10. In rotta di collisione
Adele aveva atteso quelle parole per un tempo inquantificabile: probabile che quel sentimento si stesse già sviluppando dentro di lei durante i primi anni di amicizia con Nicholas, ma da bambini è particolarmente complesso dare un nome alle circostanze della vita. É molto più naturale continuare a fare finta che non esistano, navigando nell'eterna convinzione di rimanere piccoli per sempre. Quella semplice frase, dunque, aveva riportato a galla anni di silenzi ed emozioni represse, scatenando una reazione a catena che nessuno dei due avrebbe mai potuto prevedere.
«Cosa?», balbettò Adele, percependo le gambe molli come gelatina.
Nicholas deglutì faticosamente, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Non c'è bisogno che te lo ripeta», sibilò, portando lo sguardo al pavimento «hai capito molto bene».
Neanche un suono era effettivamente sfuggito alla sua attenzione: ogni sillaba che componeva quella semplice frase continuava a rimbalzarle nella mente come una pallina da ping-pong, impedendole di ragionare lucidamente. La ragazza prese dunque a camminare freneticamente per la stanza, torturandosi le mani già screpolate dal gelo di quei giorni.
«Ti rendi conto che quello che hai detto non ha alcun senso?», squillò poi, osservando i suoi occhi terrorizzati.
Nicholas rimase in silenzio, ricambiando il suo sguardo con fare incerto.
«Non ti sembra un po' tardi?», lo incalzò Adele, incrociando le braccia al petto.
Il ragazzo continuò a non rispondere, preda di un lancinante dolore al centro dello stomaco.
«Ho atteso queste parole per anni senza mai mancare in nulla», esclamò Adele, respirando a fatica «sono rimasta in silenzio di fronte ai baci e alle carezze con Hannah, sono stata un'amica, una confidente».
Adele si interruppe, trattenendo a stento le lacrime.
«Ti ho aspettato in quella maledetta stazione per ore», gridò nuovamente, allargando le braccia in segno di resa «non ho staccato gli occhi dal finestrino neanche per un secondo, Nicholas».
Nicholas tentò di replicare, per poi essere nuovamente investito dalla furia di Adele.
«E tutto questo per cosa?», continuò imperterrita la ragazza «per un "ti amo" privo di significato?».
«Credi davvero non sia sincero?», replicò Nicholas con voce flebile.
«Non so più a cosa credere», sibilò Adele, voltandosi nuovamente di spalle.
Il ragazzo prese così un profondo respiro, cercando di trovare il coraggio di confessare tutto ciò che non era stato in grado di dirle fino a quel momento. Non fece tuttavia in tempo a parlare che il cellulare di Adele prese a suonare in maniera violenta, facendo scoppiare la bolla che sembrava averli avvolti fino a quel momento. La ragazza gettò poi uno sguardo allo schermo costellato dall'immagine di Connor, incapace di muoversi.
«Adele, ascoltami», proseguì Nicholas, avvicinandosi al suo corpo tremante «non ti sto mentendo, devi credermi».
La ragazza lo scrutò con sguardo perso, facendo vagare in maniera incerta i suoi occhi lungo il perimetro del suo viso.
«Ti ho sempre amata, dal primo momento in cui ti ho vista», continuò «e se non ho mai avuto il coraggio di confessartelo è soltanto perché avevo paura che le cose tra noi non potessero funzionare».
«E ora?», balbettò Adele «hai cambiato idea?»
Nicholas non rispose, si limitò a deglutire, tentando di fornire una risposta che fosse quantomeno adeguata alla circostanza. Quel silenzio, tuttavia, provocò una reazione inaspettata in Adele, la quale si allontanò dalla sua presa con fare furioso, appoggiandosi al muro poco distante.
«Non ci credi neanche adesso, non è vero?», gridò, passandosi nervosamente le mani tra i capelli.
Il ragazzo scosse la testa, tentando di avvicinarsi nuovamente a lei.
«Non è questo che intendevo», farfugliò.
«E allora cos'è?», lo incalzò nuovamente «ti prego, Nicholas».
«No, non funzionerebbe mai», gridò, esasperato «sarebbe un disastro».
Adele rimase immobile contro il muro, incredula. Tutto quello che aveva sempre temuto era lì, di fronte ai suoi occhi, servito su un piatto d'argento.
«Perchè cazzo allora mi hai detto una cosa simile?», sibilò Adele, tentando di salvare anche solo un briciolo di quel rapporto.
Nicholas si accasciò su una sedia, prendendosi la testa tra le mani.
«Perché è ciò che provo», sussurrò «ma che so non potrà mai realizzarsi».
Il cuore della ragazza si ruppe in mille pezzi, senza tuttavia mostrare alcun segno di dolore. Quello era esattamente l'emblema della loro vita: tante promesse, tanto affetto, ma l'assoluta incapacità di dare una realizzazione concreta ai loro desideri. Adele si lasciò andare ai singhiozzi, scivolando lentamente sul parquet tirato a lucido. Poi, in preda alle lacrime, portò le mani tremanti al collo, sfilandosi la collana con l'anello a forma di rosa che diversi anni prima Nicholas le aveva regalato.
«Anche se non vuoi ammetterlo, so che mi vedi ancora come la ragazza impacciata di cui tanto ti vergognavi», mormorò Adele «ma che tu ci creda o no, ho smesso di ricoprire quel ruolo» e così dicendo posò la collana vicino alle sue mani, correndo al piano di sopra.
Nicholas contemplò per alcuni istanti quell'oggetto con occhi brucianti, per poi alzarsi di scatto dalla sedia, afferrando la giacca e dirigendosi a grandi passi verso la porta. Una volta superato il vialetto, si appoggiò ad un albero poco distante, rimettendo gran parte di ciò che aveva bevuto qualche ora prima. Una volta ripulitosi la bocca con un fazzoletto trovato nella tasca, si sedette sull'erba bagnata, estraendo dai jeans un sacchetto di plastica trasparente contenente delle piccole pastiglie bianche. Senza pensarci due volte, ne afferrò un paio e le deglutì, lasciando che facessero il loro effetto. Il ragazzo desiderava soltanto che tutto quel turbinio di pensieri si spegnesse il prima possibile: poco gli importava che avesse appena ingurgitato due pastiglie di ecstasy. Voleva soltanto dimenticare.
Edimburgo, 20 marzo 2011.
Adele, in un altro periodo della sua vita, avrebbe imparato che agire d'impulso e soprattutto per ripicca, non è mai la cosa giusta da fare. In quel momento però, a soli tre mesi dai tanto agognati vent'anni, era impossibile per quella giovane donna ragionare lucidamente. Per questa ragione, nonostante fosse stata accettata alla University College, Adele decise di accettare la richiesta di Connor e di seguirlo ad Edimburgo. Fu una scelta sofferta, ma dopo la terribile rivelazione di Nicholas, non c'era nient'altro che Adele volesse di più del mettere un intero paese di distanza tra di loro. Non voleva più avere sue notizie: il suo unico desiderio era quello di vivere come se quel ragazzo non fosse mai esistito.
Nel soffio di qualche mese si procurò così un lavoro in una caffetteria del centro e si adattò a vivere insieme a Connor in una piccolissima abitazione di quaranta metri quadrati non molto lontana dalla sua scuola. I primi mesi dopo il trasferimento furono i più duri: Connor trascorreva la maggior parte del suo tempo dedicandosi alle lezioni e ai laboratori, mentre ad Adele, a parte le sue misere ore di lavoro, non rimaneva nulla, se non la compagnia di una piccola gatta di nome Charlie che avevano da poco adottato. In alcuni momenti di totale solitudine, Adele aveva più volte tentato di contattare Nicholas, limitandosi semplicemente a contemplare con sguardo perso il suo numero impresso sullo schermo, senza tuttavia trovare il coraggio di proseguire: chiusa in quell'appartamento grande quanto una scatola di scarpe, la giovane donna si sentiva soffocare, ma la rabbia per la parole di Nicholas e il suo stupido senso d'orgoglio bruciavano più di qualsiasi altro sentimento. In uno dei tanti ed infiniti giorni di pioggia, tuttavia, il gesto di un simpatico cliente della caffetteria smosse le placide acque di quella cittadina: Adele entrò infatti in possesso di un computer portatile, oggetto che non avrebbe avuto una simile importanza, se soltanto la ragazza non avesse dovuto vendere il suo, qualche mese prima, al fine di poter acquistare un biglietto aereo di sola andata. I suoi genitori le avevano infatti tagliato ogni fondo e avrebbero ripreso a finanziare i suoi studi e le sue spese soltanto quando quella "follia" avrebbe avuto una fine.
«Jack, davvero, non posso accettarlo», mormorò Adele, voltandogli le spalle.
«É un dono per le tue mani, cara», replicò risoluto l'anziano signore, sistemandosi il cappello «so che faranno grandi cose, molte di più di quelle che mio figlio Grant può fare ora, su quella sedia a rotelle».
Jack era un cliente abituale della caffetteria: Nora, una delle sue colleghe, le aveva rivelato di come l'incidente d'auto che aveva visto coinvolto suo figlio trentenne gli avesse cambiato per sempre la vita. Da due anni a questa parte, infatti, il signor Jack non faceva altro che accompagnare suo figlio alle sedute riabilitative, fermandosi di tanto in tanto per sorseggiare qualcosa di caldo in quel luogo che era oramai diventato così tanto famigliare. Adele lo aveva incontrato durante il suo secondo giorno di lavoro e da quel momento non avevano mai smesso di raccontarsi a vicenda frammenti della propria vita.
«E se un giorno tuo figlio fosse di nuovo in grado di scrivere?», abbozzò Adele, torturandosi distrattamente le unghie.
«Per quel tempo, cara, sarai già tornata a casa», rispose pacatamente Jack, infilandosi nuovamente il giaccone «fanne buon uso, mi raccomando».
Quella sera, Adele rientrò dunque a casa con un oggetto estremamente prezioso tra le mani: salutando distrattamente Charlie, si riscaldò una misera zuppa di verdure e senza preoccuparsi di mangiarla comodamente al tavolo, si sistemò sul letto con il computer sulle gambe. Le sue dita pizzicavano dal desiderio estremo di tornare a scrivere i suoi pensieri: non che non lo avesse già fatto tramite carta e penna o le note del suo cellulare, ma la necessità di dare ordine a quel turbinio di parole era più forte che mai. Trascorse dunque la serata assorbita completamente dal suo file Word, mangiucchiando distrattamente la sua zuppa e lasciandosi guidare dall'inconfondibile malinconia delle canzoni di Taylor Swift, inaspettatamente felice. Connor rientrò a casa qualche ora dopo, provato dall'intera giornata di lezioni.
«E quello?», chiese sorpreso, sfilandosi il giaccone pesante.
«È un regalo di Jack, il cliente di cui ti parlavo», rispose Adele, raggiante.
«Quello con il figlio paralizzato?», continuò frugando nello zaino alla ricerca del suo caricabatterie.
La ragazza annuii, contemplando soddisfatta le pagine colme di parole.
«È stato un bel gesto da parte sua», biascicò «ma se deve coinvolgerti così tanto, forse sarebbe il caso di restituirlo».
Adele lo scrutò interrogativa, alzandosi rapidamente dal letto per raggiungerlo in cucina.
«Cosa intendi?», sibilò, incrociando le braccia al petto.
«Che sono stato tutto il giorno in facoltà a studiare come un matto e tu non hai fatto altro che divertirti con il tuo nuovo giocattolino», continuò sprezzante, arricciandosi le maniche della camicia.
«Ho lavorato tutto il pomeriggio, Connor», rispose Adele, risoluta «mi sono concessa soltanto qualche ora di svago».
Il ragazzo rimase in silenzio, armeggiando con alcune pentole e un tagliere.
«Sono solo stanco, va bene?», mormorò poi, affettando un filoncino di pane «ti chiedo scusa».
Adele si limitò a scrutarlo con sguardo assente, voltandosi poi verso la camera da letto: avrebbe dato qualsiasi cosa per trovarsi il più lontano possibile da quel luogo dimenticato da Dio.
Nottingham, 26 marzo 2011.
A chilometri di distanza, al contrario, Nicholas stava dando il peggio di sé. Dopo l'accaduto con Adele, la vita di quel giovane ragazzo era precipitata nel turbinio della droga e dell'alcool. Niente sembrava aver senso ai suoi occhi: nonostante fosse stato anch'egli ammesso all'University College come la sua amica d'infanzia, Nicholas decise di non intraprendere il percorso universitario. Lavorò ancora per qualche mese nel negozio di alimentari vicino casa, ma dopo diversi rimproveri da parte del proprietario, fu licenziato per aver trangugiato nuovamente una delle tante bottiglie di vino presenti tra gli scaffali. Contrariamente al suo bene, abbandonò anche le sedute dalla psicologa e si dedicò semplicemente a trascorrere la maggior parte del suo tempo a casa di Michael, in preda ai bagordi e ai videogiochi violenti.
«Ti sembra l'ora di tornare?», tuonò suo padre, squadrandolo con sguardo severo.
Quella era l'ennesima serata fuori per Nicholas: erano le cinque del mattino e il signor Clarke era stanco ed estremamente preoccupato. Aveva già perso sua moglie: non avrebbe sopportato anche la perdita di un figlio.
«Pà, per favore», biascicò Nicholas, reggendosi a stento «voglio soltanto andare a dormire».
«E invece non lo farai», sentenziò, alzandosi di scatto dal divano «vatti a fare una doccia, usciamo tra poco».
«Che cazzo stai dicendo?», urlò, sbigottito «cosa sono quelle?», continuò, indicando un borsone e un trolley sistemati vicino alla credenza dell'ingresso.
«Non posso più andare avanti così, Nic», sibilò il signor Clarke, trattenendo a stento le lacrime «ho bisogno di aiuto».
Nicholas rimase in silenzio, confuso. Le due bottiglie di liquore bevute qualche ora prima stavano iniziando a fare effetto e la sua vista non poteva risultare più appannata di così.
«Cosa vuoi dire?», mormorò, appoggiandosi al muro.
Suo padre rimase in silenzio per qualche istante, trascinando lentamente una mano sul suo volto segnato. Il ragazzo che aveva di fronte non era più il suo dolce bambino: era una persona nuova, a tratti terrorizzante. Era un uomo che giocava con il fuoco, che non aveva più interessi, né tantomeno voglia di vivere.
«Sono mesi che non fai altro che comportarti da irresponsabile», continuò «e tutto per che cosa, perché non hai saputo gestire i tuoi sentimenti nei confronti di Adele?».
«Sai che non voglio parlarne», replicò seccamente il ragazzo.
«Non è questo il modo in cui io e tua madre ti abbiamo insegnato a vivere, Nicholas», gridò suo padre, allargando le braccia «pensi sia questa l'unica via per reagire alle delusioni? Ubriacandosi fino a gettare completamente la propria vita?».
«Mia madre non mi ha insegnato un bel niente», replicò duramente.
«Come osi parlare così di lei?», urlò nuovamente, avvicinandosi pericolosamente alla sua figura «tua madre ha fatto tutto quello che poteva per starti vicino».
«Quello che so è che mi ha lasciato, anzi, ci ha lasciato», replicò Nicholas.
«Non di certo per sua volontà», continuò «e io ho fatto tutto ciò che era in mio potere per trasmetterti il suo ricordo».
«Non ho intenzione di dare il mio cuore a qualcuno per poi essere abbandonato come ha fatto la mamma con noi», sibilò, percependo i suoi occhi riempirsi di lacrime «non lo farò».
Il signor Clarke rimase interdetto, incapace di replicare. Per la prima volta dopo tanto tempo, fu in grado di rivedere il suo bambino riccioluto, stretto nella sua giacca a vento rossa. Clare, nonostante le poche forze rimaste, lo aveva preparato per andare a scuola e lo aveva fatto nel suo solito modo impeccabile: lo aveva lavato, vestito, pettinato e mentre attendeva che suo marito lo caricasse in macchina, si era diretta verso la cucina per preparargli la merenda. Non aveva fatto in tempo ad aprire il frigorifero, però, che il suo cuore l'aveva già abbandonata, facendole lasciare il mondo terreno senza poter salutare il suo bambino. Nicholas aveva soltanto sette anni quando quella tragedia li aveva colpiti: per anni quell'uomo aveva creduto di poter dare a suo figlio tutto l'amore del mondo, ma la realtà era che, nonostante gli sforzi, niente avrebbe mai colmato un simile vuoto. Nicholas avrebbe sempre vissuto con delle cicatrici, ma prima di quel momento Stephen non aveva mai pensato a quanto quell'evento avesse potuto intaccare anche la sua sfera affettiva: il suo bambino aveva ancora paura di essere abbandonato proprio come quel giorno, solo nell'angolo del salotto, stretto nel suo impermeabile rosso, in attesa della sua mamma.
«Permettimi di aiutarti, figlio mio», lo implorò Stephen, avvolgendolo tra le sue braccia.
A quel gesto Nicholas scoppiò in un pianto disperato, affondando il volto tra le pieghe della sua camicia inamidata: se soltanto avesse potuto, si sarebbe gettato sul pavimento per gridare come un disperato.
«Per farlo, però, devo sapere la verità», continuò poi suo padre, forzandolo a mantenere il contatto visivo «stai facendo uso di droghe?».
Il ragazzo rimase per qualche istante in silenzio, chiudendo gli occhi arrossati. Poi, senza proferire parola, scosse lentamente il capo in segno di assenso, tentando con tutte le forze di tenersi in piedi.
«C'è una clinica a Manchester», sibilò nuovamente Stephen, stringendo le sue mani «è molto costosa, ma è ciò di cui hai bisogno».
«Papà, io-», tentò di replicare.
«Dobbiamo soltanto pensare a rimetterti in sesto», lo interruppe prontamente «e quando sarai forte abbastanza, riprenderai tutto ciò che hai perso in questi mesi».
Il ragazzo si morse l'interno della guancia, portando immediatamente il pensiero ad Adele. Poi, si lasciò andare nuovamente tra le braccia di suo padre, inerme.
Qualche ora dopo, durante il viaggio verso Manchester, Nicholas mandò un ultimo messaggio ad Adele: non sapeva se dopo tutto quello che era successo lo avrebbe mai letto, ma era certo di voler provare.
Sono in viaggio verso una clinica riabilitativa di Manchester. Ho sbagliato a dirti ciò che ho detto, ma più di tutto, ho sbagliato ad ignorare il bambino dentro che premeva per essere ascoltato.
Nicholas, 3.09
Spero di essere in grado di migliorare, anche solo per tornare ad essere l'amico fedele che meriti di avere al tuo fianco. Ti voglio bene.
Nicholas, 3.10
Dopo averlo inviato, chiuse finalmente gli occhi, abbandonandosi al sonno.
•••
Spazio autrice 💌
Che dire: vi ho portato un capitolo molto intenso.
Mi rendo conto che non sia facile parlare di certi argomenti e spero davvero di averlo fatto nella maniera più "delicata" possibile.
Nicholas è tormentato dai fantasmi del passato, mentre Adele sta cercando di lasciarsi alle spalle il suo ricordo, costruendosi una nuova vita con Connor. Credete che ci possano essere speranze per loro o nutrite qualche dubbio?
Come sempre fatemi sapere i vostri pareri nei commenti, lasciatemi se vi va una 🌟 e noi ci rivediamo mercoledì prossimo!
Grazie per il vostro tempo,
Laura 💜
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