrebbero garantito la vista di cui aveva bisogno. Si tolse le scarpe e salì in piedi sul tavolo. Allungando la mano, scoprì che per arrivare al soffitto doveva stare quasi in punta di piedi.

"Perché sei così basso, pulcino?" si rimproverò usando il nomignolo con cui i suoi compagni lo prendevano in giro per la sua costituzione.

Preso secchio e pennello, risalì sul tavolo e iniziò a stendere il liquido sul soffitto.

"Chissà cosa direbbe Daalee se sapesse che le sue lezioni sono servite anche a questo..."

Finì di spennellare e scese da tavolo. Tolse il materasso dal letto, arrotolò le doghe della rete e sollevò la struttura.

Mancava un tocco alla metà della notte quando udì qualcuno camminare nel porticato.

"Thay" lo riconobbe.

Sollevò gli occhi verso il soffitto e immaginò cosa avrebbe visto se fosse entrato dalla porta in quel momento: un allievo di primo rango, in piedi su un tavolo, con la struttura di un letto sollevata sopra la testa.

Il battito accelerò per la tensione. "Quale scusa potrei astrologare?" si domandò. "Sonnambulismo? Esistono Aku sonnambuli? Mah, speriamo di non doverlo scoprire." Chiuse gli occhi e fece quanto suo padre gli aveva insegnato per rendersi invisibile ai sensi degli altri Aku: si concentrò sul respiro, visualizzò il cuore e mentalmente lo guidò a rallentare le pulsazioni sino al minimo che sapeva di poter gestire senza collassare.

"Evita esperimenti. Quantomeno stasera" si disse.

I passi proseguirono oltre la stanza.

Tre tocchi all'alba si guardò attorno soddisfatto. "Può bastare. Il restante questa sera."

E così fece.

Completato il lavoro, scrisse un biglietto con la mano sbagliata e lo fissò alla tenda. Diceva: l'effetto terminerà approssimativamente tra un paio di giorni.


Mattina.

Daalee e il secondo gruppo di allievi rientrarono poco prima del tocco del pranzo.

I compagni li aspettavano affacciati dal porticato al primo piano, e al loro ingresso bastò uno scambio di sguardi per capire che l'esito della prova era stato lo stesso per tutti.

Thay raggiunse Daalee, rimasto a osservare gli studenti che, spalle basse, salivano le scale diretti alle loro stanze.

«Ogni volta mi domando: se dicessi loro quanto sia più importante avere dubbi che non certezze, coglierebbero finanche in minima parte il senso delle mie parole? La risposta è, immancabilmente, la medesima: no.»

«È la più grande tentazione di tutti noi maestri: essere buoni. Scegliamo invece di essere giusti, e loro ci considerano cattivi» rispose Thay.

«Così come facemmo noi al nostro ingresso in Accademia» ricordò Daalee, prima di allontanarsi.

Il maestro di botanica percorse il porticato sino alla sua camera. Aprì la porta... e la richiuse.

Vedendolo ricomparire nella corte, Thay gli andò incontro.

«Ritengo che qualcuno abbia infine dato ascolto alle mie parole. E le abbia messe in pratica in modo quanto mai singolare» lo informò Daalee.

Quando Thay entrò nell'alloggio, non poté nascondere del tutto il divertito stupore.

«Lo stesso per me: sorpresa e ilarità. Davvero non riesco a esserne irritato» condivise Daalee.

Tutto nella camera era stato ribaltato.

Ogni cosa che era stata appoggiata al pavimento ora pendeva dal soffitto: il tappeto era steso sopra le loro teste, il tavolo e le due sedie appoggiate sopra come normale che fosse. Così il letto, con materasso, coperte e cuscino, tenuti fermi da sottili funi.

Daalee sfiorò la spalliera della sedia appesa sopra la sua testa. «Vien da pensare d'essere in piedi a testa in giù. Un indiscutibile cambio di prospettiva.»

«Notevole» commentò Thay. Si avvicinò alla tenda. Il bastone di sostegno era stato fissato al pavimento e il tessuto fermato al profilo della finestra così che rimanesse teso con un effetto molto simile al normale. Staccò il messaggio e lo consegnò al collega.

«L'unica nota stonata sono le librerie» disse Daalee. «Immagino che essendo fissate alla parete, toglierle avrebbe generato troppo rumore.» I due scaffali, infatti, erano rimasti al loro posto. Non così i libri, tutti rigorosamente appesi sotto in su.

Daalee uscì e tornò dopo poco accompagnato da Dvaar e Nisarga.

«Com'è possibile non essersi avveduti di nulla?» si domandò la donna.

«Abbiamo un'Ombra. Una particolarmente dotata» considerò Dvaar.

«Chissà che non sia l'Ombra dell'Accademia» ironizzò Thay.

Vi era una storia che si tramandava da molti cicli tra gli allievi dell'Accademia: quella di una presenza che vagava tra le sue mura a volte per far scherzi, altre per punire qualcuno, altre ancora per mettere alla prova gli allievi o sfidare i maestri. Si era così diffusa la credenza che fosse lo spirito dell'Accademia stessa, lasciato lì dai draghi per vigilare. I maestri sapevano che, più ragionevolmente, si trattava di un allievo assai dotato. Restava però irrisolto un duplice mistero: la sua identità, e come fosse possibile che questi fosse in Accademia da quasi ottanta cicli, ossia molto più di quanto qualsiasi allievo o maestro fossero mai stati entro le sue mura.

«Se è lei, non mancherà di apparire di nuovo. Quanti cicli sono passati dall'ultima volta?» domandò Daalee.

«Circa una ventina» rispose Thay.

«Indagate con discrezione e tenete i sensi aperti. Non sta a noi costringere un'Ombra a rivelarsi, salvo il suo agire non ci obblighi a segnalarla» ricordò loro Dvaar.

«Mi piacciono le sfide» ammise Nisarga.

Daalee afferrò la testiera del letto e tirò verso il basso, ma quella non si mosse. «Mi servirà un giaciglio per le prossime notti» ammise, la voce velata di divertimento.

Regione di Mirŭjin. Accademia.

Due giorni prima dell'arrivo di Akami. Tre tocchi all'alba.

Ryusei s'infilò dentro la stanza, richiuse la porta e rimase in ascolto.

Poco dopo qualcuno passò nel porticato e proseguì oltre.

"Nion" lo riconobbe dall'andatura.

«Che caldo... ma è già estate?» brontolò Konran-Jun. Scocciato, buttò via lenzuolo e coperte. Allungò la mano e non trovando nulla protestò: «Che fine ha fatto il tavolino? Dov'è il bicchiere?»

Ryusei lo prese e lo mise sulla traiettoria della sua mano.

«Ah, eccolo...» biascicò soddisfatto prima di trangugiare tutto il liquido in un sorso. «Che schifo di sapore...»

Il bicchiere gli scivolò dalle dita, e Ryusei lo afferrò al volo prima che cadesse a terra. Mentre lo riappoggiava sul ripiano, Konran-Jun sollevò la testa e lo guardò. «Padre, perché hai spostato la finestra di camera mia?!» Detto questo ricadde sdraiato e si addormentò in preda alla febbre.

Ryusei sollevò le sopracciglia divertito.

Di rientro dall'osservatorio, aveva notato il giovane seduto presso il muro di cinta e, prima che Nion gli facesse scudo con il corpo, era riuscito a percepirne il profondo malessere e l'umore umiliato e furibondo.

Conosceva bene la sensazione.

Pulcino...

Scovare gli indizi e i colpevoli era stato sin troppo semplice. A tradire tutti e quattro i responsabili erano stati i due novellini che, soddisfatti della loro bravata, avevano finito per rivelargli anche i nomi dei compagni di secondo rango coinvolti.

«Scherzo per scherzo» sussurrò a Konran-Jun. «Chi di melma colpisce, di melma perisce.»

Lui rispose con un grugnito di approvazione.

Rientrò nella sua stanza e si preparò.

Kahit, il suo compagno di camera, continuò a dormire, inconsapevole di tutto.

Sarebbe potuto entrare in azione subito, ma significava coinvolgere Nion, responsabile della vigilanza. E lui non aveva nulla contro quello studente che, nonostante l'intransigenza, lo aveva sempre trattato con lo stesso rispetto che avrebbe riservato a un suo pari.

"Questa è davvero una sfida..." si disse mentre sentiva montare l'eccitazione.

Inspirò e riprese pieno controllo di battito e respirazione. "Prudenza..." si ammonì.

Non appena Nion ebbe dato le consegne a Dvaar, si mise all'opera.

"Tanto da compiere, così pochi tocchi per agire..." ironizzò.


Poco più di un tocco all'alba.

Rientrò in camera e si spogliò. Kahit, il respiro regolare del sonno profondo, era nella stessa posizione di quando era uscito.

"Saresti orgoglioso di me, padre. Lavoro compiuto e nessuna traccia... Beh, a onor del vero, di tracce ce ne sono finanche troppe" sorrise tagliente.

Sdraiato a letto, un braccio sotto la testa e occhi al soffitto, ammise: "Ancorché, quando mi dicevi che da grande avrei deciso uso fare delle mie abilità, non penso tu intendessi questo..."

Chiuse gli occhi e si concesse un po' di meritato riposo.


Corte.

L'allievo che avesse messo il naso fuori dalla sua camera un tocco all'alba, avrebbe notato una scena singolare: i cinque maestri dell'Accademia fermi a parlare presso il ginkgo.

«Interessante» considerò il Primo Maestro.

«Concordo» sussurrò Thay.

Una scia d'impronte fangose provenienti dal parco, attraversata la corte, imbrattava la scala nell'angolo a ovest della costruzione.

I cinque maestri imboccarono la scala in assoluto silenzio, quasi che a salire i gradini di legno non fossero esseri in carne e ossa ma spiriti.

Le tracce li guidarono fino a due camere del primo piano: una nel porticato sud-est, l'altra in quello a sud-ovest.

Tārā aprì la prima porta, dove due allievi di secondo rango dormivano beatamente. Ai piedi dei loro letti, scarpe infangate e melma verdastra; così i pantaloni, ordinatamente piegati sulla spalliera delle sedie. Nella seconda stanza, che ospitava due futuri allievi, la stessa scena.

Usciti dalla camera, l'attenzione dei maestri fu richiamata da un rumore che proveniva dal fondo del corridoio.

Thay aprì la porta della stanza di Konran-Jun. Dopo aver scambiato un'occhiata d'intesa con Tārā la richiuse, e tutti scesero di nuovo nella corte.

Giunti in ombra al ginkgo, Dvaar ruppe l'impenetrabile silenzio che aveva accompagnato ogni loro movimento. «Andiamo nell'Ufficio dei Maestri.»

«Verifico le tracce» propose Nisarga.

«Proceda e ci raggiunga.»

Quando furono nell'Ufficio dei Maestri, Thay domandò al collega: «Daalee, Nion le ha segnalato qualcosa di anomalo al cambio?»

«Nulla. E durante il mio primo giro d'ispezione non ho notato impronte. Sono apparse nel corso dell'ultimo tocco. Le ho ripercorse a ritroso sino allo stagno di depurazione, dove ho rinvenuto tracce confuse di almeno quattro, cinque paia di calzature e una di piedi nudi. C'era odore di sangue. Alcune conducevano nella stalla. Sotto poca paglia ho trovato questi.»

Sul tavolo erano stati appoggiati una casacca pesante color crema, un paio di scarpe nere.

Thay riconobbe il taglio degli abiti. «Konran-Jun.»

«Nondimeno non è lui l'artefice delle impronte nella corte e nel porticato. La sua temperatura è così alterata che non credo sia nemmeno in grado di sollevarsi seduto» intervenne Tārā.

Nisarga rientrò dal sopralluogo. «Qualcuno era dentro lo stagno e ne è uscito strisciando. Si è ferito e ha proseguito sino al tunnel dei tassi. Lì la traccia scompare, confusa in quelle melmose che conducono alle stanze degli allievi. Le impronte presso lo stagno sono sovrapposte al punto che non è possibile abbinarle alle calzature, al contrario di quelle nella corte e nel porticato che sono riconducibili senza fallo agli allievi.»

«Potrebbe essere stato Nion ad aiutare Konran-Jun?» domandò Dvaar.

«Non posso escluderlo» disse Nisarga.

Daalee ricordò l'impercettibile tentennamento del giovane e assentì convinto. «Malgrado ciò, concorderete con me che non sia lui il responsabile delle tracce. Avrebbe fatto rapporto, non inscenato un simile spettacolo.»

«Lo convochiamo?» domandò Nisarga a Dvaar.

«No. Sono più curioso di scoprire cosa lo abbia spinto a mentire per aiutare Konran-Jun.»

«Nion che viola il regolamento è una tale anomalia da meritar d'essere iscritta nei registri storici» riconobbe Thay.

I Primo Maestro si rivolse a Daalee e Nisarga. «A voi stabilire il modo in cui questo evento educherà i responsabili e tutti gli altri allievi. Avvertirò il padre di Konran-Jun dell'accaduto. Tārā, si occupi di lui.»

La donna annuì e lasciò la stanza assieme agli altri due maestri.

«Resta irrisolto il quesito su chi abbia lasciato le impronte» rifletté Thay.

Dvaar lo guardò, sollevando lievemente il sopracciglio.

«L'ultima volta abbiamo impiegato una fase per porre rimedio al suo operato nell'alloggio di Daalee» ricordò Dvaar.

«Sta diventando più temerario» gli riconobbe Thay.

«O più preparata» suggerì Dvaar non escludendo nulla e nessuno.

Restava un fatto ineluttabile: dopo cicli di silenzio, l'Ombra dell'Accademia era tornata.

Primo piano, porticato ovest, ultima stanza.

«Che caldo... ma è già estate?» brontolò Konran-Jun. Scocciato, buttò via lenzuolo e coperte. Allungò la mano e non trovando nulla protestò: «Che fine ha fatto il tavolino? Dov'è il bicchiere?».

Lo cercò tentoni e se lo ritrovò in mano.

"Acqua!" ringraziò, trangugiando tutto il liquido. «Che schifo di sapore...»

Il bicchiere gli scivolò via dalle dita e cadde a terra. Stranamente però, non fece alcun rumore.

Sollevò la testa e guardò verso la porta, dove intravide una figura. «Padre, perché hai spostato la finestra di camera mia?!» protestò un attimo prima di crollare di nuovo addormentato.

«Scherzo per scherzo.»

"Eh? Chi parla? Ah, sono io..."

«Chi di melma colpisce, di melma perisce.»

"Mi sembra giusto!" approvò con un grugnito.

«Konran-Jun?»

«Mamma, pietà... No, non ho bevuto ieri sera... credo» farfugliò con voce impastata.

Rintocchi metallici risuonarono nell'aria.

"La campana del porto" pensò con un sorriso.

Era a casa, a Tarua, il torace scaldato dal sole, nelle narici il profumo del mare. Il corpo cullato dalle onde...

La campana suonò di nuovo.

Si svegliò e il sogno s'infranse: il calore al torace era dolore, nelle narici l'odore di erbe che non conosceva, il corpo cullato dai capogiri.

«Konran-Jun?» lo chiamò di nuovo la voce femminile.

Con fatica aprì gli occhi. Una donna dalla carnagione diafana, occhi scuri, lunghi capelli rossi imprigionati in ricci morbidi, lo osservava attenta.

"L'Accademia" si rassegnò con un sospiro.

Cercò invano di sollevarsi.

«Resti sdraiato. Mi chiamo Tārā e mi occuperò di lei. Ha la febbre alta, ma le erbe e le gocce hanno svolto la loro funzione.»

"Erbe? Gocce?" si domandò. Non ricordava più nulla dal momento in cui si era immerso nella vasca. "I due Aku mi hanno prelevato dalla vasca e medicato senza che me ne accorgessi..." Trasalì e si guardò addosso. "Ti hanno prelevato dalla vasca nudo nato e ti hanno rivestito..." si rinfacciò, chiudendo gli occhi imbarazzato.

Tārā finì di togliergli le bende. «I graffi sono profondi ma quasi rimarginati. Le escoriazioni sulle mani richiederanno più tempo, così la ferita al piede» gli spiegò mentre lo visitava. «Una fausta sincronicità la sua conoscenza dei rimedi delle Uhr. In pochi a Iriba utilizzano le erbe delle guaritrici dei Podestati.»

Konran-Jun intuì l'insinuazione: non credeva fosse opera sua, e voleva scoprire chi l'avesse curato.

"Va a nostro vantaggio..." ricordò con un moto di diffidenza.

«Sono figlio di un commerciante» si giustificò.

«Come supponevo» assentì lei.

"Sa che mento" pensò, senza osare aprire gli occhi per scoprirlo.

«Riposi. Tornerò più tardi per somministrarle nuovamente le gocce.»

Rimasto solo, Konran-Jun aprì gli occhi. «Vulcani che sete...»

Tese il braccio verso il piano su cui erano stati lasciati il bicchiere e l'acqua. Con disappunto si accorse che non ci sarebbe mai arrivato se non mettendosi a bordo letto e sbilanciandosi sul fianco... E quella notte non lo aveva fatto!

In un attimo fu completamente lucido. "Se lo avessi fatto, il dolore al torace sarebbe stato tale che me lo ricorderei..."

Rivide la figura che aveva creduto essere il padre e cercò di ricordarne le parole: «Scherzo per scherzo. Chi di melma...» mormorò.

"Che fossero i due Aku?"

Rimase per un po' con lo sguardo fisso sul soffitto, diviso tra pensieri e dolori vari.

«Strazio!» imprecò contro entrambi.

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