6- AUREEN

Il Palazzo era rimasto lo stesso di come lo avevo lasciato.

Mio padre, no.

L'uomo alto, possente, forte e sagace, aveva ceduto il posto a un ometto gracile che quasi spariva sotto le montagne di coperte. Un tempo quel letto a baldacchino mi era parso a malapena in grado di contenerlo, invece adesso sembrava avrebbe potuto inghiottirlo con facilità.

Mi si strinse la gola.

Eden non aveva mentito. Stava morendo davvero.

Osservai mio padre dalla soglia dei suoi appartamenti per un lungo minuto. Avevo bisogno di qualche istante per recuperare la voce che era andata a nascondersi tra le viscere attorcigliate.

C'era uno strano odore nell'aria, come di gelsomino e incenso di papavero. Lo stesso odore che mi aveva tormentato le narici durante la malattia che portò via mia madre.

Quando tossì – un'orribile tosse umida –, sussultai.

«Papà...» mi sfuggì in un sussurro roco.

Re Aramis aprì piano gli occhi. Un lampo di speranza lo illuminò quando mi riconobbe.

«Bambina...» Tirò fuori un braccio dalle coperte e, tremante, lo allungò verso di me.

Mi precipitai da lui e mi inginocchiai accanto al letto. Gli strinsi la mano tra le mie e mi sorpresi di quanto la sua pelle fosse fredda.

Sembrava invecchiato di cent'anni.

Le labbra, che prima di quel momento avevo sempre visto piegate in un sorriso benevolo, erano ora grigie e incurvate all'ingiù.

«Papà» ripetei, baciandogli le nocche.

Strizzai poi le palpebre per impedire alle lacrime brucianti di sgorgare dagli occhi.

«Guardami» gracchiò lui, trattenendo un colpo di tosse.

Obbedii.

Un piccolo sorriso.

Fu tutto quello che mi servì per riprendere fiato. Non mi ero resa conto di aver trattenuto il respiro.

«Mi dispiace tanto.»

«Per essere venuta con i pantaloni?» scherzò debolmente.

Come avevo promesso, mi ero cambiata e avevo indossato abiti Inversi. Ma mi ero rifiutata di assecondare gli usi che mi volevano agghindata come una bomboniera. Una volta arrivati al castello, ci eravamo concessi giusto qualche istante per ripulirci alla bene e meglio dal fango.

Quando risi, una lacrima mi scivolò, ribelle, sulla guancia. «Spiacente, papà. Dovrai fare ben di peggio per riuscire a vedermi indossare una gonna.»

«Come cederti...» tossì. «Come cederti la mia corona?»

Sbiancai.

«Sai che non posso farlo» protestai piano, abbassando gli occhi sulle nostre mani unite.

«So che devi, bambina mia.»

«Sei ingiusto a chiedermelo ora...»

«Un buon re è anche un buono stratega» scherzò.

Mi adombrai, incapace di replicare.

«Non prenderlo come un ordine, Reen. Al nostro regno servi... ora più che mai.» Mi strinse la mano.

«Non sono la persona giusta per guidare Delthar. Sono sicura che Jonah...»

«Jonah è un ottimo gran cavaliere e consigliere. Ma nelle sue vene non scorre il sangue della dinastia dei Delthar. Ed è necessario che sia la mia discendenza a sedere sul trono.»

Mi morsi il labbro. Un raggio di sole penetrò dall'enorme finestra e colpì mio padre dritto agli occhi. Li strinse, sofferente.

Eden, che era rimasto tutto il tempo in disparte, si precipitò a tirare la tenda.

La stanza si riempì della luce blu scuro del tessuto, evidenziando le profonde occhiaie che solcavano il volto di mio padre.

«Le cose possono cambiare, papà» tentai. «Gli altri regni non ci muoveranno guerra se sul trono siederà il primo di una nuova dinastia. Jonah sarà un grade re.»

Re Aramis tossì. Si portò un fazzoletto ricamato alla bocca e subito lo tinse di macchie scarlatte.

«Jonah è un vecchio, figlia mia» ribatté, senza alcuna crudeltà nella voce. Era una semplice constatazione. «Un vecchio come lo sono io ora. E i tempi che stanno arrivando sono duri... senza un Delthar sul trono sarete tutti perduti.»

Sarete.

Lui, chiaramente, non prevedeva di essere presente per allora.

«Di che tempi parli?»

Lui ed Eden si scambiarono un'occhiata preoccupata.

«Cosa succede?»

Nuovi colpi di tosse lo costrinsero a singhiozzare per riuscire a prendere fiato. Gli porsi in fretta il bicchiere d'acqua sul comodino, ma lo rifiutò. «Sono stanco, Eden... glielo racconterai tu?»

Il giovane cavaliere poggiò un ginocchio a terra e chinò il capo con grande rispetto. «Ci penso io, Vostra Altezza.»

«Ho se... sempre pensato che nulla avrebbe mai potuto tenere voi due lontani. Neanche il tempo.» Il sorriso felice di mio padre fu una pugnalata al cuore. «Sono contento di andarmene e affidarla alle tue mani, Eden.»

«Non ho bisogno di essere affidata a qualcuno. Ho bisogno di mio padre...» mi si ruppe la voce.

I suoi occhi si addolcirono. «Non hai bisogno di me, Aureen.» Gli brillarono gli occhi.

Sapevo che era inutile supplicarlo. Ma di fronte a lui mi sarei sempre sentita una bambina. Ero minuscola nelle sue mani. «Ti prego, non lasciarmi» mi portai il suo palmo alla guancia e lo inumidii di lacrime.

Con il pollice tracciò delle carezze sul mio zigomo. Come aveva già fatto tante volte.

Era stato un padre, ma anche una madre. E una guida, un maestro e un esempio. Forse uno dei vari motivi per cui ripugnavo il trono con tutta me stessa, era che sapevo che mai avrei potuto eguagliare la sua grandezza.

«Permettimi di riposare.» Ritirò la mano e la nascose sotto le coperte.

Un crampo di delusione mi contrasse lo stomaco. Non volevo che mi congedasse, non se quella poteva essere l'ultima volta che i suoi occhi si posavano su di me. Ma era più stanco di quand'ero arrivata.

Aveva sollevato tronchi con un braccio, aveva tenuto me e mia madre sulle sue spalle quando ero bambina, si era caricato un cinghiale sulla schiena al ritorno da una delle sue lunghe cacce. E ora anche solo parlare lo tramortiva.

La mano di Eden si poggiò sulla mia spalla. «Vieni, Reen. Lasciamolo riposare...»

Controvoglia, raggiunsi la porta.

Mi guardai alle spalle solo una volta.

Nella mia memoria, l'immagine dell'uomo alto, forte e invincibile, sarebbe stata offuscata da quella di un uomo vecchio e minuscolo in un letto troppo grande.

Una pallida riproduzione di ciò che Re Aramis aveva rappresentato per me e per l'intero regno. 

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