51- EDEN
Le Terre Libere erano afose.
Il caldo dava tregua solo quando calava il sole e sorgeva la luna. Le coste di quel regno erano verdi e abitate da diversi piccoli paesi mercantili. Noi, però, eravamo diretti ad Arhanat, la capitale.
Le piante rigogliose, che non erano state intaccate dalla marcescenza di Zelveen, che intanto cresceva nel continente, avevano pian piano lasciato spazio agli arbusti radi, ai tronchi secchi, e alla fine al deserto. Dovevamo raggiungere la punta a Nord Ovest del regno, e per farlo i miei carcerieri avevano optato per cavalli, cammelli, e una carretta scoperchiata sulla quale mi avevano legato. Avremmo potuto seguire il contorno sicuro della costa, ma avremmo impiegato tempo in più a raggiungere la nostra meta.
Il culo mi doleva come non mai. Avevo iniziato a perdere peso, e le ossa mi premevano spietate sotto la pelle. Per ripararmi dal sole cocente, mi avevano dato dei teli di tessuto leggero, i quali mi facevano soffocare dal caldo di giorno, e morire di freddo di notte. Le temperature, una volta fatto buio, scendevano in picchiata costringendomi a battere i denti.
Le guardie insistevano nel chiamarmi principessa perché, invece di camminare, viaggiavo trainato da un cammello. Come se avessi avuto scelta. Come se non potermi muovere di un centimetro fosse un privilegio. Ma che avessero paura che riuscissi a fuggire quasi mi lusingava.
Nessuno fa fuori Eden di Delthar.
«Fermiamoci qui» ordinò una guardia.
Il carretto trainato da due cammelli si arrestò bruscamente, e lo scossone mi scosse violentemente. Serrai la mascella per trattenere un gemito di dolore.
Mi avevano fatto il culo quando eravamo stati catturati. E il viaggio via mare non aveva certo giovato alle mie ferite. Ero stato fortunato che non si fossero infettate. Ci mancava solo quella traversata nel deserto.
In men che non si dica, erano state montate tende e preparati i bivacchi. Il sole sembrava una sfera liquida che si scioglieva all'orizzonte. La sabbia emanava un calore così intenso da far tremolare l'aria.
C'era un breve spazio di tempo che precedeva il buio notturno in cui quasi riuscivo a respirare: quando l'aria era abbastanza fresca da raffreddare la pelle, ma il suolo ancora ancora abbastanza caldo da non farmi congelare. Il terreno che tratteneva il calore, però, ci metteva sempre poco a tradirmi.
«Numi del cielo», sibilai tra i denti, intanto che cercavo di mettermi seduto dritto, «fatemi superare questa sfida e giuro che...»
«Giuri cosa, bastardo?» m'interruppe una guardia col viso avvolto dal turbante.
Potevo vedere solo i suoi zigomi arrossati e gli occhi profondi di chi aveva visto e vissuto cose ben peggiori della spietatezza del deserto.
Era appoggiato con l'avambraccio sul bordo del carretto e, con un gesto della mano, m'invitò a proseguire. «Su, dicevi? Giuri che ci farai a pezzi a uno a uno?»
«Potrebbe essere un inizio, sì.»
Sogghignò. Ma qualcosa nella sua postura, o forse nel suo sguardo, mi disse che non mi stava deridendo. Quando mi parlava, non percepivo la stessa nota acida degli altri carcerieri.
Ma era assurdo anche solo pensare di concedere la mia fiducia a uno sconosciuto. Benché più, nemico. Non dopo la scottante delusione di Valerin. Non i quei luoghi sconosciuti.
«Stammi a sentire, ragazzo,» si sporse verso di me e abbassò il tono della voce, «se vuoi sopravvivere, mantieni il profilo basso. Queste piantagrane qui», mandò un cenno ai suoi compagni, «sono capacissime di farti secco e dire al re che è stato il deserto a ucciderti.»
«E tu no?»
Il suo sguardo intenso che resse per qualche secondo avrebbe potuto bucarmi la pelle. Le rughe intorno agli occhi mi suggerivano la sua mezza età. «No. Io so che re Noah ha bisogno di te. Vivo.»
«E tu sei così fedele al tuo re da dare dritte al suo prigioniero, giusto?» lo provocai.
Coperto dal turbante non potevo vederlo, ma avrei potuto scommettere che avesse sollevato un angolo della bocca. «Certo, se questo significa salvaguardare gli interessi della corona. Io ti osservo, sai? Lo vedo che stai cercando di tenere duro e di riconquistare le forza. Ma non ti servirà a nulla. Dai retta a me: mettici una pietra sopra alla tua vita di prima. Non lascerai questo regno a meno che non sia il re a liberarti. E non accadrà.»
«Sembri molto compiaciuto del ruolo che ti è stato assegnato. Scommetto che sei come un cane scodinzolante che attende una pacca affettuosa dal proprio padrone.»
«Attento alle parole che usi, gran cavaliere. Nelle Terre Libere si perde la lingua per molto meno.»
«La lingua, la propria vita, la libertà... Credo di non avere più molto da perdere. Mi sa che queste Terre Libere tanto libere non sono.»
La sua mano scattò sul mio polso e mi strinse con decisione. «Tu non sai quel che dici. Chiudi la bocca e tieni bassa la testa, prima che qualcuno te la faccia tagliare.» Mi lasciò andare e fece un passo indietro. «Dammi retta, ragazzo.»
«Jean,» chiamò qualcuno da una capanna, «la cena.»
I nostri occhi rimasero incollati. «Non mangerò nel piatto che hai preparato tu, faccio volentieri a meno del tuo sputo.» La guardia mi diede la schiena e si diresse in fondo al piccolo accampamento. «Dammi un'altra scodella, piuttosto.»
Il giorno di incontrare il re arrivò meno di una settimana dopo.
Aprii gli occhi che il sole era allo zenit. Impiegai qualche istante ad abituarmi alla luce accecante. Subito mi resi conto di nuove voci che mi circondavano, e degli intervalli d'ombra che regalavano le lunghe palme e i palazzi di pietra rossa. Arhanat era uno splendore, un paradiso.
Ovunque erano disseminate fontane dalla limpida acqua zampillante, c'era odore di frutta e di spezie, si sentiva il canto degli artisti di strada e le note degli strumenti ad aria. E c'era tanto, tanto verde. Ma se quelle vie centrali ostentavano la ricchezza del regno, quelle più marginali mostravano tutta la sofferenza della povertà. Me ne ero accorto dai bambini scheletrici che si aggiravano a piedi nudi tra i più fortunati chiedendo l'elemosina, e dalle casupole di fango che si dissolvevano un poco a ogni folata di vento. Il divario tra le due classi sociali era troppo ampio e netto.
«Benvenuto a casa, principessa». Una guardia sghignazzò dando una pacca al cammello per invitarlo a proseguire.
Ruotai il collo quanto possibile e subito mi accorsi dell'enorme palazzo alle mie spalle, e verso il quale ero diretto. Anch'esso era di pietra rossa, ma era rifinito e decorato con venature e guglie d'oro zecchino. Alla luce del sole, brillava come un maledetto gioiello gigante.
«Aprite i cancelli!»
Poco dopo, venimmo abbracciati dai rigogliosi giardini del palazzo reale. Quando il mio carretto si fermò, uno dei miei carcerieri venne a slegarmi. Era Jean. Senza più il turbante a schermargli il viso quasi faticai a riconoscerlo. La testa era ancora coperta dal tessuto arancio sbiadito, ma i lembi gli pendevano sulle spalle. Aveva una barba grigia di due settimane e folte sopracciglia.
Storse il naso. «Puzza da fare schifo, prima di portarlo a re lo farò lavare dalle serve.»
Un'altra guardia scosse la testa. «Non merita il lusso di darsi una ripulita. Si presenterà davanti al trono per il verme che è.»
Jean mi guardò di sfuggita, e in quel breve istante scorsi un lampo di... compassione?
No, sicuramente no.
Venni scaricato a terra come un sacco di patate e poi costretto a mettermi in piedi. Ero lercio, dolorante, stanco. Eppure, avevo ancora energie per far battere il cuore come un pazzo.
Venni all'ingresso e trascinato lungo i corridoi le cui pareti sembravano fatte di madreperla. L'aria profumava di agrumi e di coriandolo. L'unica nota stonata era il fetore che emanavo io. Dalle arcate intagliate nel muro, simili a quelle del palazzo di Delthar, spiccava il cielo azzurro. Come poteva un luogo tanto incantevole essere la dimora di un despota?
Arrivammo di fronte a un grosso portone a due ante incastonato da gemme preziose e due araldi spalancarono le porte. La testa mi pulsava violentemente.
La sala del trono era deserta. Il pavimento era rosso come le pareti esterne e il soffitto alto riportava affreschi di un'antica battaglia. In fondo alla navata vuota, c'era un grosso trono che svettava sulla cima di una scalinata. Su di esso, era seduto il re.
Mi aspettavo un uomo rozzo e dall'occhio beffardo. Invece, comodo sullo scranno, erano gli occhi gelidi di un sovrano dalla tagliente eleganza che mi fissavano. Aveva la pelle scura, i capelli bianchi, le rughe che gli segnavano il viso, un bastone posato sul lato del trono, spalle larghe e muscoli che s'intravedevano da sotto la veste elegante. Nonostante sapessi che non era giovane, sembrava senza età.
E c'era qualcosa in lui che...
Il cuore mi schizzò in gola. Erano gli occhi neri come il fumo a essermi familiari. Il loro taglio e la loro piega. Quando parlò, la sua voce suonò ferma e decisa. E senza pietà.
«Benvenuto, nipote.»
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