44- EDEN
L'asfalto mi aveva scorticato la pelle, e la ferita alla coscia pulsava forte quasi quanto la mia testa. Ma era il dolore che sentivo nel petto, il più atroce.
L'avevano portata via. E io non avevo potuto fare nulla per impedirlo.
L'idea che la toccassero, che la portassero da quel verme di Mastro Claudius, o che la conducessero da re Dorian, mi faceva contorcere le budella.
Mi svegliai al centro della piazza poco prima dell'alba. Gli abitanti di Beaver non si erano ancora svegliati e la pioggia aveva smesso di cadere. Saremmo dovuti salpare quella mattina per raggiungere il regno di Crysia e pregare per l'aiuto di quel bastardo del principe Zades. Ma il nostro posto sulla nave lo avrebbe occupato qualcun altro, perché Aureen non c'era e io non l'avrei lasciata indietro neanche per tutto l'oro del mondo.
Alec aveva continuato a respirare e, seppur ferito, era ancora vivo. Aiutandoci l'un l'altro, tornammo alla locanda. Jar, comprendendo che la regina era stata rapita, sbatté i suoi grossi pugni sulla porta della stanza, sfondandola. Era rimasto sveglio tutta la notte, indeciso se venirci a cercare o se restare alla guardia di sua sorella. Val, invece, ammutolì. Il pallore dovuto alla ferita peggiorò, poi tentò di proporre in suo piano: andare a Crysia a implorare l'aiuto di Zades per salvare Aureen.
«Andate voi, se volete. Io non metterò piede su quella nave finché non l'avrò ritrovata» sentenziai. «Parto immediatamente.»
«Amico, non puoi andare lontano conciato così» protestò Alec, tamponandosi il taglio sulla fronte con uno straccio. «E noi non...»
Mi infilai la giacca e mi assicurai due spade sulla schiena. «Non vi sto chiedendo di venire. Vado da solo. Darò meno nell'occhio.»
Jared mosse un passo in avanti. «Non se ne parla, io vengo con te.»
Gli posai una mano sulla spalla. «Tu resti qui. Devi proteggere tua sorella, Alec non potrà farlo finché non si sarà ripreso.» Quest'ultimo abbassò lo sguardo, mortificato. «È un ordine.» Fui coinciso e gli risparmiai il tentativo d'insistere. Li guardai un'ultima volta, prima di uscire dalla stanza. La sacca contenente la Corona mi pesava sul fianco. «Badate a quella bestiaccia.»
Willy, intanto, guardava irrequieto fuori dalla finestra battendo ritmicamente la lunga coda nera.
Finsi di non sentire il dolore che mi costringeva a zoppicare e in breve sellai il cavallo. Dubitavo che quelle guardie si fossero prese il disturbo di cancellare le orme che si erano lasciate dietro. E avevo ragione. Guardando con attenzione, individuai presto delle tracce. Con un po' di fortuna, li avrei raggiunti in una giornata di cammino. Dovevo solo evitare di bere, mangiare, dormire. Potevo farcela.
Le temperature calarono in fretta e, quando mi accorsi che stavo per scivolare dal cavallo a causa del sonno, mi costrinsi a fermarmi e a riposare. Guardai il cielo tra le fronde degli alberi e mi accorsi che, in lontananza, si stava avvicinando un nuovo gruppo di nubi grigie. Un'ora al massimo e sarebbe tornato il temporale.
Più tardi, di nuovo in cammino, ero talmente esausto per realizzare in tempo che stavo perdendo le loro tracce. La pioggia che aveva iniziato a cadere le stava cancellando tutte.
Imprecai, spronando il cavallo ad andare più veloce. Ma non servì a molto: ero del tutto perso. Dalla direzione che avevano preso, avevo capito che si stavano dirigendo verso Nord, verso il regno di Kodor. Ma quelle erano foreste a me sconosciute, ci misi un attimo a smarrirmi. Sotto al muro di pioggia che mi gelava fin dentro le ossa, giravo in tondo alla ricerca di una pista.
«Merda!» gridai.
Chiusi gli occhi. Non avevo altra scelta se non affidarmi all'istinto. Da quando l'avevo incontrata per la prima volta, avevo sentito in me un legame con Aureen. Non un legame come un altro, qualcosa di più profondo e, in qualche modo, tangibile. C'era un filo invisibile che conduceva da me a lei. Lo stesso filo invisibile che avevo seguito quando ero stato mandato a cercarla nel mondo degli umani. Era un istinto, un senso in più. Un senso che aveva il suo nome.
Ma non era solo quello a indicarmi la strada. La Corona aveva smesso di provare a tentarmi, come aveva fatto per tutto il viaggio, e aveva iniziato a mandarmi degli impulsi che sperai volessero spingermi verso Aureen. Voleva riunirsi alla sua legittima padrona.
Riaprii gli occhi, più determinato che mai.
Gli dèi dovevano aver preso a cuore la mia missione, perché il vento cambiò portandosi via le nuvole pregne di pioggia. Galoppai per mezza giornata, ma alla fine ritrovai delle tracce. Notai a terra dei segni di lotta, come se qualcuno fosse stato trascinato a forza.
Avrei fatto pagare ogni secondo della sofferenza che le avevano inflitto. Feci schioccare le redini e, ignorando le fitte alla gamba a ogni passo del cavallo, mi lanciai nel folto della foresta.
Era notte fonda quando udii per la prima volta le loro voci. Qualcuno cantava intorno a un fuoco, qualcun altro rideva. Smontai e legai il cavallo a un albero. Con passo felino, per quanto la coscia fasciata mi consentiva, mi avvicinai all'accampamento. Tra i cespugli, studiai quegli uomini: mangiavano e bevevano come porci.
Poi, i miei occhi si posarono su una piccola figura inerme legata a un albero. C'era un uomo sopra di lei, e le sue labbra erano sulle sue. Divenni quasi cieco.
Era. Su. Di. Lei.
Le guardie, attirate dai versi di quell'animale che non vedevo l'ora di sventrare, accerchiarono Aureen e il suo aggressore assistendo liete alla scena. E aspettando il loro turno.
Ma mi sarei fatto ammazzare, piuttosto.
Un tuono spaccò in due il cielo e la terra mi tremò sotto i piedi. Ero stato io a provocarlo?
Sbucai dal mio nascondiglio, ma nessuno fece caso a me. All'improvviso, la guardia che le stava addosso, cominciò a boccheggiare.
«Che succede?» domandò qualcuno.
Fu allora che sfilai dal fodero sulla schiena una delle mie spade. Non ci pensai un istante e, con un colpo secco, lo decapitai. La testa sbatté sulle foglie secche e rotolò a qualche passo.
«Succede che siete morti.» Non riconobbi la mia stessa voce, per quanto sembrava provenire da un altro mondo.
A quel punto, si scatenò il putiferio.
Io ero molto più debole di loro, ed ero uno solo. Ma anche molto, molto più incazzato. Una determinazione più forte della loro mi teneva dritto sulle gambe. Sfilai anche la seconda spada e li affrontai senza alcuna paura.
Le mie lame disegnarono archi in aria e tinsero il terreno di rosso. Una delle due rimase piantata in un cranio, perciò sfilai agile e svelto un pugnale che, roteando il braccio all'indietro, conficcai nell'occhio dell'uomo che avevo alle spalle. Quello che avevo di fronte, invece, tentò di parare i miei colpi, ma alla fine si dovette afferrare alla spada che gli perforava lo stomaco e che guardò stupito prima di crollare sulle ginocchia.
Non fu l'ultimo a morire, quella notte. Ma dopo il primo lungo sgarro che ricevetti sulla schiena, e che però non mi uccise, iniziai a perdere colpi.
Provai ad attingere ai miei poteri di Inverso delle tempeste, ma risposero debolmente. Riuscii quindi a sollevare solo vento, ma abbastanza forte da costringerli a socchiudere le palpebre.
Uno di loro, l'unico Inverso che come me possedeva dei poteri, sollevò le mani e le radici degli alberi bucarono la terra per venire ad arrotolarmisi intorno agli arti. Era un Inverso della flora.
Feci leva e tirai con tutte le poche forze che mi erano rimaste, riuscendo a gonfiare il muscolo del braccio abbastanza perché la radice si spezzasse. Poi però mi costrinsero a genuflettermi e a finire a terra.
Non mi arresi, continuando a lottare per sollevarmi. Fu allora che, per la seconda volta nel giro di pochi giorni, la Corona di Tenebre si fece avanti per proteggere la sua legittima regina. Lo capii dal fumo azzurrognolo che fuoriuscì dalla sacca.
«Reen» gridai per sovrastare il frastuono. Mi lanciai un'occhiata alle spalle e incontrai i suoi grandi occhi spalancati per la sorpresa. «Accetta il potere della Corona.»
Non le chiedevo di farlo per salvare me. Le chiedevo di farlo per non permettere a quegli uomini, e mai più a nessun altro, di sfiorarla ancora con un dito.
Il suo sguardo si riempì di una bramosia che mi mise i brividi. Ma fui costretto a ignorarli, perché le spire di fumo serpeggiarono fino a lei. Le si arrampicarono sulle braccia e lei le assorbì. Poi ribaltò gli occhi all'indietro e le corde che la tenevano legata si sciolsero come serpenti che si ritiravano.
Aureen allargò le braccia, aprì i palmi rivolgendoli al cielo e, quando li chiuse di scatto, tutte le guardie crollarono a terra col collo spezzato.
La Corona si riprese la propria magia, e Reen, dopo un singulto, si accasciò contro la corteccia dell'albero, svenuta.
Mi lanciai ai suoi piedi. La testa le pendeva molle da un alto. Le afferrai il mento e tentai di svegliarla con qualche leggero buffetto sulla guancia. «Apri gli occhi.»
Ma non ci fu alcuna reazione. Forse era solo esausta. Sì, doveva essere così. E io dovevo portarla via da quel luogo. Ignorando la fitta alla gamba, presi Reen tra le braccia e la sollevai. Zoppicai fino al cavallo, scavalcando i cadaveri, e lasciando che il suo respiro caldo contro il mio collo mi confortasse.
Me la tenni stretta contro il petto per tutto il tempo, assicurandomi che continuasse a respirare, terrorizzato che smettesse di farlo da un momento all'altro.
Così, quando dalle sue labbra uscì un lieve gemito, quasi scoppiai a piangere dal sollievo.
«Reen, stai bene?»
Lei sbatté gli occhi e li sollevò verso l'alto, incontrando i miei. Provò a sorridere, ma la bocca le si contorse in una smorfia di dolore.
«Fermiamoci...»
Tirai le redini del cavallo, obbedendo all'istante, e mi guardai attorno alla ricerca di un rifugio. Individuai una caverna a poca distanza. Non sarebbe stato come dormire nel suo lussuoso letto al palazzo, ma sarebbe stato di certo meglio della groppa del cavallo.
Smontai, costringendomi a non sibilare per il dolore, e legai le redini a un ramo. Dopodiché, lasciai che lei mi scivolasse tra le braccia.
Piccole gocce di pioggia mi caddero sulla fronte e ne gioii, perché sarebbe stato facile rimediarle da bere. La portai nella grotta e l'adagiai a terra.
«Aspettami qui, corro a raccogliere della legna per tenerti al caldo.»
Il tempo di uscire e tornare, e lei era crollata nuovamente nel sonno. Ma questa volta ero più tranquillo perché sapevo che si sarebbe svegliata.
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