La collana
Buio, nero pece, come quella notte che era appena iniziata, cupa, tenebrosa. Lenta e inarrestabile arrivava dall'esterno, dalla visione dello scuro, dalle ombre incerte e tremolanti, che si formavano ai margini delle cose indistinte. Arrivava quella nuvola tetra e l'avvolgeva in un brivido, che la faceva sussultare dalla testa ai piedi. Quella sensazione cupa che si impossessava di lei in un attimo, mozzandole il respiro stanco, facendola rabbrividire. Brividi ora caldi, ora freddi, nuvole di pensieri in testa, burrascose, nere, temporalesche. La sua gola, sentiva qualcosa stringerle la gola, non si azzardava ad abbassare lo sguardo per il timore di vedere qualche creatura immonda. O forse era lei a essere sporca e aveva bisogno di essere lavata dai suoi peccati. Quell'oscurità la inghiottiva, se ne sentiva risucchiata come se fosse caduta in un vero e proprio buco nero. Dallo stomaco gorgogliante sentiva partire qualcosa, una sensazione viscerale di angoscia pura, di ansia che saliva su. A quel punto tornava la sensazione di "nodo" alla gola, quel malessere indicibile che la rendeva triste e cupa, come se qualcuno le puntasse una pistola alla tempia e le chiedesse di giocare alla roulette russa. Morta, tanto era morta dentro per l'assenza di emozioni, per quella condizione per cui non si sente più nulla e tutto ti scivola addosso. Avrebbe voluto sì, ma non poteva, quanto sarebbe bastato a lei per essere almeno un poco serena? Cause ed effetti, la cui maledizione le si rovesciava addosso come in un tiro al bersaglio. Poteva anche andare diversamente, poteva. Eppure ciò non era successo. La sua stramaledetta sfortuna. Senza via d'uscita, nemmeno una luce, niente, solo buio pesto. Almeno ci fossero state la luna e le stelle, ma il cielo era ricoperto da nuvole grigie. Era sdraiata supina su di una panchina e aveva troppo freddo. Quella notte la temperatura sarebbe ancora scesa al di sotto dello zero e lei non aveva trovato ancora un riparo. Doveva affrettarsi, se non voleva morire congelata su una panchina, sola, a combattere una solitudine di affetti che le inaridiva il cuore. Ce l'aveva sempre un cuore oppure l'aveva perduto per sempre in qualche posto remoto, di cui non si ricordava? Sola, sarebbe morta sola, dimenticata dal resto del mondo. A chi sarebbe importato? A nessuno. Eppure c'era un tempo in cui era stata amata, ma ora non più. Le ombre si allungavano paurose accanto a lei, un silenzio agghiacciante investiva ogni cosa. Non aveva voglia di alzarsi, non aveva voglia di fare niente, in realtà, meglio lasciarsi andare e morire di freddo su quella panchina anonima. Almeno non avrebbe più avuto problemi; era un modo di pensare vigliacco, se ne rendeva conto, però era vero anche che si sentiva tanto stanca di tutto, della vita in generale, di dover sempre e comunque essere impegnata in "battaglie" di sopravvivenza, per dimostrare poi qualcosa a qualcuno, ma a chi? A chi doveva dimostrare qualcosa? No, no, voleva solo sentirsi libera ed il mondo così come era concepito non glielo permetteva. Odiava essere prigioniera di ingranaggi precostituiti, già confezionati, in un tentativo odioso di omologazione alla massa informe di gente che si accalcava, a volte l'una sull'altra, per prendere il sopravvento ed emergere.
Alzò un attimo lo sguardo per osservare le chiome degli alberi che stavano ondeggiando, sospinti dal vento gelido di Gennaio. Sentiva anche il frusciare delle fronde, le foglie si stavano spostando per terra, creavano vortici e si alzavano, sotto la spinta della tramontana. Le giunse alle orecchie il latrato di un cane, che sentiva rimbombare in lontananza a creare echi molteplici, che si diffondevano nell'aria, fino a giungere a lei. Ad esso si aggiungevano altri lamenti di altri cani, che si univano come a formare un coro di richieste mute. Iniziò a non sentire più, prima le dita dei piedi e poi quelle delle mani. Era intirizzita, ma non aveva voglia di alzarsi. Chiuse gli occhi, aspettando chissà cosa. Perché le stava succedendo tutto questo? Perché proprio a lei? Non poteva essere felice invece? Perché doveva soffrire così? Non era per niente giusto. Sentì un rumore, un lieve fischio, seguito da uno strano fruscio. Si domandò cosa potesse essere, allora aprì gli occhi, che dovevano di nuovo abituarsi alla penombra. Di nuovo quel rumore, a mitigare od accrescere la sua paura. In lontananza il rintocco di una campana, che spezzò il silenzio ovattato di quella notte. Qualcosa le cadde in testa; all'inizio pensò che si trattasse di una pallina da ping pong, visto il rimbalzo che fece. Quella cosa la colpì sul berretto di lana, che portava ben calcato sul viso, poi scivolò giù e le rotolò ai piedi. Si chinò per raccoglierlo, ma appena si rese conto di cosa fosse realmente, un urlo strozzato le uscì dalla gola. Terrorizzata si guardò attorno ed iniziò a tremare. Chi poteva mai fare uno scherzo simile? Perché di uno scherzo si trattava, ne era sicura, non poteva essere altrimenti. Uno scherzo un po' macabro però, ma non c'era da stupirsi di niente. Al mondo c'era tanta gente che si divertiva con queste cose. La cosa però era piovuta dal cielo. Chi era stato a portarla fino a lei? Iniziò ad osservarlo e a rigirarselo tra le mani. Di forma cilindrica era di un bel bianco abbagliante e nel centro campeggiava un bel tondo azzurro, con un altro pallino più scuro. La sostanza rossastra che si notava in fondo e che era al tatto vischiosa si rese conto che era sangue. Di fronte a lei uno stormo di corvi neri stava svolazzando in cerchio e uno di questi appollaiato sopra un palo sembrava che la stesse osservando. Dimentica del freddo che le stava penetrando nelle membra si avvicinò agli uccelli. Per terra c'era qualcosa su cui alcuni di questi stavano infierendo. Si accorse con raccapriccio che era un cadavere di una donna. Il volto era tumefatto e presentava delle escoriazioni sulle guance. Era vestita con un pesante cappotto, che la ricopriva tutta. Prese il cellulare e non ci pensò due volte. Chiamò subito la centrale operativa della polizia, ma non le rispose nessuno. Strano, pensò lei.
Guardando meglio la donna le sembrò che avesse un volto familiare.
Prese un bastone e iniziò a ruotarlo con furia attorno a sé per spaventare i corvi e farli andare via.
Fino all'arrivo della polizia, che avrebbe cercato di chiamare a più riprese più tardi, non avrebbe dovuto toccare nulla, perché avrebbe potuto inquinare le prove.
Avvicinò ancora di più il suo viso a quella signora, voleva vedere meglio. I capelli neri le uscivano da sotto il cappello, le guance erano paffute. Il sorriso chiuso in una smorfia di dolore; non aveva gli occhi! Al loro posto le orbite vuote sanguinanti. Dunque quel bulbo oculare che era piovuto dal cielo era della signora. Erano stati i corvi! Voleva scappare, ma il terrore la faceva rimanere lì con i piedi inchiodati al terreno. La signora portava al collo una collana. Era una collana impreziosita da una gemma che mandava bagliori azzurrognoli.
Perché quella povera donna era stata uccisa in modo così barbaro?
L'angoscia l'assalì di nuovo, si sentiva persa e impotente al tempo stesso. Iniziò a pensare.
D'un tratto un'immagine le invase la testa.
Lo squallore delle strade di periferia, illuminate dalla luce arancione dei lampioni, il rumore stridente di freni di pneumatici che graffiavano l'asfalto; lei, ai margini in piedi ad aspettare con indosso una minigonna vertiginosa, un top brillantinato e tacchi a spillo da dodici, guardava passare le automobili roboanti, luccicanti con la loro carrozzeria vecchia e nuova, auto più lussuose, macinini sgangherati, che si lanciavano su quella strada, che assomigliava alla lingua gigante di un drago grigio, alla ricerca di una compagnia femminile che potesse allietare quelle notti senza fine di una periferia sciatta e anonima. Con lo sguardo appannato dai fumi dell'alcol, che era diventato un suo compagno abituale degli ultimi tempi, cercava di individuare qualche profilo, qualche viso e fisionomia all'interno di quegli abitacoli, sbuffanti nella notte, per individuare potenziali clienti. Li irretiva con le sue lunghe gambe che facevano bella mostra di sé, le valorizzava con calze a rete che le rendevano molto sensuali e con tacchi come quelli che portava di solito, rigorosamente a spillo e altissimi. I clienti fioccavano, gli uomini si lasciavano conquistare dal suo fascino perverso. Erano di tutte le età: giovani e più anziani e di qualsiasi condizione sociale: mariti insoddisfatti, vecchi libidinosi, giovani in cerca di emozioni. Una sera, se la ricordava bene non l'avrebbe più dimenticata. Lei stava aspettando, come di consueto ai margini della strada.
Stava aspirando avidamente una sigaretta Marlboro e ad ogni tiro la nuvola grigia si alzava verso l'alto in spirali di fumo ellittiche. Una macchina si arrestò proprio di fronte a lei; il finestrino venne tirato giù con lentezza e il viso di un bel giovane fece capolino e guardò in su.
L'aveva osservata e le aveva detto:
«Quanto sei bella! Quanto chiedi per regalarmi un po' del tuo tempo, magica creatura?»
Era diventato un suo cliente abituale, alla fine si era innamorato e le aveva regalato una collana con una spettacolare gemma azzurra, identica a quella che indossava al collo quella povera donna del parco. Ecco dove l'aveva vista! Ma non si ricordava dove l'avesse messa l'ultima volta, forse era andata persa dopo lo sfratto. Non aveva più soldi, visto che suo marito era morto lasciandola con un sacco di debiti da pagare. E pensare che quando l'aveva sposato sembrava una persona tanto per bene. Invece dopo il matrimonio, lui si era indebitato fino al collo, perché aveva il vizio del gioco e poi aveva pensato bene di togliere le tende, impiccandosi al lampadario della loro sala da pranzo, un giorno che lei era uscita per fare compere. Una visione raccapricciante, che le provocò incubi per molte notti. Il suo stipendio di segretaria non bastava per pagare le spese e i creditori, così perse la loro casa e le toccò andare a vivere in un condominio squallido, un poco distante dal centro. Dopo un po' non era più in grado di pagare nemmeno quello e venne sfrattata.
Quanta disperazione, quante ore passate in solitudine a pensare che la vita era stata ingiusta con lei. Si sentiva come uno straccio vecchio, ormai logoro, in procinto di essere gettato via, Quella solitudine amara aveva provato a scacciarla, ma invano, tornava a farsi sentire implacabile e l'avrebbe accompagnata fino alla tomba. Avrebbe voluto per sé una piccola speranza, come una scintilla di luce, da sedimentare nel suo cuore ormai indurito dagli affanni. Niente, non c'era niente in serbo per lei. Il destino le aveva riservato questo.
Accidenti, non arrivava nessuno!, constatò con rabbia e un po' di delusione.
Avrebbe voluto scaldarsi in qualche posto al caldo. Di sicuro i poliziotti l'avrebbero portata alla stazione di polizia, come persona informata sui fatti.
Non vedeva l'ora. Stava congelando. Non che non le importasse di quella poveretta, tutt'altro, sentiva di avere con lei molte cose in comune: il sentirsi ormai estranea alla vita, il non riuscire più a capire dove tutto questo l'avrebbe portata. Non conosceva la storia di quella sconosciuta, ma certamente se le era stato fatto questo, aveva grossi problemi. Era molto dispiaciuta per quello che le era successo. Chi poteva aver fatto una cosa simile? Alzò il viso verso il cielo, che nel frattempo aveva assunto una colorazione grigio biancastra. Chissà, forse presto avrebbe nevicato, il cielo era proprio di quel colore, plumbeo, il colore del cielo della neve. Chiuse gli occhi. Quand'era stata l'ultima volta che era stata serena? Ad un tratto un'immagine le si parò davanti. Quel ragazzo dagli occhi azzurri straordinari, che in una serata di disperazione, l'aveva salvata. Si chiamava Davide. Quella sera aveva bevuto troppo, il pensiero dei debiti che doveva ancora pagare e dello sfratto la tormentavano. Erano giorni che dormiva su una panchina e non ce la faceva più. Così si era ritrovata a specchiarsi nelle acque del fiume ed era rimasta affascinata dai mille riflessi che si riverberavano su quella superficie liscia, talvolta increspata da piccole onde. Ammaliata, stregata, avrebbe voluto annegare i suoi problemi in quell'acqua salvifica. Aveva scavalcato il parapetto, alzandosi in piedi e aveva allargato le braccia. A quel punto si era lasciata andare. Aveva provato una sensazione di liberazione, mentre precipitava giù e le acque l'accoglievano in un ultimo abbraccio. Ma il destino scelse diversamente per lei. Cadde giù a fondo come un sacco di patate, la sua testa ormai divenuta leggera sprofondò dentro quel liquido accogliente, gli occhi chiusi sentirono la potenza dell'urto. Una sensazione di pace l'avvolse, poi più niente, tutto buio. Ad un certo punto si sentì afferrare da un braccio possente, una voce le parlava dolcemente con un tono un po' più alto per farsi capire. Si sentì stringere in un abbraccio di vita, strappata alla condanna eterna, e si sentì deporre su qualcosa di morbido. Aveva i vestiti fradici e lo sconosciuto glieli tolse subito. Il pudore in certi momenti si dimentica. In altre occasioni si sarebbe vergognata di farsi spogliare così, ma non in quella. Rimase nuda, mentre lo sconosciuto cominciò a strofinarla e a frizionarla con un asciugamano che aveva in macchina. Ricominciò a prendere un po' di calore, a quel punto lui la portò a casa sua. La sua casa era accogliente quanto basta per metterla a suo agio.
Era un appartamentino molto carino con le pareti tinteggiate di colori dal giallo all'arancio che donavano quelle note calde che a guardarle ti riscaldavano il cuore; alle pareti erano appesi quadri di nature morte, uno dei quali catturò in modo particolare la sua attenzione. Era un dipinto molto bello che rappresentava un tavolino con sopra delle cipolle, un limone ed una brocca, davanti al quale si vedeva una finestra aperta su un paesaggio di campagna con un prato stracolmo di papaveri rossi. Le piaceva il modo in cui era stato arredato l'appartamento. Niente era stato messo lì per caso, dal divano azzurro del soggiorno molto spazioso, al tappeto argento su cui era stato collocato un tavolinetto di vetro, sopra al quale c'erano riviste di viaggi. Lei adesso sedeva in una sedia della cucina, anche questa molto accogliente e graziosa. Il suo interlocutore le aveva preparato un tè e la guardava con una sincera preoccupazione negli occhi e con apprensione.
Gli raccontò piangendo quella che era stata la sua vita fino adesso con poche parole, non si aspettava alcun tipo di comprensione, non l'aveva mai avuta da nessuno, ma Davide la guardava con uno sguardo di coinvolgimento. Era come se lui fosse partecipe insieme a lei delle sue sofferenze e la volesse in qualche modo liberare, o almeno quella fu la sua impressione. L'abbracciò a lungo, consolandola ed era quello di cui avvertiva forte il bisogno: rifugiarsi nelle braccia di qualcuno che le avrebbe fatto dimenticare per un istante i suoi problemi. Quella sera era stata bene e aveva dormito dopo tanto tempo in un letto caldo e morbido. L'indomani lui le disse che voleva farle conoscere dei suoi amici che l'avrebbero aiutata. Avevano aiutato lui, quando si era trovato in difficoltà e avrebbero aiutato anche lei.
Quegli amici non le piacquero fin da subito, erano molto socievoli, ma le sembravano falsi e come se recitassero una parte.
Dall'abbigliamento ai modi di fare trasudavano un'eleganza e una classe non da pochi. Seduti sul divano del salotto, dopo i vari convenevoli, cominciarono a parlarle della loro associazione. Si chiamava "Liberi come il vento", un nome alquanto significativo, pensò lei, e si impegnavano a cercare di far stare bene e di aiutare persone che si trovavano in gravi difficoltà.
In cambio dovevi diventare un adepto e abbracciare tutte le loro idee. Ciononostante, fece buon viso a cattivo gioco e promise che sarebbe andata a visitare la loro sede. Davide la convinse e ben presto divenne anche lei una socia. Conobbe altre persone e diventò un'assidua frequentatrice. Le trovarono un lavoro decoroso; tutto insomma sembrava procedere per il meglio. All'inizio sembrava tutto rosa e fiori, una specie di idillio e lei pensava veramente di aver trovato degli angeli custodi, poi queste persone si rivelarono nella loro vera natura: degli avvoltoi capaci di approfittarsi delle debolezze umane in maniera ignobile.
Avevano un preciso regolamento a cui dovevano sottostare tutti i partecipanti e chi disobbediva veniva punito. Era una specie di società dei fiori, le donne erano costantemente oggetto degli appetiti sessuali degli uomini ed erano tenute a soddisfarli, pena l'esclusione dalla setta, che aveva ripercussioni pesanti a livello personale. Non si sapeva quanto fossero pesanti queste ripercussioni, molte di queste donne che si erano ribellate sparirono all'improvviso e nessuno le vide più.
Così si trovò coinvolta suo malgrado in qualcosa di più grande di lei. Era stata ingenua a fidarsi, ma quando uno è disperato si aggrappa a qualsiasi cosa
Si era così trovata di nuovo in trappola. Voleva uscirne.
Iniziò ad avere paura, ogni volta che camminava per strada si guardava sempre indietro perché aveva l'impressione di essere seguita. Una sera che stava tornando dal lavoro a piedi, udì dei passi dietro di sé. Sconvolta si voltò, ma dietro di lei non c'era nessuno. Eppure lei li aveva sentiti quei passi! Non erano il frutto della sua immaginazione. La paura le si era insinuata sotto pelle, fino a divorarle le viscere. Non riusciva più a dormire bene neanche la notte. Immagini mostruose le si presentavano sempre davanti in incubi notturni, nei quali si vedeva rincorrere da dei loschi individui, che l'agguantavano per farle qualcosa di brutto. Così non poteva andare avanti. Voleva affrancarsi una volta per tutte da quella realtà, ma da quando aveva comunicato il suo volere, avevano preso a minacciarla, per telefono, per strada, dappertutto. Iniziò una vera e propria persecuzione. Un giorno le telefonarono e le chiesero di vedersi. Arrivò all'appuntamento con il cuore in gola. Le avevano detto di recarsi alla loro sede, vicino alla chiesa di San Nicola, per discutere di certe questioni e poi sarebbe stata libera.
Fu costretta ad accettare, anche perché non aveva altra scelta. Quel giorno il cielo era grigio e bianco e preannunciava neve. Corse in fretta verso la chiesetta. Aveva indossato il cappotto logoro e i guanti e messo il cappello perché il freddo era pungente. Salì i gradini dell'edificio rettangolare di cemento armato molto spartano, nel quale i membri della setta si riunivano. Spinse giù la maniglia della porta. Dentro, il silenzio sembrava quasi irreale. Non li vide subito perché l'oscurità nascondeva gli oggetti, le cose e le persone. Dietro al tavolo, lunghissimo dove sedevano gli adepti in occasione delle conferenze, c'era una sedia sulla quale stava una donna legata e imbavagliata. Aveva la testa reclinata da una parte.
Molto probabilmente aveva perso i sensi. Accanto a lei due uomini, uno per parte, tenevano, uno una pistola e l'altro un coltellaccio nella mano. Avevano indosso due maschere da boia, dove si potevano vedere solo due occhi senza espressione. Sopraggiunse un terzo uomo, un anziano con la barba bianca: era il Gran Capo. Cominciò a parlarle con un tono carezzevole, ma sapeva in cuor suo che era tutta una farsa, per ingraziarsi il volere di lei. Cominciò a spiegarle che la donna seduta si era resa colpevole di un grosso tradimento e che per questo andava castigata, perché solo con la punizione puoi dare un buon esempio a tutti gli altri. Parlava, parlava, ma lei non era in grado di ascoltare, le gambe le tremavano, la vista si era offuscata e le parole le si erano bloccate in gola. Era riuscita a comprendere che la povera donna non aveva voluto fare il pagamento in natura, che le era stato richiesto. Quando era venuta a sapere della cosa quasi non ci voleva credere. Donne trattate come degli oggetti che dovevano accontentare gli uomini e se non lo facevano erano guai. Una sensazione di disgusto le salì dallo stomaco. Cosa volevano da lei?
L'ansia tornò, insieme alla sensazione di non avere più scampo. Il tunnel nero la stava di nuovo inghiottendo. Un colpo di pistola, uno sparo, chiuse gli occhi, un altro colpo come di una lama che affonda in qualcosa. Li riaprì appena in tempo per vedere il boia con il coltellaccio, tagliare di netto la gola alla ragazza.
Assassini senza scrupoli, ecco cosa erano! Non doveva urlare, altrimenti avrebbero afferrato anche lei e l'avrebbero sottoposta allo stesso trattamento. Un grido muto le morì in gola. Un sudore freddo le si appiccicò ai vestiti. Aveva la lingua impastata e la gola secca senza più alcuna salivazione. Non ci vedeva più bene, la tempia iniziò a pulsare e la vena stava per scoppiare, tanti erano i battiti. L'adrenalina iniziò a scorrere a mille, il cuore batteva furiosamente; a quel punto l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. Con uno scatto felino corse verso la porta e la spalancò, per poi precipitarsi fuori come un ghepardo dietro la preda. Non aveva mai corso tanto veloce in vita sua, il vento le rimbombava nelle orecchie, sferzate gelide le picchiavano sul viso. Correva, correva senza una meta, doveva scappare e nascondersi, urlare, chiedere aiuto.
Fuggì in quel parco, dove tutto aveva avuto inizio, dove aveva trovato il cadavere di quella donna, dove il flusso dei suoi ricordi era straripato da lei come un fiume che rompe gli argini.
Si avvicinò di nuovo al cadavere. Le faceva una certa impressione. Nell'aria riecheggiò la sirena della polizia.
"Finalmente erano arrivati", pensò.
Vide scendere due agenti che si diressero verso la donna e con fare esperto, dopo aver indossato dei guanti di lattice cominciarono ad esaminarla con minuziosità. Non fecero caso alla sua presenza, anzi sembrava che non la vedessero proprio. Lei provò timidamente a parlargli, ma la sua voce sembrò non sortire nessun effetto. Iniziò ad insinuarsi in lei un dubbio atroce. Guardò meglio il cadavere e le sembrò più che mai alquanto familiare. Uno degli agenti frugò nella tasca della donna ed estrasse un portafoglio rosso un po' logoro. Dentro c'era una carta d'identità. Lesse il nome: Angela Larson.
Lei fissò con orrore la carta d'identità. Ma quello era il suo nome!
Atterrita cadde per terra, mentre una orrenda consapevolezza la pervase e la fece tremare da capo ai piedi.
Si vide rincorrere da due uomini, che la raggiunsero, la bloccarono e poi il buio più totale. Quando aveva aperto gli occhi, si era ritrovata su quella panchina.
«NO, non è possibile», urlò. «Nooo», gridò di nuovo e il suo urlo si disperse nell'aria e avrebbe dovuto spaventare quei corvi che se ne stavano sempre appollaiati sopra i pali del telefono. Con macabra certezza si rese conto che quella donna uccisa era lei. Una disperazione tremenda la colse. Pianse amaramente al pensiero di lei svenuta, sulla quale i due uomini avevano infierito con tanta crudeltà. Sapeva che erano stati loro, quelli della setta e come ammonizione per aver visto troppo le avevano cavato gli occhi. Uno sconforto senza fine si impossessò di lei. Non meritava tutto questo. La vita era stata ingiusta! Cos'era lei ormai se non uno spirito vagante su quella terra, dove non avrebbe trovato pace, finché non avesse attuato una sorta di vendetta verso tutti coloro che l'avevano barbaramente fatta soffrire e morire in modo così indegno. Ripensò al ragazzo che l'aveva salvata, a quella sera in cui sperava che tutto sarebbe stato ancora possibile. Invece era stato solo l'inizio di un altro incubo. Lui era poi scomparso lasciandola sola a barcamenarsi in un guaio più grande di lei, un altro amico che pensava fosse tale ed invece l'aveva abbandonata nel momento del bisogno. Il suo povero corpo giaceva lì su quel prato, senza occhi, senza nessuna consolazione. Avrebbe dovuto essere altrove, allora perché ancora si trovava lì? Non meritava il Paradiso, non meritava la Pace. La porta di luce avrebbe dovuto aprirsi e invece non si era ancora aperta per lei. Segno che doveva ancora rimanere su questa terra a scontare le sue pene. Guardò il cielo plumbeo, dal quale iniziarono a cadere come in una danza fiocchi di neve, conscia che per lei non ci sarebbe stata un'altra possibilità, tutto sarebbe finito in quel parco in quella gelida notte di Gennaio.
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