9- AUREEN
«Non avresti dovuto sfidarlo.» Valerin camminava a passo svelto. «Se Claudius deciderà di volerti giù dal trono, troverà il modo per spodestarti.»
Non risposi.
Una parte di me non vedeva l'ora che quell'uomo escogitasse il modo per liberarmi da tutte le responsabilità. Dall'altra parte, però, l'idea che le speranze di mio padre venissero vanificate... No, semplicemente non potevo abbandonare il regno che tanto aveva amato.
«Mastro Claudius deve imparare a stare al suo posto» gracchiai, la voce distorta dalle lacrime che trattenevo in gola. «Quantomeno di fronte alla salma del suo re.»
«Oh, scommetto che invece sei riuscita a metterlo in imbarazzo.»
Arrivammo a un pesante portone che lei aprì.
La mia camera.
Sembrava un secolo che non mettevo piede lì dentro. L'unico luogo di tutto il regno di Delthar che davvero mi era mancato.
Ogni cosa era rimasta come l'avevo lasciata: la pila di libri sul comodino, le vestaglie di tessuto pregiato appese alle grucce nell'armadio dischiuso, le mie penne d'oca ben allineate sullo scrittoio sotto la grande finestra. E i gioielli. Fin troppi. Scrigni su scrigni che venivano aperti solo per le grandi occasioni, se potevo evitarlo nel resto dei giorni.
Gli unici nuovi elementi riguardavano una cuccia di cuscini e un tiragraffi nuovo di zecca.
Willy era acciambellato sul mio letto. Al nostro ingresso aveva pigramente aperto un occhietto per poi tornare a dormire. Era strano vederlo lì, ma sembrava a suo agio.
Valerin mi prese una mano tra le sue. «Devi fare attenzione, Reen. È un gioco pericoloso a cui...»
Sfilai di scatto la mano. «Reen? Siamo amiche, ora?»
Lessi il senso di colpa nei suoi grandi occhi azzurri. Era cambiata molto dall'ultima volta. Se non fosse stato per il piccolo neo all'angolo del labbro avrei stentato a credere che quella meravigliosa donna fosse davvero la Valerin della mia infanzia. La mia Valerin.
«Reen, volevo...»
«Cosa? Scrivermi, magari?»
Intravidi il mio riflesso in uno specchio in fondo alla stanza: avevo i capelli aggrovigliati, la faccia paonazza e gli occhi rossi per le lacrime trattenute.
«Eden era stato portato in Accademia e tu...»
Verrebbe da pensare che la figlia del re fosse circondata da amici. E così sarebbe stato, se fossi stata una ragazzina "a posto" che amava ricamare, giocare al tè con le bambole, lasciarsi infiocchettare i capelli.
Oh, ero senz'altro uno zuccherino nelle occasioni ufficiali, tanto da guadagnarmi l'appellativo de "la delizia del regno".
Ma al palazzo lo sapevano tutti che preferivo cavalcare come un uomo, rotolarmi nel fango e giocare alla guerra.
Giocare alla guerra con Eden, Valerin e Jared.
Valerin fece un passo verso di me e riportò la mia mano tra le sue. «Non avrei voluto lasciarti. E ho temuto che scrivendoti ti avrei fatta soffrire di più. Pensavo che avessi bisogno di tempo per stare meglio.»
Non dissi nulla, ma feci schioccare la lingua contro i denti in un verso risentito.
«Reen, sono stata malissimo. Mi mancavi da pazzi e sapevo che anche io mancavo a te.»
Sospirai amareggiata e scossi la testa. Superai la porta a vetri che dava sul balcone e mi appoggiai alla ringhiera con gli avambracci.
Fitta edera si arrampicava ovunque: sul muro di pietra, per terra, intorno alle decorazioni in ferro del parapetto. I boccioli di alcune piccole roselline sbucavano qua e là, resistendo all'edera che aveva già soffocato da tempo tutti gli altri fiori.
Non era una rosa qualunque, era Aureenyria Santaminas . Fiore dal quale prendevo il nome. E simbolo della nostra stirpe: una rosa rossa incoronata su sfondo nero.
Con quel tipo di fiore, resistente praticamente a qualsiasi cosa, si poteva fare di tutto: medicinali contro i dolori reumatici, tisane per scongiurare gravidanze indesiderate, profumi di gran prestigio che le donne si spuzzavano tra i seni in occasione delle feste, tinture per dipingere e per colorare i tessuti.
E c'era anche chi, nei sobborghi malfamati di Delthar, estraeva il nettare dal pistillo per ricavarne un potente veleno che, mischiato al decotto dei suoi petali, diventava una droga molto richiesta. Se sbagliavi le dosi, però...
«Ascolta, Reen. Non pretendo che torni tutto come un tempo. Sono passati anni. Ma dammi la possibilità di starti vicina.»
Le davo le spalle. Strizzai le palpebre costringendo tutto il dolore a trovare uno spazio remoto di me in cui nascondersi ancora per qualche ora. Avrei affrontato a testa alta il funerale di mio padre e l'incoronazione che ne sarebbe seguita. Dopodiché, nella privacy delle mie stanze, quella sera mi sarei lasciata andare. Dovevo resistere solo un altro po'.
Presi un bel respiro e mi voltai.
Studiai attentamente l'espressione addolorata sul volto di Valerin, il vestito che le fasciava il corpo mettendo in risalto ogni curva, i fini gioielli che le pendevano dai polsi. E pensare che anni prima avrebbe dato fuoco a chiunque avesse tentato di farle un bagno.
«Dove hai lasciato tutto il fango nel quale amavi rotolarti?» domandai senza stizza.
Lei sorrise sollevata. Scrollò le spalle e si appoggiò alla ringhiera accanto a me. «Non so, credo che gli ormoni abbiano preso il sopravvento.»
«La te di qualche anno fa ti detesterebbe.» La verità era che la trovavo splendida.
«Alla me di oggi piacciono gli uomini, e agli uomini piace tutto questo» si indicò con una mano. «Perciò direi che mi sta bene così.»
Roteai gli occhi. «Contenta tu.»
«Ti prego, non dirmi che dovrò tirare fuori il pugnale per costringerti a darti una lavata.»
«E dove lo terresti un pugnale?»
Allungò una gamba e spostò lo spacco del vestito rivelando la lama assicurata alla coscia con delle cinghie di cuoio.
«Immagino che agli uomini piaccia anche questo.»
«Oh, puoi giurarci.»
L'idea di quella versione adulta di Valerin non mi metteva granché a mio agio, perciò sventolai una mano per cambiare discorso. «Comunque, non sarà necessario costringermi. Puzzo da fare schifo...» mi annusai la maglia sudata. «Ma tanto per chiarirci: non credo di dover fare attenzione al tuo pugnale.»
Lei rise buttando la testa all'indietro.
Tornammo nella mia stanza e un gruppo di servitrici bussò alla porta con le braccia cariche di caraffe d'acqua calda, oli e saponi d'ogni genere.
Willy saltò giù dal letto quando una delle servette posizionò a terra un piattino ricamato in oro colmo di carne stufata. Lo invidiai un pochino per la spensieratezza con la quale si leccava i lunghi baffi bianchi.
La vasca in ottone venne riempita e, in men che non si dica, mi ritrovai nuda e insaponata. Mi morsi la lingua impedendomi di dar voce al disappunto di tutte quelle mani che mi toccavano ovunque. Decisi, però, che subito dopo l'incoronazione non avrei più permesso che qualcuno mi lavasse. Al momento ero troppo stanca e troppo tormentata per ribellarmi.
Lasciai che mi asciugassero, che mi posizionassero davanti alla toletta e mi acconciassero i capelli in lunghe trecce arrotolate intorno alla testa, e che mi oliassero corpo e unghie. Tutto questo in quasi totale silenzio.
«Ho fatto preparare un abito per te» annunciò Valerin.
«Con così poco preavviso?»
«Be'...» ribatté con voce triste. «Diciamo che re Aramis sapeva che la sua malattia lo avrebbe portato via. Ed era altrettanto certo che tu saresti tornata a casa. Ho eseguito i suoi ordini.»
Ingoiai un groppo amaro.
Mio padre aveva tenuto duro fino alla fine. Ero riuscita ad arrivare a lui giusto in tempo per un ultimo saluto. Al pensiero che sarei potuta tornare a Delthar e trovare solo una lapide mi si spezzava il cuore ancor di più.
Valerin deve aver notato il mio sforzo di non cedere al dolore, perciò riprese in fretta il discorso. «Credo che l'abito ti piacerà. Segue i costumi del regno ma anche i tuoi gusti, in qualche modo. Tuo padre ci teneva molto.»
Non dissi nulla, temevo che se avessi aperto bocca mi si sarebbe rotta la voce. O mi sarebbe sfuggito il grido di frustrazione che trattenevo da quando Eden mi aveva trovata.
Attesi che le servitrici completassero l'acconciatura e mi passassero una linea sottilissima di kohl nero tra le ciglia, e mi alzai dalla toletta.
Mi si bloccò il cuore in gola quando vidi l'abito posato sul mio letto. Valerin aveva ragione: era perfetto per me, ma soddisfaceva anche le aspettative della corte.
Le labbra mi si contrassero in un minuscolo sorriso. Mio padre mi aveva fatto un ultimo, splendido regalo. E aveva dimostrato per l'ennesima volta che accettava sua figlia esattamente per quello che era.
Era venuta l'ora di lasciare le mie stanze.
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