1 JOYCE
C'era puzza di fumo nel pub, ma non mi dispiaceva.
Una nebbiolina grigiastra aleggiava sulla folla che danzava al ritmo della musica. Ecco, la musica era l'unica cosa che davvero funzionava al Jak's . Non l'alcool abbondantemente allungato con l'acqua, non le ballerine che si muovevano svogliate sui cubi – la paga era davvero misera, perciò come dare loro torto? –, non gli stuzzichini che servivo ai tavoli riciclandoli dal cliente precedente. Se eri in giro in città e avevi voglia di verificare di persona il significato del termine "squallido", il posto giusto era il Jak's.
E dire che un tempo il locale aveva conosciuto una certa gloria. Su quel palco, ora disseminato di mozziconi di sigarette, avevano suonato i The Smiths, i Coldplay, i Velvet Underground, e il vecchio proprietario era stato amico di Lenny Kravitz. Ora, di certo, il cantante non veniva a trovarlo da un pezzo.
Le grandi celebrità neanche si azzardavano a mettere piede in quel covo di tossici e spostati, ma la musica restava niente male.
«Joyce, laggiù aspettano i due Mojito che ti hanno ordinato dieci minuti fa» mi rimproverò il capo, «muovi il culo.»
Joyce, chiaramente, non era il mio vero nome. Se volevo evitare che la corte di Delthar mi trovasse nel mondo degli umani, il primo passo era dimenticare le mie origini. Mi avviai verso il bancone appiccicoso e preparai alla svelta i due drink molto più che annacquati.
«Scusate il ritardo» mi rivolsi ai clienti – un uomo e una donna che, a dire il vero, erano troppo impegnati a palpeggiarsi perché potessero accorgersi di me –, quando portai loro l'ordinazione.
Arricciai il naso e mi allontanai prima che mi trascinassero nel bacio umido e salivoso. Che schifo.
Giuro che domani mi cerco un altro lavoro, pensai.
Il gruppo che aveva suonato per metà della serata ringraziò il pubblico e abbandonò il palco. Sperai che il secondo artista tardasse ad arrivare così che i clienti, scoraggiati, lasciassero il locale concedendomi di tornare a casa un po' prima.
Ma una testa riccia apparve sugli scalini che portavano a palco. Indossava pantaloni neri strappati sulle ginocchia, un chiodo di pelle e una semplice maglietta bianca, forse di un paio di taglie più piccola così da mettere in risalto il fisico asciutto e muscoloso. Sollevai gli occhi al cielo per la spacconata.
Portava a tracolla una chitarra elettrica di un lucidissimo rosso fuoco. Potevo giurare che quella fosse la prima cosa davvero pulita che entrava al Jak's da almeno due anni.
Nel locale regnava la penombra, ma quando si sfilò il plettro dalle labbra carnose non mi sfuggì lo sfavillio di un sorriso. Un sorriso molto insolente. Divaricò leggermente le gambe e iniziò a strimpellare scherzosamente la chitarra prima di cominciare a fare sul serio.
L'aria si riempì delle note di "Paradise City" e, dall'entusiasmo della folla, intuii che anche quella sera sarei tornata a casa sul tardi.
«Fantastico» borbottai, sparecchiando un tavolo lasciato lercio.
Alzai gli occhi fingendo disinteresse quando la voce del ragazzo si sollevò sulla melodia della chitarra. Era una voce ruvida, calda, non troppo profonda ma abbastanza perché si insinuasse nello stomaco. I miei occhi incontrarono i suoi di un verde fuso, insinuanti, maliziosi. Quel colore era familiare. Morbidi riccioli gli molleggiavano sulla fronte. Era bello come un diavolo, ma cantava come un angelo.
Decisi che quella sensazione di familiarità non era affatto un buon segno. Mi slacciai il grembiule e lo restituii al proprietario del locale. «Me ne vado.»
«Non pensarci neanche, la serata non è ancora finita.»
Scrollai le spalle. «Mi licenzio.» Ma sì, tanto avevo già deciso di cercarmi un altro lavoro.
«Se mi lasci col culo scoperto non ti pago la giornata» iniziava a diventare rosso per la rabbia. Stringeva il mio grembiule in un pugno minaccioso.
«Puoi tenerti quei quattro spicci.»
Nella discussione non mi ero accorta che la canzone era finita. Una figura scura e prominente si palesò al mio fianco e un braccio forte mi si strinse intorno alle spalle. «Ce ne andiamo» informò il proprietario del Jak's.
Alzai la testa per incontrare lo sguardo del chitarrista; lui mi fece l'occhiolino. Inarcai le sopracciglia.
Ci stava provando con me?
«No,» ribattei liberandomi dall'abbraccio, «io me ne vado. Tu resta pure quanto vuoi.»
Il vecchio si posizionò davanti all'uscita. «Non puoi andartene. Senza musica i clienti si sposteranno nel locale qui di fronte!»
«Spiacente amico» il ragazzo fece spallucce.
Il vecchio fumava di rabbia. «Fuori. Fuori!» urlò, arrendendosi e sbracciando nella nostra direzione.
Quando fummo in strada, circondati dal chiasso dei taxi, dalla gente ubriaca che ciondolava a quell'ora della notte, e dalla musica ovattata che proveniva dai pub di tutta la via, spintonai il chitarrista che non smetteva di starmi appiccicato.
«Levati dai coglioni, maniaco!»
Lui, ancora con la chitarra al collo, s'infilò le mani in tasca e buttò la testa all'indietro in una risata.
«È così che si salutano i vecchi amici?» domandò. «E poi non è in questo modo che parlano le principesse.»
Sbiancai.
Beccata.
«Dovrei sapere di che parli?»
«Fingerò di non sentirmi offeso perché non mi hai riconosciuto e andrò subito al sodo.» Mi seguiva lungo il marciapiede con nonchalance, come se ci conoscessimo da una vita.
«Non parlo con gli sconosciuti» proseguii, guardando dritto davanti a me.
«Tuo padre sta morendo. E chiede il tuo ritorno a casa.»
Mi arrestai di colpo. Una donna mi andò a sbatter contro e mi rivolse un insulto che però non registrai. Il mio cervello si era fermato.
No, non era possibile. Quella era di sicuro una trappola. Mio padre era un Inverso del sole, uno degli uomini più potenti dei regni. Non poteva morire...
«Chi cazzo sei, tu?»
Sollevò un angolo della bocca come a dire "finalmente". Ma c'era una nota triste nel suo sguardo. Si portò una mano alla testa afferrando un cappello invisibile e s'inchinò con un braccio posato dietro la schiena. «Ser Eden di Delthar» si presentò, «al vostro servizio, Altezza.»
Quando tornò dritto i riccioli erano spariti, sostituiti da una chioma di un biondo così lucido da riflettere le luci dei lampioni. Teneva i capelli legati dietro la testa lasciando in mostra la rasatura ai lati. Solo gli occhi verdi erano rimasti gli stessi.
Quasi mi cascò la mascella. «E-Eden?»
In una frazione di secondo riassunse il suo aspetto umano. Mi guardai attorno per assicurarmi che nessuno si fosse accorto della magia.
«In carne e ossa.»
«Ma tu...» balbettai. «No, impossibile.»
«L'Accademia finisce, prima o poi» mormorò, sporgendosi verso di me. «Ma devo confessarti che mi avresti riconosciuto subito. Sono deluso, Altezza.»
«Non chiamarmi così.»
Lui sorrise di nuovo con insolenza, ma vedevo che dietro quell'atteggiamento fanfarone stava nascondendo la compassione.
Grazie, ma no.
Lo squadrai dalla testa ai piedi. L'ultima volta che lo avevo visto era un moccioso paffutello sempre sporco di marmellata. Quegli occhi caldi, però, erano proprio gli stessi. Ora era... be'... era...
Lo colpii alla spalla. «Credevo fossi morto!»
Lui si tastò il corpo. «Io mi sento più che vivo.»
Sbuffai e ripresi a camminare, dovevo allontanarmi. Troppe informazioni tutte insieme. E mio padre... no. Non c'era un grammo di verità in quella faccenda.
D'improvviso, però, venni sopraffatta dal senso di colpa. Mia madre era morta quando ero molto piccola e, nonostante lui fosse il re, mi aveva accudita con l'amore sia di un padre che di una madre. E io, come prova di riconoscenza, ero fuggita dai miei obblighi reali da tutto il Mondo Inverso.
Ora lui stava... morendo?
Grazie, ma assolutamente no.
«Non avevo il permesso di rispondere alle tue lettere» si scusò, standomi al passo. «L'Accademia è un posto duro.»
«È anche un posto in cui si muore! Credevo ti avessero fatto fuori.»
«Nessuno fa fuori Eden di Delthar» ammiccò, e sembrava crederci sul serio.
«Come ti pare.»
Oltrepassai un carretto che vendeva hot dog alle due del mattino e m'infilai in un vicolo che puzzava di piscio di cane. O almeno sperai che fosse di cane. Ma avevo il cuore che batteva così forte e così dolorosamente che aveva poca importanza.
Mi fermai e mi voltai di colpo. Eden era proprio dietro di me. «Cosa... spiegami cosa gli è successo» ordinai, sperando di sgamare una menzogna.
Lui scosse la testa, mortificato. «Ho giurato che non te ne avrei fatto parola. Spetta a lui.»
«Stai mentendo» lo accusai assottigliando gli occhi e puntandogli l'indice sul petto.
Lui sorrise amaramente e fece per sfiorarmi la guancia, ma lasciò ricadere subito la mano quando lo guardai in cagnesco.
«Devi tornare a casa con me.»
«Non ci torno a Delthar...» ora ero meno convinta.
Non volevo rimettere piede in quella gabbia dorata in cui mi avrebbero costretta a indossare gonne, sorridere dietro una mano, mangiare come un passerotto. Ma se papà stava morendo...
Mi si inumidirono gli occhi.
«Pensi che re Aramis non abbia sempre saputo come trovarti, in questi ultimi due anni? Se non sei stata trascinata al palazzo è solo perché lui ha scelto di concederti la tua libertà. Ma tutto ha un limite. Se lo lascerai morire senza l'ultimo abbraccio di sua figlia, non sei la Aureen che conoscevo.»
«Tu non mi conosci affatto. E quella Aureen non esiste più. Ora mi chiamo Joyce.»
«Gran bel nome del cazzo» commentò, «con tutto il rispetto per le Joyce di questo mondo. Ma non puoi cambiare chi sei.»
Sospirai fissando una pozzanghera inquinata.
La mia serata già di schifo si era evoluta in una serata proprio di merda. Di fronte a quella prospettiva, persino gli stacci lerci del Jak's mi sembrarono più invitanti.
«Entrambi sappiamo che verrai con me. A cosa serve farla lunga? A ogni secondo che passa, re Aramis si spegne sempre di più. Non c'è tempo per giocare alla principessa ribelle.»
Se le condizioni fossero state diverse, se mio padre non fosse stato ad aspettarmi in un letto di morte, avrei alzato il dito medio a Eden e gli avrei voltato le spalle andandomene per la mia strada nel Mondo Verso, il mondo degli umani.
Forse Eden stava mentendo. Forse era un trucco per convincermi a tornare ai miei obblighi reali. Ma, se durante quei lunghi anni non era cambiato dentro quanto lo era fuori, non sarebbe mai stato capace di una cosa così crudele. E comunque, valeva la pena andare a controllare che effettivamente non stesse mentendo. Non avrei corso il rischio di non salutare mio padre per un capriccio.
«D'accordo» accettai, indurendo lo sguardo. «Ma scordati le gonne. Torno a casa con indosso i pantaloni.»
Le sue iridi brillarono di malizia. «Oh, tesoro. Per quanto mi riguarda puoi tornarci anche nuda.»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top