55- EDEN

Avevo perso il conto dei colpi ricevuti.

E anche dei giorni che avevo trascorso in quella prigione umida.

Ero persino troppo debole per riuscire a fare appello ai miei poteri di Inverso delle tempeste. E comunque, se me ne fossi avvalso, non avrei fatto altro che farmi crollare addosso l'edificio.

Quantomeno, il caldo afoso del deserto, lì giù, non mi aveva raggiunto. E nemmeno il sole. La mia era una cella buia, provvista solo di un giaciglio e di un secchio in cui fare i bisogni. L'odore che impestava l'aria era disgustoso, tanto che quando le due guardie del re venivano a prendermi per portarmi in un ambiente ben peggiore, mi sentivo per un momento quasi sollevato. Salvo poi diventare preda della tachicardia, perché quegli spostamenti significavano una sola cosa: tortura.

Non arrivavano mai a un soffio dall'uccidermi, ma colpivano abbastanza forte da stordirmi i sensi. Mi ci volevano diversi gironi per riprendermi, indebolito com'ero, ma loro tornavano ben prima che questo accadesse. E quando erano particolarmente di cattivo umore, si avvalevano di alcuni di quegli strumenti dall'aria sinistra posizionati accanto alla sedia alla quale mi legavano.

Il pavimento su cui poggiavo i piedi nudi era sporco di sangue e piscio. Quest'ultimo non mio.

«Bisogna ammettere che la tua resistenza è impressionante, ragazzo» esordì la guardia, prima che il suo pugno si scontrasse sul mio zigomo già tumefatto.

Grugnii nell'impresa di trattenere un urlo e sputai a terra. Mi passai la lingua sui denti, e fu un miracolo scoprire che li avevo tutti ancora al loro posto. O quasi.

Ma certo che la mia resistenza era impressionante. Ero stato allevato e cresciuto in Accademia. Quel che mi stavano facendo, l'avevo già vissuto lì dentro per opera di ser Adam. Non avrei mai pensato che mi sarei ritrovato a ringraziare in silenzio quel bruto per la sua crudeltà. In fin dei conti era servita.

Se re Noah credeva che sarebbe riuscito a portarmi allo sfinimento e a supplicare per la mia morte, non aveva idea di quanto profondi fossero stati i pozzi in cui ero stato buttato, quanto forti fossero stati i colpi ricevuti da ragazzino, quando buie e fredde fossero state le notti della mia gioventù.

Re Aramis mi aveva spedito laggiù non solo per far sì divenissi l'uomo in grado di servire dignitosamente la sua erede, ma anche per nascondermi.

«Tutto questo potrebbe finire in un attimo se solo accettassi il destino che ti offre il tuo sovrano.» L'ennesimo colpo quasi non lo sentii, tanto ero assuefatto dal dolore.

Un filo di bava rossastra mi colò dalla bocca quando abbandonai mollemente la testa di lato. Sarebbe stato divertente vedere re Noah trucidare quei due per avermi ucciso, prima che potessi sacrificarmi ai draghi. Cosa che, comunque, non sarebbe successa.

«Basta così» intervenne l'altra guardia, forse leggendomi nel pensiero. «Riportiamolo dentro, torneremo fra tre giorni.»

Quando mi liberarono i polsi e sgranchii le mani, repressi un urlo. Almeno due dita della mano sinistra erano rotte. Lasciai che mi tirassero in piedi e mi trascinassero verso la mia cella. Sfilai davanti alle altre gabbie, al cancelletto di una delle quali era aggrappato Sonan, un prigioniero sulla cinquantina che in quell'ultimo periodo mi aveva aiutato ad affrontare il panico che mi attanagliava di notte. Era un uomo riservato, che mi sfuggiva quando tentavo di scoprire qualcosa di più su di lui. Ma era anche l'unico essere umano con cui avessi uno scambio. Anzi, c'era anche Zèzè.

Gli occhi di giada di Sonan mi studiarono a fondo, poi si posizionarono con rabbia sugli uomini che mi tenevano per le braccia.

Venni mollato nella mia cella come un sacco di patate, dopodiché le due guardie ci lasciarono al buio della nostra prigione.

«Giornataccia?» chiese una volta soli.

Non mi uscì che un verso di doloroso assenso.

A separarci c'era un muro spesso, perciò per riuscire a vederci dovevamo avvicinare la testa alle sbarre. Ma al momento non ne avevo le energie.

Cercai di trovare la forza di resistere concentrandomi sulla sensazione dell'acciaio del mio bracciale contro la pelle. Quello era il simbolo del mio gran cavalierato, e l'unica cosa che ancora mi legava ad Aureen.

«Tieni duro, ragazzo.» Udii il rumore dei suoi passi che si allontanavano dalla grata per tornare sul giaciglio. «Presto lascerai questo posto.»

Avrei voluto chiedergli di cosa parlasse ma, senza che potessi fare nulla per impedirlo, svenni.

Mi svegliai di soprassalto al suono squillante di una vocina.

Quando aprii gli occhi, una cenciosa bambina Inversa mi fissava appesa a testa in giù fuori dalla mia cella. «Ben alzato, dormiglione.»

«Dèi» borbottai, «vai a farti un giro, Zèzè.»

Chiusi di nuovo gli occhi e mi massaggiai piano il viso, attento a non premere sulle ferite livide. La mia pelle era appiccicosa per via del sangue e del sudore.

«Naaah!» Lei, con una tripla capriola mortale, atterrò sul pavimento. «E poi è così che si parla alla persona che ti porta da mangiare?» Si sporse ficcando la testa nella mia cella per studiarmi meglio, del tutto indifferente all'odore. Poi scosse il capo. «Amico, dovresti proprio imparare a difenderti.»

Mi venne da ridere, nonostante tutto.

Zèzè si era presentata la prima notte della mia prigionia. Aveva la strabiliante capacità di muoversi senza emettere alcun rumore, di arrampicarsi dappertutto e di conoscere ogni piccolo buco del palazzo in cui nascondersi.

Per esempio, raggiungeva le prigioni sotterranee attraverso un'alta fessura nella parete, la quale era solo la bocca di uno stretto tunnel che percorreva tutto il castello di roccia rossa.

La ragazzina si frugò nella sacca appesa alla spalla e tirò fuori una mela per Sonan, il quale si avvicinò alle proprie sbarre.

«Che gli dèi ti benedicano» la ringraziò l'Inverso.

«Sonny, ancora non hai imparato che gli dèi non esistono?» lo rimbeccò lei, per poi cedergli il frutto.

«Esistono, mia cara bambina.»

«Sì, sì, come no.» Lo liquidò con un gesto della mano. «E tu la vuoi una mela, Eddy?»

«Ti ho già detto un milione di volte di non chiamarmi così.»

«Hai ragione, scusa Eddy. Ma la vuoi o no?»

Non risposi, ma allungai una mano verso di lei. Zèzè frugò ancora nella sacca e tirò fuori una mela rossa ammaccata. Fece per posarla sul mio palmo, ma poi la tirò subito indietro.

«Ah-ah, cosa devi darmi in cambio?» Quel sorrisetto vispo m'inteneriva, anche se non lo avrei mai ammesso.

«D'accordo,» mi arresi subito, tanto ero affamato «una sola però.»

Zèzè si lucidò la mela sulla maglia sporca di terra. «Vedi di non stonare, allora.»

Mi schiarii la voce un po' rauca per la sofferenza e cominciai a cantare. Avevo scelto una canzone del mondo umano che parlava di un amore perduto. Era malinconica, ma in qualche modo dava anche speranza. Non ricordavo tutte le parole, perciò improvvisai qualche passaggio. La ragazzina doveva esserne soddisfatta, perché si sedette a terra a gambe incrociate e mi osservò con occhi enormi.

Nonostante fosse un'insopportabile opportunista, non mi spiaceva poi così tanto accontentarla.

Quando conclusi, chinai poco il capo ignorando le fitte di dolore, e mi presi il suo applauso.

«Grazie, grazie.» Sollevai una mano, rivolgendomi a un pubblico quasi del tutto immaginario.

«Di solito i prigionieri cantano canzoni sconce.» Sfoggiò un sorriso al quale mancava qualche dente.

Sollevai il mento e sorrisi a mia volta. «Non questo prigioniero.»

Anche Sonan parve contento di quello spettacolo. «Avresti fatto carriera come giullare.»

«Dici bene, vecchio mio. Sarei stato il giullare più famoso di tutti i regni.» Con quelle parole, feci ridere Zèzè che si buttò sulla schiena e sollevò le gambette. «E forse, ora non sarei qui...»

Quell'ultima aggiunta, che forse avrei fatto meglio a tenere per me, ebbe l'effetto di far calare il gelo.

La ragazzina si ricompose e Sonan mi guardò con tristezza.

«Zèzè, dai a Eden la sua mela.»

La piccola me la porse subito e poi frugò di nuovo nella sua sacca. Tirò fuori delle bende, di certo rubate dallo studio del medico di corte, e mi regalò anche quelle.

«Queste, però, non te le pago.» Gliele strappai via, sforzandomi di sorriderle.

Lei ricambiò subito, contenta di essere tornati a un tono leggero. Poi fece spallucce. «Offre la casa.»

Dopodiché si rimise in piedi e si allontanò. Raggiunse una cella più in fondo e cominciò a sussurrare qualcosa. Non c'era nessuno lì dentro, ma l'avevo comunque vista parlare alle tenebre più di una volta. Ogni tanto l'avevo persino sentita ridere. Metteva i brividi.

Voltai la testa verso Sonan con aria interrogativa, ma lui ignorò il mio sguardo. Come sempre in quelle occasioni.

Udimmo poi lo sferragliare di catene, segnale che qualcuno era stato mandato a portarci da mangiare. Zèzè corse verso la mia cella, si arrampicò sulle grate e sparì nell'apertura sul muro prima che Jean la vedesse.

Io nascosi in fretta la mela e le bende sotto i vestiti. Anche se già in passato aveva finto di non vedere quelle nostre piccole provviste, non mi sembrava il caso di rischiare.

«La cena» annunciò lui, posando una scodella davanti alla mia grata e una davanti a quella di Sonan.

Ci lasciò anche due boccali colmi d'acqua. Pulita, questa volta. Quando era qualcun altro a occuparsi di quella mansione, arrivava sempre sporca.

Jean arricciò il naso per la puzza, poi mi osservò meglio e si accorse dello stato della mia faccia. «Dèi, ci vanno giù pesante...»

Scrollai le spalle, guardandolo con sfida. «Vogliono che supplichi. Ma qualcuno mi ha spiegato che nelle Terre Libere si sopravvive più a lungo se si tiene a freno la lingua.»

Era stato lui a dirmi quelle esatte parole. E a quanto pareva, per uno strano scherzo dell'universo, erano proprio vere.

«Farai bene a continuare così, allora.»

Sonan si sporse dalla grata e gli afferrò una caviglia. «Jean,» nei suoi occhi vidi passare una vita intera, «puoi mettere fine a tutto questo.»

Corrugai la fronte. Da quando ero stato rinchiuso, quella era la prima volta che si parlavano. E certo non mi aspettavo tutta quella confidenza.

«Hai fatto la tua scelta, Sonan.» Sfilò il piede dalla sua presa e guardò me. «E io la mia.»

Detto ciò, tornò sui suoi passi e ci lasciò soli.

Restammo in silenzio per un po', si udiva solo il gocciare di una perdita da qualche parte nelle segrete. Un minuscolo raggio di luce proveniva da uno spiraglio in alto.

«Cos'era quello?»

Sonan chinò il capo. Aveva compreso perfettamente che mi riferivo allo scambio con Jean, eppure fece finta di nulla e afferrò il suo piatto. «Quello cosa?»

«Vi conoscete?»

«Anche tu lo conosci.»

«Intendo dire che sembrate in confidenza.»

Lui fece spallucce. «Sono anni che mi trovo qui dentro.»

Da quando ero stato imprigionato, Sonan era stato il mio unico amico. Insieme a Zèzè, è chiaro. Gli avevo raccontato tutto di me, compreso il motivo della mia cattura. Eppure, di lui sapevo così poco...

«Certo» cercai di andarci con i piedi di piombo, perché tutte le volte che domandavo qualcosa in più finiva col ritirarsi e mi offriva solo silenzio. «Deve essere stato terribile starsene qui giù da soli tanto a lungo. Immagino sia normale cercare un contatto anche con i propri aguzzini.»

«Proprio così» rispose masticando, come se quella roba non fosse la più schifosa che avesse mai mangiato.

Lo imitai, ma accompagnai il boccone con un sorso d'acqua.

«E... come mai sei qui?»

Si immobilizzò con il cucchiaio a mezz'aria.

Poi lo posò nel piatto, che spinse nuovamente fuori dalle grate senza nemmeno finire il cibo.

«Sai, credo di essere sazio. E troppo stanco per le chiacchiere. Buonanotte, Eden.»

Si allontanò dalla grata, scomparendo alla mia vista. Sentii il suo corpo sistemarsi sul giaciglio.

«Buonanotte, Sonan.»

Ero amareggiato, non volevo però risultare invadete. E nemmeno costringerlo a ritenermi suo amico. Anche se lo ero.

Finita la mia scodella e dopo aver divorato anche la mela, mi fasciai le ferite con le bende. Solo dopo un po' decisi di sdraiarmi, le braccia dolenti piegate sotto la testa.

Cercai di costringere il mio cervello a non pensare a cosa stessero facendo ad Aureen. Dovevo credere che la mia regina sarebbe stata abbastanza forte da tenere re Dorian al suo posto e da ribaltare la situazione. Reen era una donna forte e coraggiosa, dovevo credere che non sarebbero riusciti a spezzarla.

Ma quando mi addormentai, feci solo incubi. Tutti che si concludevano col suo sangue che impregnava le lenzuola.

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