49- EDEN

«Apri gli occhi, figlio.»

Li spalancai e mi ritrovai i suoi, densi come il fumo, incollati ai miei. Nelle tenebre della notte, la sua pelle scura si mimetizzava con le ombre. Era il luccichio di quegli occhi, e il bianco cangiante del suo sorriso, a farlo risplendere come un faro nell'oscurità. Il mio faro.

«Su, alzati da terra.» Mi porse una mano.

Forse, dei nostri allenamenti, quella era la parte che preferivo di più. Quando il suo palmo dalla pelle dura veniva a contatto con il mio. Era rassicurante. All'epoca, non credevo che esistesse uomo più forte al mondo.

«Devi infilartelo in questa zucca» mi picchiettò sulla testa, «mai dare le spalle al nemico.»

Mi pulii le brache strofinandomi con forza. «Ma tu non sei mio nemico.»

Mi sprimacciò i capelli. «No, io no. Mai. Ma quando veniamo qui ad allenarci, tu devi fingere che sia così.»

Tra le fronde degli alberi, le stelle brillavano quasi quanto le sue iridi. Mi strofinai il mento come facevo sempre. Ero non più di uno scricciolo, ma ogni giorno controllavo se per caso non mi fosse cresciuta un po' di quella barba che copriva le guance di mio padre. Mia madre l'adorava. Una volta finito di cenare, si sedeva sulle sue ginocchia davanti al camino e passava il tempo ad accarezzargliela. E a baciarlo.

«Raccogli la tua arma» mi dispose, tornando severo.

Mi chinai a terra e afferrai il mio ramo appuntito.

«E ora, in guardia.»

La mia spada – o ciò che fingevamo fosse una spada – si scontrò con la sua. Nonostante fossi ancora così piccolo da inciampare nelle mie stesse gambe, sapevo già capire che ci andava piano con me. La cosa mi faceva infuriare, ma non dicevo mai niente perché parlarne per me sarebbe stata un'umiliazione persino peggiore.

Ancora un paio di colpi e fui di nuovo a terra. Sbuffai per la frustrazione. «Spero non venga mai una guerra» sbottai, «perché mi farebbero fuori subito!» Mi alzai in piedi e lanciai il ramo lontano.

«Guardami» mio padre mi afferrò per il mento e mi tenne fermo. «Nessuno, nessuno, fa fuori Eden di Delthar. Hai capito?»

Mi tremò il labbro ma annuii. Non perché ci credessi, ma perché l'idea di deluderlo era ancor più imbarazzante delle mie brache sporche di fango.

«Giuralo sulla tua vita.»

«Se dovessi morire, che importanza avrebbe il mio giuramento?»

Sembrò sorpreso dalla mia obiezione. Scosse la testa e sorrise. «Non mi abituerò mai a quella tua lingua. Sei alto quanto un fiasco di vino, come fai a essere così sveglio?»

Capii al volo che quello era un complimento. Scrollai le spalle cercando di dissimulare l'orgoglio.

S'inginocchiò davanti a me e mi tenne per le spalle. «Devi ricordarti tre cose, sempre. La prima, è che non devi dare mai a nessuno né il potere né il diritto di scegliere la tua fine. La vita è un miracolo, e solo agli dèi spetta decidere quando le nostre anime devono tornare a loro.»

«In una guerra i soldati non chiedono il permesso agli dèi.»

«È per questo che le guerre sono sempre un crimine. Ed è per questo che tu devi lavorare sodo per contrastare i nemici ed essere un esempio per gli amici.»

Evitai di guardarlo negli occhi. Ero ben lontano dall'essere un esempio. Una folata di vento avrebbe tranquillamente potuto spingermi un po' più in là. «E la seconda cosa che devo ricordare?» borbottai.

«Che Delthar è la tua casa. Gli usi, la cultura e il calore di questo regno scorrono nelle tue vene.»

Le guance mi divennero viola. «Se Delthar è la mia casa, perché gli altri bambini mi chiamano bastardo

«Perché i loro genitori non hanno ancora incontrato qualcuno che gli insegni che i confini dei regni sono solo questo: confini.»

«Intanto, però, non giocano con me» mi lamentai. «Mi lanciano i sassi.»

Lo vidi rabbuiarsi. Quasi temetti di aver rivelato troppo. «Un giorno, Eden, se sarai abbastanza forte, forse riuscirai a cambiare le loro menti. Le loro, e quelle di molti altri.»

«Come no...» Dondolai sui piedi e scalciai un mucchietto di foglie secche.

Mi riafferrò per il mento. «Terzo, non smettere mai di guardarti alle spalle. Non conosci davvero una persona finché non l'hai vista nel suo momento peggiore. Non fidarti neanche della tua ombra.»

La notte seguente, mio padre e mia madre vennero assassinati. Durate la mia folle fuga verso la capitale, non smisi un istante di ripetermi: «Nessuno fa fuori Eden di Delthar». Neanche quando la sensazione degli aggressori che mi seguivano tra gli alberi mi fece tremare le viscere. Neanche quando mi nascosi sotto una radice, la testa al riparo sotto le braccia, in attesa di sentire i loro passi allontanarsi.

Avrei avuto tante altre occasioni per ripensare a quell'ultima notte di allenamento con lui, soprattutto negli anni che trascorsi in Accademia. Soprattutto durante le torture di ser Adam.

Nessuno fa fuori Eden di Delthar.

Quelle parole erano l'unica eredità che mi avesse lasciato mio padre.

Spalancai gli occhi e presi un respiro così violento che mi bruciarono i polmoni. Avevo sognato di nuovo mio padre, l'Accademia e Reen.

Da quando mi avevano buttato nella stiva della nave non avevo fatto altro. Nei momenti buoni – ed erano stati pochi –, nel sonno sprofondavo tra le braccia di Aureen. Sentivo il calore del suo contatto e il sapore salato della sua pelle. Erano i miei rari momenti di tregua, che però diventavano uno strazio ogni volta che riaprivo gli occhi e mi ritrovavo nel buio ondeggiante della nave.

Non ci fu né pietà né altro per me: ero incatenato a una trave e costretto a pisciarmi addosso. Ero solo, lì sotto. Sempre se non teniamo considerazione dei topi. A quanto pareva, la mia vita valeva meno della loro, che camminavano sul mio poco cibo e annusavano le mie ferite senza paura. Ci sarebbe stato bisogno di un gatto.

Willy.

Lo stomaco mi si strinse al punto che mi venne un conato. Non so cosa avrei dato per rivedere quel figlio del demonio anche solo un'ultima volta.

Nei miei momenti peggiori, durante la traversata, mi facevo cogliere dal panico e dalla convinzione che non avrei mai più rivisto le coste di Delthar. Che non avrei mai più affondato le dita tra i fitti ricci di Aureen. Che non avrei mai più sentito il suo profumo.

«Nessuno fa fuori Eden di Delthar.» Insistevo sempre a voce alta.

Non poteva essere finita per me. Non ancora. Non prima che avessi infilzato la testa di Claudius e quella di re Dorian su una picca.

Le catene intorno ai miei polsi erano così strette da ferirmi la carne. E le contusioni del pestaggio che avevo subito, mi avevano reso così inutile da non riuscire a far scattare la serratura del lucchetto. Era un trucchetto semplice, tanto che qualsiasi ragazzino Inverso sarebbe stato in grado di liberarsi.

Il terrore per quello che stava passando Aureen era un pensiero costante. Erano passati almeno cinque giorni, e ancora non ero riuscito a mandare giù quella poltiglia ignobile che le guardie delle Terre Libere mi presentavano in piatti lerci. Non era il disgusto a chiudermi lo stomaco, e neanche il mal di mare.

Era la paura che avevo visto negli occhi della mia regina.

Sperai che non l'avessero separata da Jared. Forse lui sarebbe riuscito a proteggerla più di quanto avessi fatto io. Alec era stato rispedito a Delthar e Valerin...

Non riuscivo a pensare a lei senza sentire la bile salirmi in bocca. Faceva più male delle ferite che mi avevano inflitto.

La Valerin che ci aveva venduti, quella che non si era fidata a confidarsi con me, non era la Valerin che conoscevo. O che avevo sempre creduto di conoscere.

Non riuscivo a decidere se ero più ferito o più arrabbiato. Mio padre mi aveva avvertito: non dovevo fidarmi di nessuno.

«Bastardo,» la voce del mio carceriere mi riscosse dai torbidi pensieri che mi annebbiavano la mente, «ti conviene mandare giù quella roba prima che attracchiamo. Non avrai molte altre occasioni per mangiare. Considerala la tua ultima cena.»

Quando sollevai la testa verso l'apertura in cima alle scale fui costretto a stringere gli occhi. La luce alle sue spalle, per quanto fioca, era pura violenza per le mie pupille ormai abituate al buio. A poco a poco, però, i contorni dell'uomo si fecero nitidi e notai che stava indicando il piatto con la poltiglia che mi giaceva davanti dalla sera precedente.

«Siamo arrivati?»

«Sbarchiamo a breve. Nutriti.»

Sbatté la porta e mi lasciò di nuovo da solo.

Il cibo che avrei dovuto mangiare si era dimezzato rispetto a quando mi era stato portato: i topi ci erano passati prima di me, e avevano deciso che era talmente disgustoso che non valeva la pena finirselo.

Allungai la mano ancora incrostata di sangue e afferrai la scodella. Arricciai il naso e presi una manciata di quella roba direttamente con le dita. Non mi avevano concesso il lusso neanche di un cucchiaio. Me la portai in bocca senza tentennare troppo, e quando mandai giù feci del mio meglio per impedire allo stomaco di riversare tutto a terra.

Mangiai ancora.

Quando finii, mi appoggiai con la schiena alla parete e mi tenni la pancia con le mani. Avrei mandato giù palate di merda, se mi avesse permesso di tornare da Aureen.

Era già arrivata da re Dorian? Era già stata trascinata lungo la navata fino all'altare cerimoniale? Era già trascorsa la prima notte di nozze?

Serrai la mascella e i pugni.

Lo avrei ucciso, cazzo. Li avrei uccisi tutti.

La porta in cima alle scale si spalancò di nuovo. Questa volta, il mio carceriere non era solo. Lui e altri tre uomini – come se in quelle condizioni fossi davvero una minaccia – vennero giù per i gradini e mi costrinsero ad alzarmi. Ci fu il tintinnio delle chiavi e il suono delle catene che cadevano a terra, prima di essere sostituite da un paio diverso. Su gambe tremanti, e sorretto dalle braccia delle guardie, raggiunsi la tolda.

Serrai gli occhi per l'improvvisa e fastidiosa luce del crepuscolo. Quando però li riaprii mi mancò il fiato.

Il mare bagnava docile le coste di sabbia chiara. Al di là di questa, una cittadina colorata cresceva fin sopra alla collina. I gabbiani volavano in circolo intorno ai faraglioni, sullo sfondo di un cielo color indaco. In aria c'era il profumo della salsedine e di qualcosa che sulle prime non seppi riconoscere. Solo più tardi realizzai che quello era l'odore della pelle di mio padre.

Le Terre Libere erano bellissime.

«Benvenuto a casa, bastardo» mi derise un carceriere con un ghigno.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top