12- EDEN

TRIGGER WARNING: attenzione, in questo capitolo si parla di violenza sessuale.

Il tempio era ghermito di gente.

Guardie, cavalieri, funzionari, ambasciatori degli altri regni. Non mancava proprio nessuno. I banchi che costeggiavano la navata erano decorati da lunghi rami rampicanti di Aureenyria Santaminas, il fiore simbolo del regno di Delthar, e dal quale derivava il nome della nuova sovrana.

Al centro, un'alta pira di legno e paglia si ergeva fin quasi all'apertura nel soffitto a cupola. Su di essa, giaceva il corpo di re Aramis. Le serve degli dèi lo avevano avvolto in una veste candida e pura che lo avrebbe condotto nel limbo dei regni, luogo nel quale avrebbe riposato per l'eternità.

Non ascoltai neanche una delle pompose parole che uscirono dalla bocca del sacerdote. Avevo sempre odiato la retorica di certi contesti.

Con la mente, tornai a quando arrivai a Delthar, capitale del regno. Ero sporco di sangue e senza nessuno al mondo. Non ricordavo molto della mia vita precedente al palazzo, uno dei pochi frammenti di memoria rimasto riguardava una donna dagli occhi dello stesso colore dei miei, riguardava le sue mani sporche di sangue e il terrore sul suo volto.

Mia madre.

Scappa.

Per lunghe settimane, una volta fuggito, non avevo avuto altra scelta che vagare per vie di Delthar elemosinando pagnotte di pane raffermo e rubando mele dai carretti. Ero spaventato da morire.

Soprattutto, ero terrorizzato dalla banda di teppistelli che non faceva che perseguitarmi. Le prendevo di brutto ogni santo giorno. E non c'era nessuno con me a pulire le ferite o ad asciugare le lacrime.

La tonalità della mia pelle, leggermente più scura di quella degli altri, era ciò che, più di ogni altra cosa, mi rendeva un bersaglio.

Bastardo.

Lo sussurravano i più discreti, e lo gridavano – additandomi – i più sfacciati. Ed era vero: ero un bastardo. Scartato da tutti e senza un luogo in cui stare.

Fu per questo che, a un certo punto, il bordello che si trovava alla fine della strada del mercato diventò la mia casa. Le puttane mi avevano accolto a braccia aperte. Molte di loro erano dolci e compassionevoli. Conoscevano il dolore e lo ritrovavano in me. E poi, gli facevo comodo. Le mie piccole dita riuscivano discretamente a sgraffignare qualche moneta in più dalle tasche dei clienti. E le facevo ridere. Più di tutte, facevo ridere Miss Tammy.

L'ultima notte passata sotto il tetto di Madama Charlotte, avevo rubato il bottino al gruppo di teppisti che mi aveva preso di mira. Ma non ero stato abbastanza discreto e mi avevano scoperto. Ero corso fino al bordello senza mai guardarmi indietro, ma sentivo i loro passi vicini. Temevo che le porte della casa non li avrebbero fermati; quindi, percorsi il lungo corridoio e m'intrufolai in camera di Miss Tammy.

Sentii il suono familiare della sua risata. Immaginai che non fosse sola, ma avevo paura che uscendo di lì mi sarei fatto scoprire. Perciò, senza indugio, raggiunsi la pesante tenda di tessuto verde e mi ci nascosi dietro.

«Ser» ridacchiava lei, ma sentivo che nascondeva una nota di disagio. «Perché non beviamo prima un bicchierino?»

«Non ho pagato per bere rum da quattro soldi. Spogliati.»

Ci fu un attimo di silenzio.

«Ser...» Tammy era seria, a quel punto. «Non mi sento a mio agio. Preferirei...»

Ci fu un suono secco. Sbirciai da una fessura e vidi il cavaliere vestito con i colori reali tenere la donna per la gola. Le aveva fatto sbattere la testa contro il muro.

«Devo spogliarti io?»

«Ser, vi prego...»

«Vi prego» la scimmiottò lui, slacciandole la veste. «Lo sapete? La paura nei vostri occhi è ciò che mi eccita di più.»

Sciolse il nodo della cinta e le strattonò via l'abito. Miss Tammy tremava, nuda, sotto le mani di quell'uomo. Un moto violento di rabbia mi ruggì nel cuore.

«E ora,» continuò lui, abbassandosi le brache, «fatemi divertire.»

«No.»

Lottò per liberarsi dalla presa. Ma la guardia le assestò un sonoro schiaffo sulla guancia e lei cadde sulla scrivania. Il viso le era diventato rosso per l'impatto. I suoi occhi colmi di lacrime si sollevarono e trovarono i miei. Non ebbi la prontezza di rituffarmi dietro la tenda. Fece un impercettibile cenno con la testa, chiedendomi di rimanere nascosto.

Ma quando l'uomo le si mise alle spalle e la prese con la forza, facendo sbatacchiare i cassetti della scrivania senza che lei opponesse più resistenza, il mio istinto ebbe la meglio.

Rividi nel viso di Miss Tammy la stessa paura che avevo letto su quello di mia madre. E questa volta non sarei fuggito.

Scivolai di lato e con la mano tastai il muro alla ricerca dell'attizzatoio che si trovava accanto al caminetto. Le mie dita si strinsero sul metallo tiepido e, senza pensarci, uscii allo scoperto. La guardia si accorse di me solo quando ormai era troppo tardi e il ferro gli sbucava dal fianco.

«Cazzo...» aveva fatto giusto in tempo a dire, prima di crollare a terra in una pozza di sangue.

Miss Tammy non si curò di coprirsi e mi si lanciò addosso. Le sue morbide mani andarono alle mie guance. «Eden! Eden, cosa hai fatto!»

«Vi ho salvata, Miss. Voi... non volevate che quell'uomo vi toccasse.»

I suoi occhi si riempirono di qualcosa che somigliava alla gratitudine. Inginocchiata di fronte a me, mi strinse in un abbraccio.

«Eden...» aveva continuato a ripetere tra i singhiozzi. «Non avresti dovuto.»

«Voi non volevate, Miss Tammy...»

Mi scostò una ciocca di capelli dal viso e mi baciò sulla guancia. «Io ci sono abituata, Eden... vieni, dobbiamo andare a parlare con Madama Charlotte.»

Non ci fu altra scelta: dovevamo restare in silenzio. Nessuno doveva sapere cos'era accaduto in quella stanza. La matrona del bordello era stata categorica. Ma quando le guardie vennero a indagare sulla sua scomparsa, e se la presero con le prostitute che urlavano tirate per i capelli, mi feci avanti.

Miss Tammy gridò come una matta quando mi trascinarono via di lì, al cospetto di re Aramis. Avevo ucciso una guardia reale, la pena era la morte.

Nonostante il sudiciume che mi ricopriva dalla testa ai piedi, camminai con la schiena dritta e il mento alto. Speravo che mostrandomi coraggioso, alla fine lo sarei stato sul serio.

Nessuno fa fuori Eden di Delthar.

Re Aramis, però, non era il mostro che credevo. Aveva ascoltato la mia storia, a partire dal momento della mia fuga su ordine di mia madre fino a quel momento.

Le prostitute ricevettero un lauto risarcimento per le violenze subite dalle sue guardie, e io venni accolto al palazzo. Mi mancava Miss Tammy, ma a corte avevo trovato una nuova casa: Aureen.

Nel giro di pochi mesi avevo perso l'aspetto smunto. Ogni giorno avevo a disposizione una quantità infinita di cibo. Non dovevo far altro che seguire le lezioni, giocare con Valerin, Jared e Aureen, combinarne di ogni e non pensare proprio a niente. Almeno, fino a quando non arrivò il momento di entrare in Accademia e diventare una guardia reale. Una guardia reale come quella che avevo ucciso. Una vita per una vita, quello era il mio destino.

Ma re Aramis mi aveva salvato.

Io gli dovevo tutto. Ogni cosa.

E avrei ripagato il mio debito restando accanto alla sua splendida figlia che, il quel momento, fissava la pira con gli occhi arrossati. Lo sforzo che faceva per impedirsi di crollare era ammirevole.

«Finirà presto» le promisi, tornando al presente.

«Lo so.» Non staccò gli occhi dalla salma del padre.

Tre fiaccole presero fuoco sull'altare del sacerdote.

«Sei pronta?»

«Quello mai.»

Ci avviammo lungo l'ultimo tratto della navata. Io, lei e il gran cavaliere Jonah – guardia del quale avrei preso il ruolo – avremmo acceso la pira.

Contemplammo un lungo minuto di silenzio. Dopodiché, quando vennero intonati i canti funebri, posammo le fiaccole sulla base in paglia.

Nel giro di pochi secondi, un grosso falò che svettava fino all'apertura nel soffitto si rifletté nelle lacrime calde di Reen. Attento affinché nessuno lo notasse, agganciai il suo mignolo con il mio.

Lei sussultò. Quando i suoi occhi incontrarono i miei, vi lessi gratitudine.

Avrei voluto sorriderle. Ma avevo il volto paralizzato dal dolore. E comunque, non sarebbe servito a molto. Quello era il momento della sofferenza e del lutto, non lo si poteva cambiare.

Le fiamme divorarono quel che restava del re. Non lasciammo il tempio fino a quando non rimase che cenere.

Aureen preferì tornare al castello in carrozza. Si chiuse in un mutismo sofferto e non proferì più parola. Nessuno la biasimò per questo, forse neanche Mastro Claudius che sembrava persino soddisfatto per quella dimostrazione di dolore.

La sera era calata tutta insieme, ma il popolo non sarebbe tornato nelle proprie dimore. A fiumi si stava già riversando per le strade, diretto al palazzo. Si sarebbero tutti radunati sotto il balcone e avrebbero atteso di vedere la regina Aureen incoronata.

E, al suo fianco, il gran cavaliere del regno.

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