33- AUREEN

Ero pietrificata.

«Reen,» Eden poggiò le mani sulle mie spalle, «sei deliziosa quando ti imbamboli. Ma non abbiamo tempo.»

«Vado a cercare Jar e Val, ci vediamo giù.» Alec schizzò fuori dalla mia stanza.

«Dobbiamo...»

L'indice di Eden finì sotto il mio mento e mi convinse a guardarlo negli occhi. Due occhi di smeraldo profondi come buchi neri. «Dobbiamo prendere il diario e la Corona di Tenebre. E sparire alla svelta.»

«Ma sono la regina... e tu sei il capo delle forze armate, non possono costringermi a sposare re Dorian. Non possono costringermi a fare nulla.»

«Claudius ha saputo muovere più pedine di noi, sulla scacchiera. Alcuni dei miei uomini mi si sono rivoltati contro. Non obbediscono più. Gli avrà di certo promesso qualcosa... sta di fatto, che qui non è sicuro. O ti svegli e muovi quelle gambe, o dovrò sollevarti di forza. A te la scelta.»

«Non me ne vado senza Willy.»

Roteò gli occhi. «Bene.» Il mio gatto sonnecchiava sulla coperta. Convincerlo a entrare nel trasportino fu semplice.

«Come facciamo con la Corona? Non possiamo toccarla e io non posso starle lontana.»

«A questo penso io. So cosa devo fare. Ecco,» prese una sacca dal mio armadio, «ficca qui dentro tutto quello che ti serve. Vado a recuperare una cosa. Sii svelta.»

Quando anche Eden uscì dalla stanza, mi concessi un paio di secondi per fare dei respiri profondi.

Mio padre era morto, nessuno poteva proteggermi dagli intrighi di Mastro Claudius. Zades era partito, lasciandomi lì con un bruto come pretendente. E ora sarei stata costretta ad abbandonare la mia casa per andare... dove?

Lasciai perdere gli abiti dalle gonne a più strati e infilai nella valigia solo indumenti comodi e caldi. E il diario, che fino ad allora era rimasto nascosto tra la testata del letto e il muro. Le mani mi tremavano nel cercare di chiudere la sacca.

Feci del mio meglio per ignorare il rumore del mio cuore, ma era impossibile quando questo mi martellava senza tregua nelle orecchie.

Era la seconda volta, negli ultimi tempi, che la direzione della mia vita cambiava d'improvviso e senza preavviso.

Eden era tornato e teneva tra le mani una scatola di acciaio brillante. Era uno scrigno, e lo avevo già visto da qualche parte. «Sei pronta?» Afferrò la maniglia del trasportino e m'incoraggiò a seguirlo.

«Che roba è?»

Sollevò l'oggetto intanto che partiva di corsa per i corridoi. «Acciaio elfico. Tuo padre lo usava per custodire gli intrugli che gli faceva bere il gran sacerdote quando si è ammalato, roba che irradiava un potere che era meglio non raggiungesse altri. Questa scatola è in grado di isolare la magia.»

Ricordai all'improvviso di averlo visto sul suo comodino la sera in cui trovai il diario. L'avevo trovato vuoto perché gli intrugli che aveva assunto in vita, ormai, non c'erano più. Mi ci volle una buona dose di forza di volontà per dimenticare che, in quel momento, non stavo solo fuggendo per mettermi in salvo. Stavo anche abbandonando il regno che mio padre mi aveva affidato.

Raggiungemmo le cucine deserte, ci tuffammo sulla lunga scalinata che portava alla cripta e, dopo un solo momento di esitazione, spinsi la porta. Solo a me si sarebbe aperta.

Willy rizzò il pelo e soffiò.

L'energia della Corona di Tenebre si diffondeva in tanti tentacoli di fumo bluastro. Sentivo che riusciva a percepire la mia presenza.

Ti stavo aspettando, Altezza.

Le orecchie presero a ronzarmi e i muscoli s'intorpidirono. Era come se stessi perdendo gradualmente il contatto col mio corpo, era come se fosse lei a guidarlo.

Mossi un passo e poi un altro, spinta dall'unico desiderio di raggiungerla. Quel potere cupo e tenebroso mi accecava. Non riuscivo a vedere null'altro che le punte aguzze della Corona, le sue gemme brillanti e la nebbiolina che sprigionava.

Doveva essere mia.

Era mia.

«Aureen.» Mi ammonì Eden, quando sollevai una mano. «Non devi toccarla.»

Resistere all'impulso di afferrarla era come chiedere a un assetato nel deserto di non precipitarsi verso l'unica fonte d'acqua.

Avevo la gola secca. Mandai giù della saliva senza staccare gli occhi dalla mezza colonna sulla quale era poggiata la Corona.

«Come faremo a metterla nella scatola?»

«Per favore, allontanati.» Era preoccupazione quella nel suo tono.

Sbattei finalmente le palpebre e scossi la testa cercando di tornare in me. Feci come mi chiedeva e tornai alla porta.

Sguainò la spada e posizionò lo scrigno accanto alla colonna. Attento e concentrato, poi, spinse la Corona con la lama e chiuse il coperchio con uno scatto secco. L'acciaio non stava però impedendo al potere di raggiungermi e di accarezzare le parti più deboli e fragili di me. La sentivo ancora.

«Andiamo.» Mi afferrò per la manica e mi tirò dietro.

«Posso tenerla io.»

Ero divisa in due metà: una che tentava di ignorare il desiderio di toccarla e che sperava che Eden le impedisse di arrivare a farlo, l'altra che assecondava le richieste della Corona.

Sono tua e tu sei mia, mi sussurrò lei.

Eden mi lanciò un'occhiata diffidente da sopra la spalla. Stavamo correndo su per le scale quando infilò lo scrigno in una sacca. «Toglitelo dalla testa. E impara a resisterle.»

Mi morsi il labbro e gli stetti dietro. L'impulso di afferrarlo per la divisa e tirarlo indietro era forte. Se avessi voluto, forse avrei potuto scaraventarlo giù dalle scale e sottrargli la scatola. Il senso di colpa per quel pensiero mi colpì allo stomaco come una pugnalata.

Avrei potuto fare del male a qualcuno per la Corona? Avrei potuto fare del male a lui?

Arrivati alle cucine ci ritrovammo di fronte tre guardie. Stavano aspettando noi.

«Fantastico» borbottò Eden. «Soldati, toglietevi di mezzo.»

«Non prendiamo più ordini da te, feccia» rispose uno di loro, sputando ai nostri piedi.

«Non volevo arrivare a questo.» Il mio gran cavaliere posò a terra il trasportino del gatto.

Poi sfilò la spada dal fodero. I tre si guardarono divertiti, pronti al sangue. Nell'aria calò un'energia testa. Eden non si sarebbe difeso.

Ma si preparò ad attaccare.

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