Capitolo XIX: Un giorno a Necrodia

Capitolo XIX: Un giorno a Necrodia

Tre giorni dopo lo straordinario incontro di Veldhris con Rovrin il Dorato, la compagnia abbandonò il Fimda per dirigersi a piedi verso Necrodia. Era primo pomeriggio e non avevano ancora pranzato, così tirarono in secca le canoe, ne tolsero i bagagli e le nascosero in un boschetto di alberi striminziti poco lontano dalla riva; poi, consumarono un pasto veloce, seduti a caso sulle rocce che affioravano dal terreno torboso fiancheggiante il fiume.

Si trovavano ora ad una quindicina di chilometri a nord-ovest di Necrodia: se avessero navigato ancora un poco lungo il Fimda sarebbero arrivati esattamente ad est della città, ad una distanza di poco meno di dieci chilometri, ma in quel punto il terreno era troppo scoperto perché potessero sbarcare inosservati; inoltre, c'era un traghetto, modesto e poco frequentato ma sorvegliato.

Il Fimda segnava il confine occidentale dello Shyte, sebbene per centinaia di chilometri ad ovest non ci fosse che territorio spopolato e sterile, non rivendicato né da Rakau o, prima di lei, dall'Impero, né dai lontani regni dell'occaso, dove la gente aveva strani occhi allungati e la pelle di un colore che volgeva ad un delicato zafferano.

"La città è sorvegliata, vero?" s'informò Freydar, rivolto a Nirvor.

"Certamente", confermò questa. "Ci sono decine e decine di sentinelle lungo i bastioni, sui camminamenti e nelle torrette di guardia, come anche al ponte levatoio. C'è però un continuo via vai di contadini dalle campagne che portano rifornimenti, di mercanti in cerca d'affari, di soldati, di schiavi, di messaggeri e persino di giocolieri. Potremo facilmente confonderci con un gruppo in entrata e passare non visti sotto al naso delle sentinelle."

"Già, ma se malauguratamente ci notassero?" chiese preoccupata Kejah, scostando gentilmente Rollie che reclamava un boccone.

"Non ci noteranno", dichiarò Nirvor con calma. "Basterà che io parli con loro un istante e non si ricorderanno nemmeno di noi. In ogni caso, se io non potessi intervenire, meglio concordare qualcosa."

"Sono d'accordo", annui Veldhris. "Avrei già una mezza idea, lasciatemi pensare..."

Meditò alcuni istanti per chiarirsi i particolari, poi se ne uscì con una trovata degna della sua fervida fantasia e della sua non comune intelligenza. "Possiamo passare per una compagnia di saltimbanchi della Kirtonia: ciascuno di noi sa fare qualcosa di spettacolare e penso che siamo in grado di imitare tutti l'accento kirton."

"Spiegati meglio", la invito Roden.

"Beh, ho pensato questo: io so cantare e suonare, mentre tu e Freydar, con il vostro fisico, potete fingervi lottatori; Kejah, tu sei una campionessa di tiro con l'arco, e anche Sekor è bravo, oltre a essere un maestro nel maneggiare la frusta; Mikor può passare anche lui per un lottatore, e per finire Nirvor può farsi credere un'illusionista: i maghi sono notoriamente persone misteriose, strane, per cui nessuno si stupirà vedendola sempre ammantata e sulle sue."

Freydar fischiò piano. "Ognuno sfrutta le proprie capacità: un piano eccellente, direi."

Le sorrise con aperta ammirazione e lei ricambiò con un calore che saltava agli occhi. Fu solo un istante, poi entrambi distolsero gli occhi, tuttavia quello scambio di sguardi appassionati non era sfuggito a Sekor, nonostante che da settimane ormai si ostinasse a non voler vedere l'evidenza. Ora però non poté più fare a meno di notarla: senti un colpo al cuore, come una pugnalata di gelo, ed i suoi dolci occhi azzurri rifletterono la sofferenza lancinante che lo lacerava. La sua espressione, subito velata da una falsa indifferenza, non passò inosservata né a Kejah, che lo stava guardando di sottecchi, né a Mikor, che non a caso gli aveva gettato un'occhiata. Tra i sentimenti dei due nei confronti del giovane, però, c'era un abisso: Kejah lo compianse dal più profondo del cuore e, pur rendendosi conto che non era colpa della cugina, per un istante la biasimò per il dolore che gli causava; Mikor invece, egoisticamente, intravide subito un vantaggio per sé e la sua causa, adesso che il fratello minore s'era finalmente reso conto del tradimento di Veldhris.

Ignara delle emozioni contrastanti che si agitavano nell'animo di alcuni dei suoi compagni, Veldhris stava completando il suo piano. "Dovremo nascondere le altre armi: le spade, i pugnali e l'ascia di Roden. Li puoi portare tu sotto il mantello, Nirvor?"

"Senz'altro", rispose l'Argentea. "Conservate però i pugnali: oggigiorno, viaggiare completamente disarmati è impensabile e attirerebbe sospetti."

Gli altri furono d'accordo, così Freydar, Roden, Sekor e Mikor consegnarono le loro armi a Nirvor, che se le appese in vita a fianco della propria spada. Erano un po' ingombranti, ma l'ampio mantello nero le celava completamente, e per l'Argentea il peso non era certo un problema. Sekor si aggiustò meglio la frusta arrotolata attorno alla vita, e sia lui che Kejah lasciarono li rispettivi archi appesi alla schiena, affiancati alle alla faretre.

Veldhris guardò criticamente i compagni, poi assenti soddisfatta del risultato. "Bene", disse poi. "Se ci fermano e ci interrogano, dobbiamo mostrarci gioviali, chiacchieroni e anche un po' smargiassi, da buoni saltimbanchi. Altrimenti, tiriamo dritto."

Il resto della compagnia annuì, a dimostrazione d'aver capito, ed infine tutti si caricarono le sacche in spalla, mettendosi in marcia con passo deciso, tallonati dall'instancabile Rollie.

La campagna attorno a Necrodia era pianeggiante, appena ondulata da piccole alture e conche. Veldhris non sapeva bene quello che si aspettava, ma rimase alquanto sconcertata nel constatare che il paese era ben coltivato ed i campi ordinatamente disposti, irrigati a dovere e curati. C'erano anche grandi frutteti ed alcune vigne in fiore. All'apparenza rigogliosa e calma, la campagna trasmetteva però uno strano senso di inquietudine, di malessere, quasi un sentore dell'Oscurità poco lontana, annidata come una serpe nel seno generoso della terra.

La compagnia seguì il tracciato dei sentieri che s'incrociavano tra i campi e nei pascoli, spesso aggirando da lontano le fattorie, la maggior parte poco più che cascinali con annessi fienile e stalla, ed anche un gruppo di casupole, tanto piccolo da non potersi definire nemmeno villaggio. Avvistarono Necrodia ad alcuni chilometri di distanza, nero tumore allignato sulla sua collina, l'unica altura di un certo rilievo dei dintorni. Il sole tramontante alle loro spalle investiva in pieno la città con i suoi raggi obliqui, quasi paralleli al terreno, ma non riusciva ad alleggerirne la profonda tetraggine. L'agglomerato era un caotico succedersi di torri, mura merlate, case e ponti dal quale pareva levarsi come una vibrazione, un inaudibile gemito di sofferenza.

Veldhris rabbrividì, impressionata. "Che posto malvagio", mormorò.

"Sì", confermò sottovoce Freydar, accanto a lei. "È il posto che custodisce il cuore del Potere Oscuro."

"Ormai è tardi per entrare in città", li informò Nirvor, distraendo l'attenzione dei compagni dal cupo agglomerato urbano. "Al tramonto chiudono le porte e non c'è verso di entrare o uscire, a meno di non essere muniti di un lasciapassare speciale."

"Non potreste convincere le guardie usando il vostro potere magico?" chiese Kejah.

Nirvor scosse il capo. "Dovrei riuscire a toccare l'intero picchetto di sentinelle per farlo, provocando uno scompiglio decisamente sconsigliabile."

"Allora ci conviene prepararci per la notte qua fuori", concluse Roden. Indicò un avvallamento del terreno poco lontano, piccolo ma insolitamente profondo, che aveva adocchiato nel frattempo, e poiché gli altri approvarono, stabilirono lì il loro campo per quella notte.

"Cerchiamo legna per il fuoco", disse Freydar.

Mikor gli lanciò un'occhiata come a volerlo incenerire. "Stai scherzando, vero?"

"Niente affatto, Sire", ribatté calmo il capitano. "Se pattugliano i dintorni della città, come credo molto probabile, scoprendoci accovacciati come ladri si insospettirebbero subito. Agendo invece scopertamente, come gli innocui saltimbanchi che vogliamo sembrare, non susciteremmo dubbi sulla nostra pretesa identità."

"Molto ben pensato", intervenne Veldhris d'autorità, stroncando sul nascere la protesta che stava per erompere del Signore della Foresta del Vespro. "Questa si chiama sagacia", aggiunse con un sorrisetto compiaciuto, rivolta a Freydar.

Fecero quindi come ogni sera lungo il Fimda: montarono le tende, accesero il fuoco, cucinarono una sostanziosa cena e la consumarono chiacchierando, all'apparenza perfettamente tranquilli. Istituirono poi, dopo molto tempo, i turni di guardia, non volendo mettere in sospetto eventuali osservatori che li stessero sorvegliando con il perdurare dell'insonne Nirvor come sentinella.

La notte passò senza incidenti; se il bivacco fu notato, nessuno lo diede loro a vedere.

Tolsero il campo che il sole era già sorto, iniziando ad arrampicarsi in un cielo striato di sottili veli nuvolosi, e dopo colazione, sforzandosi di dominare l'ansietà, si avviarono senza fretta verso l'unico portale d'accesso di Necrodia, che si affacciava sul lato settentrionale dei bastioni. Lungo la strada che saliva al ponte levatoio, abbassato all'alba, raggiunsero una mandria di manzi, giovenche e vitelli, sospinta da alcuni uomini poveramente vestiti: con ogni probabilità, erano bestie destinate al macello. I sette viandanti si accodarono, non potendo superare la mandria che, mugghiando in tono di protesta, inciampava sull'acciottolato sconnesso della strada.

Arrivarono al ponte levatoio che, con la sua mole di legno massiccio e ferro, si protendeva su di un fossato pieno d'acqua stagnante e fetida; tra colpi di zoccolo e muggiti, la cinquantina e più di capi di bestiame sfilò rumorosamente attraverso il ponte e la porta, vigilata da una mezza dozzina di guardie armate di scudo e picca.

Nessuno ostacolò i mandriani e le bestie che irrompevano in città, ma l'ultimo si fermò davanti alla sentinella che portava i galloni da sergente. Veldhris ed i suoi compagni tentarono, con aria indifferente, di defilarsi dietro gli ultimi manzi, ma il graduato li notò. "Ehilà, voi, aspettate un momento!" li richiamò. Obbedirono prontamente, girandosi a guardare con espressione interrogativa l'uomo che li aveva apostrofati; gli sguardi delle rimanenti sentinelle gravavano loro addosso, vigili anche se non ostili.

Vedendoli fermi ad attendere, il sergente tornò a rivolgersi al vecchio mandriano che aveva di fronte. "Cosa porti in città e per conto di chi?" domandò in tono annoiato, come se fosse abituato a vedere mandrie intere entrare disinvoltamente in città. Gli ultimi muggiti si stavano spegnendo in lontananza, mentre il bestiame veniva sospinto e guidato lungo le tortuosità delle stradine di Necrodia.

"Cinquantatre capi di prima scelta", dichiarò il vecchio, scoprendo le gengive mezze sdentate in un ghigno che voleva essere un sorriso deferente. "Mandati dal mio signore, lo sceriffo di Ristad, come tassa erariale del trimestre scorso, destinata alla magnifica ed onnipossente Signora dei Draghi Neri."

Estrasse dai suoi paludamenti una carta bollata con la ceralacca e la porse al graduato. Questi ruppe il sigillo, esaminò lo scritto senza particolare interesse, poi assentì e lo riconsegnò al vecchio. "Tutto in regola, va pure."

Il mandriano fece un lieve inchino e si affrettò ad imboccare la strada dov'erano svaniti i suoi compagni ed il bestiame.

Il sergente si avvicinò con passo rilassato ai viandanti, segno che non nutriva alcun sospetto nei loro confronti... a meno che, naturalmente, non si trattasse di un trucco. "Chi siete, da dove venite?" indagò il soldato, parlando a raffica, con concisione. Il suo tono, però, più che inquisitorio era colloquiale.

Veldhris riuscì a costringersi a sorridere con disinvoltura, e si accingeva a raccontare le frottole concordate con i compagni quando Nirvor, precedendola, intervenne a modo suo: fece un passo avanti per accostarsi al sergente ed allungò una mano a toccargli la guancia mal rasata. Un lieve chiarore brillò per un istante sotto le sue lunghe dita sulla pelle dell'uomo d'arme, mentre Nirvor mormorava velocemente qualche frase che Veldhris non poté afferrare. Gli occhi chiari del sergente si fecero vacui, come privati della loro fiamma vitale, poi tornarono di colpo vivi quando la Custode della Corona ritirò la mano.

"Andate pure", disse l'uomo con voce normalissima. "Spero di poter assistere ad uno dei vostri spettacoli."

"Vi faremo sapere quando e dove, caro sergente", gli assicurò Nirvor in perfetto accento kirton, contrapponendo le vocali gutturali e le consonanti aspre di quella pronuncia all' inflessione raffinata e leggermente enfatica della parlata locale.

"Benissimo", assentì il graduato. "Allora arrivederci a presto."

"A presto!" lo salutò Veldhris, imitando anche lei la parlata kirton. "Ne vedrete delle belle, ve l'assicuro!"

Si congedarono allegramente, simulando un brio che erano ben lungi dal provare, e se la batterono senza parere. Quando furono oltre il primo angolo della strada, si incrociarono commenti sbalorditi per la prodezza di Nirvor.

"Incredibile!" esclamò Roden per tutti. "È stato facile come bere un bicchier d'acqua!"

"Già", ringhiò sottovoce Mikor, acido. "Ma un bicchier d'acqua può anche soffocare chi lo beve."

Sekor, che gli era accanto, lo senti perfettamente e gli lanciò un'occhiata perplessa, ma non ribatté.

Il gruppo seguì la sua guida ammantata di nero, addentrandosi nelle viuzze tortuose di Necrodia ed imboccando infine quella che doveva essere la strada principale, affollatissima di gente. Temendo che Rollie venisse calpestato, Veldhris lo prese in braccio.

Il selciato irregolare rendeva malagevole il cammino, perché si doveva fare attenzione a dove si posavano i piedi per non incespicare o scivolare sul fondo melmoso. La folla scorreva ad ondate incessanti, premendo da tutte le parti e spingendo i viandanti ora da un lato, ora dall'altro, in un brusio d'attività crescente e piena di tensione, ben lontana dal gioioso fervere di operosità che si avvertiva a Tamya nei giorni lavorativi.

Mai, e in nessun luogo, Veldhris si era sentita soffocare come adesso a Necrodia: abituata a vivere in mezzo alla natura avendo per casa un albero, era sempre stata un po' a disagio nelle città, sia a Zarcon sia a Kirton, per non parlare del Regno Sotterraneo, ma tale sensazione era niente se paragonata a quella che le ispirava la lugubre Necrodia. Rabbrividendo nel mantello di panno grigio che indossava, perché lì il sole di aprile non riusciva a riscaldare l'aria, la cantante si guardò attorno: la folla indaffarata che la circondava da ogni parte era vestita di stracci sudici e mal rattoppati, da cui emanava un puzzo di sudore rancido e di sporco vecchio di mesi, cui si aggiungeva, a zaffate nauseabonde, il fetore proveniente dalle fogne a cielo aperto. Le costruzioni, squallidi caseggiati sghembi e fatiscenti, si affacciavano l'una a ridosso dell'altra sulle viuzze serpeggianti, che parevano procedere ed incrociarsi a caso, senza ordine alcuno; le finestre erano chiuse da pelli traslucide, con un effetto raccapricciante che in qualche modo faceva pensare a pelle tesa sulle orbite vuote di un teschio.

La strada dissestata saliva con pendenza incostante, deviando spesso a destra ed a manca. I viandanti si tenevano vicini e camminavano lentamente, sia perché la folla non permetteva un'andatura molto maggiore, sia per non correre il rischio di perdersi di vista l'uno con l'altro. Una volta, un omaccione grande e grosso quanto Roden ed anche di più urtò malamente Veldhris, buttandola contro Freydar e suscitando le sdegnate proteste di Rollie. Il gigante non si curò di fermarsi per scusarsi o per accertarsi di non aver fatto male alla cantante e si tuffò nella ressa vociferante, facendosi largo con la grazia di un bisonte. Più sbalordita che indignata, Veldhris gli guardò dietro con occhi sgranati.

"Ma... ma quell'uomo..." balbettò.

Anche Freydar aveva un'espressione di grande stupore sul volto.

Nirvor, che li precedeva, si era fermata al verificarsi dello scontro, e lo stesso avevano fatto gli altri che seguivano. "È la prima volta che vedete un uomo di pelle nera?" domandò, senza studiarsi di parlare sottovoce giacché era plausibile che saltimbanchi kirton, di cui manteneva l'accento, non avessero mai incontrato membri di altre razze.

"È così", confermò Freydar. "Al mio paese abbiamo scarse notizie sulle popolazioni che vivono nel lontano meridione, e solo poche di più su quelle dell'occidente."

"Se è per questo, al mio paese non sapevano nemmeno che esistessero genti dalla pelle di colore diverso dal nostro", ammise Veldhris. "A dire il vero, ci avevo pensato quando ce ne siamo andati, ma finora niente aveva ancora confermato la mia ipotesi."

Anche gli altri commentarono sorpresi la straordinaria apparizione del gigante nero, poi ripresero il cammino. Veldhris controllò che la Corona fosse ancora al suo posto, nascosta in una grande tasca interna del mantello, pronta ad essere tratta di lì, indossata ed usata. Rollie le lambì una guancia, scodinzolando, quasi a volerla rassicurare.

La strada continuava a salire, snodandosi ora più larga ora più stretta, su per la collina, avvicinandosi sempre più al fossato che separava la zona povera da quella delle residenze dei ricchi mercanti, ufficiali e favoriti di Rakau, circa un quarto della superficie urbana. Ancora più in alto, appollaiato su di un dirupo alto quasi trenta metri e circondato da una cinta di mura, c'era il Palazzo dell'Oscurità, composto interamente di lucido marmo nero, ardesia e giaietto. Il sole già alto in cielo ne traeva inquietanti bagliori di tenebra.

La struttura della città pare quella di una torta a strati, pensò Veldhris in un momento di tetro umorismo. Quello più largo in basso, con le stamberghe del popolino, poi uno più piccolo al centro, adorno delle magioni dei ricchi, infine il culmine con il terzo strato, dove c'è la sorpresa per il festeggiato... la tana di Rakau.

Chiamala tana, osservò una vocina dentro di lei, ridendo beffarda. Sarà anche tutta nera, ma è una reggia superba.

Non mi dire che ti piace! si scandalizzò la prima voce.

Perché no? chiese la seconda in tono di sfida. Chi ti ha detto che tutto quello che fa l'Oscurità dev'essere per forza orripilante? Non ricordi la Caverna Centrale? Non era forse splendida? E l'aveva fatta Xos, creatura dell'Oscurità...

Certo che me la ricordo! interruppe la prima voce, irata. Ma ricordo anche la Caverna d'Acqua con il mostro annidato nel lago sotterraneo: la bellezza dell'Oscurità è sempre corrotta, inquinata, per cui sta zitta e non mi seccare più!

Le rispose l'eco di una risata di scherno. Veldhris si sentì rabbrividire di nuovo: cosa le stava succedendo? La sua integrità morale, le sue convinzioni erano in pericolo, vacillavano? A nulla le serviva la chiarezza mentale in quel caso, anzi la consapevolezza della scandalosa attrazione che provava verso Rakau non faceva che aumentare la sua confusione. Aveva fatto male a bere dalla Fonte dell'Arcobaleno? No, non poteva essere che Rovrin l'avesse mal consigliata. Eppure il dubbio si insinuava subdolamente nel suo cuore...

I suoi pensieri vennero interrotti da un vocio crescente che attirò la sua attenzione. Si fermò, allungando una mano per trattenere Nirvor che procedeva davanti a lei, e guardò alla loro sinistra, dove un breve vicoletto si infilava tra due caseggiati per sbucare in una piazza gremita di gente in piedi davanti ad un palco di legno. Su di esso si avvicendavano persone d'ambo i sessi e di vari colori, mentre un uomo grasso e pelato pareva presentarli via via che sfilavano. Veldhris ne contò una dozzina o poco più, fra cui una donna di pelle nerissima che la colpì in modo particolare a causa del ventre ingrossato dalla gravidanza.

"Che cos'è?" domandò sottovoce. Anche gli altri guardarono.

"Un'asta di schiavi", rispose Nirvor.

Veldhris rimase un istante in forse, poi si avviò decisa verso il vicoletto e lo imboccò.

Freydar la rincorse e le posò una mano sul un braccio per trattenerla. "Cosa vuoi fare?" le chiese.

"Voglio vedere", rispose lei, liberandosi e proseguendo imperterrita. Al capitano non restò che far cenno agli altri di seguirli mentre lui raggiungeva la cantante, che si era fermata ad attenderlo all'ingresso della piazza. Aspettarono il resto della compagnia, poi tutti quanti si addentrarono tra la gente ammassata nel piccolo spiazzo dominato dal palco, con Roden che fendeva la folla facendosi largo senza tanti complimenti.

Man mano che si avvicinavano al podio, l'abbigliamento della gente cambiava sensibilmente, passando dagli stracci degli schiavi ai rozzi panni dei contadini, agli abiti più raffinati dei piccoli imprenditori e commercianti ed alle uniformi degli ufficiali di basso rango, per concludere con le ricche vesti indossate da individui dell'aria volgare, con ogni evidenza i servitori particolari degli abitanti della ricca zona centrale di Necrodia, che naturalmente non si sarebbero mai degnati di presenziare personalmente ad un'asta di schiavi.

I viandanti giunsero dietro ai soldati meno importanti, dove preferirono fermarsi per non dare nell'occhio. Già lì, tra le ordinate uniformi dei guerrieri e gli indumenti lindi del ceto medio, i loro impolverati abiti da viaggio facevano spicco.

Il grassone sul podio, il cranio pelato lucido di sudore, stava decantando le qualità del primo schiavo in vendita, un uomo sui vent'anni, alto, biondo e robusto, vestito solo di una fascia attorno ai fianchi.

"Guardate che muscoli, signore e signori, che fisico potente!" vociava il banditore, agitando per aria una corta verga bianca e facendo ballonzolare il grosso orecchino che gli pendeva dal lobo dell'orecchio. "Un perfetto lavoratore, disciplinato e abituato ai mestieri più pesanti, come il muratore, il carpentiere, il boscaiolo, il manovale. È intelligente e impara in fretta quello che gli si insegna. Come assaggiatore farebbe bella figura alla tavola di qualunque signore, che ne dite? C'è da dire poi che è uno stallone instancabile e che ha già fatto figliare molte schiave, rendendole madri di bambini sani e robusti come lui. Il prezzo di base, attenzione signore signori, è di soli cinquecento stern."

Fece un cenno ad un aiutante, che si affrettò a togliere la fascia dai fianchi del giovane, che rimase completamente nudo, esposto agli sguardi senza fare un solo gesto per coprirsi, l'aria indifferente.

La folla mormorò, evidentemente ben impressionata, poi qualcuno lanciò la prima offerta, rilanciata subito da un altro, poi da un terzo. Lo schiavo biondo pareva incurante, ma seguiva attentamente i rilanci.

Veldhris distolse gli occhi e si estraniò, turbata. Nella Foresta del Vespro non esisteva la schiavitù, salvo rari casi in cui un debitore, impossibilitato a saldare in altro modo un creditore, lavorava per questi per un certo periodo di tempo senza essere pagato. La vendita all'incanto di esseri umani come bestiame era semplicemente abominevole e la cantante si sentiva umiliata quasi fosse lei ad essere contesa e venduta a suon di quattrini. In realtà, si sentiva umiliata dal fatto che i suoi simili fossero capaci di una cosa tanto abietta come quella.

Lo schiavo biondo venne venduto al prezzo di millecinquecento stern, una bella somma. Lo ster era l'unità di misura monetaria in corso fin dai tempi dell'Impero e non era cambiata che per il conio, che ora portava l'effigie di Rakau e delle Quattro Pietre al posto di quella dell'Imperatore o dell'Imperatrice e della Corona di Luce. Alla partenza da Rela, il Maresciallo Zonev aveva consegnato a ciascuno dei viandanti un sacchetto rigonfio di monete, per un valore di circa tremila stern a testa.

"E ora, signore e signori, questa splendida donna dalla chioma d'argento", annuncio il banditore, agitando la verga attorno alla giovane che era stata sospinta sul palco. Era alta e snella, con lunghi capelli di un biondo così chiaro da parere davvero d'argento, sebbene fossero ben lontani dallo splendore della capigliatura di Nirvor. Gli occhi straordinariamente grandi erano di un azzurro intenso ed avevano uno sguardo freddo, altero.

"Viene dall'altra parte del mare, signore e signori, fiera figlia di un grande capo guerriero!" declamò il banditore con voce roboante. "Non ha ancora trent'anni ed è una vera esperta nell'arte dell'amore. È robusta e forte, e potrà avere molti figli dagli stalloni con cui la farete accoppiare... a meno che, naturalmente, non preferiate pensarci voi stessi, signori", aggiunse, con un sogghigno che provocò l'ilarità del pubblico. Spogliata dal solito aiutante, la giovane donna dall'espressione altezzosa rivelò un corpo splendido che provocò una vera e propria battaglia nella pioggia delle offerte. Venne infine venduta per ben quattromila stern ad uno dei servitori tra i più sontuosamente abbigliati.

Kejah ne aveva abbastanza. "Andiamocene, Vel", pregò la cugina, tirandola per una manica.

"No", si ostinò la cantante.

Freydar la guardò perplesso, in cerca di spiegazioni, ma lei lo ignorò, continuando a fissare il palco: aveva preso una decisione e non si sarebbe mossa di lì finché non l'avesse attuata.

Toccava ora ad una ragazzina dalla pelle color zafferano e gli occhi neri dal taglio a mandorla, piccola e ben fatta, sul viso dai tratti delicati un'espressione provocante.

"Questa fanciulla ha tredici anni", dichiarò il banditore con aria fiera. "L'ho cresciuta personalmente e vi posso assicurare, signori, che è ancora vergine. Non è stato facile tenerla a freno, vogliosa com'è", sghignazzo volgarmente. "È vivace e intelligente, a volte fa le bizze, ma bastano un paio di bastonate per rimetterla in riga. Sa cucire, rammendare e ricamare magistralmente e confeziona abiti a velocità incredibile. Signori, signore, la prima offerta è di cinquecento stern."

Denudata dall' inserviente, la ragazzina si mise a pavoneggiarsi spudoratamente, conscia del fascino del suo corpo acerbo sul pubblico maschile presente. Se l'aggiudicò un imprenditore per ottocentocinquanta stern, al che la ragazzina scoppiò a piangere, urlando che voleva servire un padrone degno di tale nome, un ricco mercante e non un misero sartorello qualunque. Si beccò due ceffoni e fu spedita giù dal palco, dal suo nuovo proprietario, che d'un tratto aveva assunto un'espressione preoccupata.

Nel frattempo, venne trascinata sul podio la giovane nera in stato di avanzata gravidanza che Veldhris aveva notato prima. La disperazione dipinta sul suo volto d'ebano stringeva il cuore.

"Due al prezzo di una!" sbraitò il banditore. "Figlierà tra un paio di settimane, signori, e avrete un bel bambino sano e robusto come la madre pagando solo la fattrice, un vero affare! È una bravissima massaia, esperta cuoca e sa curare l'orto come pochi. È dolce e timida, obbediente e non si affatica facilmente. Prezzo di base appena quattrocento stern."

Al suo cenno, l'inserviente strappò la leggera tunica di dosso alla schiava, lasciandola nuda. Invano lei tentò di coprirsi con le mani, di girarsi per nascondersi: venne tenuta ferma sul posto, di profilo al pubblico per evidenziare meglio il ventre ingrossato dalla gravidanza.

"Questo è troppo!" proruppe Kejah, incurante che la sentissero, e si voltò per andarsene, sconvolta. Si bloccò udendo la voce chiara e decisa di Veldhris che gridava. "Quattrocento stern!"

I suoi compagni la fissarono a bocca aperta.

"Sei impazzita?!" sibilò Mikor, furioso.

"Cos'ha in mente di fare?" l'interrogò Roden, allarmato.

Lei non si curò di nessuno e tenne la mano sollevata per farsi notare dal banditore.

Questi la vide ed aggrottò la fronte, forse perplesso dall'abbigliamento della cantante, tuttavia si riprese in fretta ed annunciò: "Quattrocento per la signora in grigio; chi offre di più?"

"Quattro e cinquanta!" gridò una voce maschile.

"Cinquecento!" strillò una donna.

"Seicento!" ribatté il primo.

"Settecento!" strillo la seconda.

Veldhris non vedeva né l'uno né l'altra, troppo bassa per vedere oltre il mare di teste che la circondava. "Mille", disse ad alta voce.

Roden le tiro un braccio. "Ti deve aver dato di volta il cervello", brontolò, irritato. "Vuoi attirare l'attenzione su di noi?"

"Voglio salvare quella povera ragazza e suo figlio", ribatté Veldhris, attenta ai rilanci. Uno dei contendenti aveva offerto mille e cento.

"Millecinquecento!" gettò, impaziente.

Roden la strattonò ancora. "Nobile proposito, ma i soldi?"

"Oh, andiamo, ne abbiamo a sufficienza per comprarne dieci, di schiavi!" scattò lei. "Lasciami fare."

Il fratello rinunciò, scuotendo il capo sbalordito: a volte Veldhris aveva la testa più dura di un mulo.

Non ci furono altre offerte.

"Aggiudicata alla signora in grigio per millecinquecento stern!" dichiarò il banditore, fustigando l'aria con la verga.

Veldhris passò Rollie a Kejah e si fece strada a gomitate fin sotto il palco, dal lato dove una scaletta permetteva l'accesso. Qui pagò sull'unghia i millecinquecento stern offerti, metà del contenuto della sua borsa, ottenendo in cambio la bolla di schiavitù della giovane. Costei, sommariamente rivestita della sua tunica strappata, il volto rigato di lacrime, venne sospinta verso la sua nuova padrona. Ora che la vedeva da vicino, Veldhris ne notava per la prima volta la bellezza insolita, selvaggia ma al contempo curiosamente quieta; gli occhi arrossati dal pianto parevano due perle nere. Poco più giovane di Veldhris, raggiungeva la statura di Mikor, sovrastando la proprietaria di buoni quindici centimetri; ciononostante, si ritrasse spaventata al suo avvicinarsi.

"Non temere", la rassicurò Veldhris con cautela. "Non ti farò alcun male, credimi."

Il tono dolce della sua voce, più che le parole, parvero avere un effetto calmante sulla giovane schiava, che guardò con occhi resi enormi dall'ambascia la sua nuova padrona.

"Come ti chiami?" domandò Veldhris, stringendole le mani gelate tra le proprie.

"Ylmària", rispose la giovane sottovoce.

"Bene, Ylmària, adesso ti porterò via da qui."

La giovane guardò spaventata la ressa che la circondava.

Veldhris comprese istintivamente quale fosse la sua paura. "Mio fratello e i miei amici proteggeranno te e il tuo bambino", disse.

Come se l'avesse sentita, Roden sbucò dalla folla e si avvicinò rapidamente alle due giovani donne. Guardò brevemente la schiava seminuda e si affrettò a rivolgersi alla sorella. "Allora, cosa facciamo, adesso?"

"Prima di tutto, usciamo da qui", rispose Veldhris, mentre sopraggiungevano anche Freydar e gli altri. "Poi cercheremo una locanda e attenderemo che faccia notte." Aspettò che la compagnia si fosse riunita, poi diede le direttive. "Freydar, Roden, mettetevi ai lati e tenete lontana la gente; gli altri precedano e seguano come vogliono, ma facciano lo stesso: dobbiamo proteggere Ylmària e il figlio che porta."

Sekor, Kejah e Mikor si disposero a cuneo davanti a Roden e Freydar, che sostenevano Ylmària tra di loro; e Nirvor e Veldhris si accodarono. Aprendosi un varco nella ressa vociferante, che seguiva l'asta tuttora in corso facendo fioccare le offerte, il gruppo si mosse attraverso la piazza gremita fino ad arrivare all'imboccatura del vicoletto che dava sulla strada principale, lo percorse e si ritrovò al punto di partenza. Lì, Veldhris prese la testa e condusse i compagni verso una costruzione, su cui spiccava una grande insegna di locanda, poco lontana dal vicoletto.

L'ostello, un povero tugurio squallido ma dall'aria sufficientemente pulita, era semivuoto e così poterono affittare senza difficoltà quattro stanze doppie che si affacciavano su di una saletta comune, pagando in anticipo per la notte che già sapevano non avrebbero trascorso lì. Le stanze erano fredde e miseramente arredate, ma bastò accendere il fuoco per scaldare e rallegrare l'ambiente.

Essendo quasi mezzogiorno, ordinarono il pranzo, che fu servito su richiesta di Veldhris in una saletta a parte, evitando così ai viandanti di scendere nello stanzone comune al pianterreno.

Ylmària prese il piatto di carne e la tazza di vino che le porgevano, poi andò a posarli sullo zoccolo del caminetto, con l'intenzione di servire il pasto alla padrona ed ai suoi amici prima di mangiare.

Veldhris, senza capire, la richiamò. "Non ti siedi a tavola con noi, Ylmària?"

"Ma... il posto di una schiava è questo", obiettò la giovane, intimidita, indicando il focolare.

"Non quello di un essere umano", replicò Freydar con gentilezza, andandole vicino e prendendola per un braccio. La guidò al tavolo, ma lei era recalcitrante.

"Sono solo una schiava. Non posso sedere alla stessa tavola della mia padrona", protestò sottovoce, gli occhi bassi.

Veldhris si alzò, andò a prendere il piatto e la tazza, li posò sul tavolo e fece sedere la giovane. "Ti ho comprato per darti le libertà", dichiarò con fermezza. "Non voglio più sentirti dire che sei solo una schiava. Davanti agli Dei non esistono né schiavi né padroni, perché siamo tutti uguali ai loro occhi. Hai capito?"

Senza rendersene conto, si era rifatta ai discorsi di Nirvor, quando le aveva rivelato la vera natura del mondo e delle sue creature. A quanto pareva, li aveva accettati senza riserve.

"Sì, padrona", assentì Ylmària, obbediente.

"Veldhris", la corresse la cantante. "Vedi Rollie?" proseguì, indicando il cagnolino, che sentendosi nominare si avvicinò scodinzolando e fissò con gli occhioni curiosi la nuova arrivata. "Non mi considero sua padrona. Ci siamo incontrati in un momento di grande dolore per entrambi e lui ha scelto di seguirmi. Pertanto, è libero di andarsene quando crede, perché le catene che lo legano a me sono quelle dell'affetto, non della schiavitù o della proprietà. Fra non molto, potrai fare lo stesso anche tu."

Ylmària la fissò con occhi pieni di incredula meraviglia, incapace di parlare.

Veldhris le sorrise rassicurante. "Mangia, adesso, e dopo riposati", la esortò. "Ne avrai sicuramente bisogno, nelle tue condizioni."

A poco a poco, la giovane si rilassò, vedendo che tutti i presenti la trattavano con naturalezza, senza umiliarla né, d'altra parte, comportarsi in modo eccessivamente premuroso. Mancava solo Nirvor, che si era ritirata in camera per non rivelare la sua identità alle inservienti che avevano portato il pranzo.

"Quando nascerà la tua creatura?" s'informò Kejah con simpatia.

Un sorriso timido e dolce illuminò il viso scurissimo della giovane. "Il termine è fra venti giorni", rispose.

Roden tossicchiò. "E... il padre?" domandò con gentilezza.

Una strana colorazione più scura chiazzò le guance di Ylmària, ed i presenti compresero che era il suo modo di arrossire. "Uno stallone qualunque. Sono stata fortunata, perché è stato molto gentile ed è bastato un solo accoppiamento. Non lo rivedrò più. Non so neppure il suo nome", concluse con tristezza.

Veldhris capì che non era rimpianto per quello sconosciuto che la rendeva madre, bensì compassione per il suo bambino concepito senza amore, per volere altrui, e che non avrebbe mai conosciuto un padre. Dalla sua espressione quando ne parlava, però, era chiaro che amava la creatura che cresceva dentro di lei e che presto avrebbe visto la luce.

"Spero di esserti vicina quando nascerà", disse Kejah, dissipando d'un subito l'atmosfera un po' rattristata. "Sarà un bambino bellissimo, se assomiglia anche solo un poco alla madre."

Ylmària la ringraziò con un sorriso che fece balenare i denti candidi tra le labbra carnose. "Il mio padrone precedente", raccontò spontaneamente, "mi ha venduta perché era rimasto a corto di soldi. Ero terrorizzata, temevo il peggio... ma ora ringrazio gli Dei perché mi hanno fatto incontrare voi."

Li guardò ad uno ad uno con gratitudine immensa, commuovendo tutti i cuori.

Nel pomeriggio, Veldhris chiese ad Ylmària cosa doveva fare per renderla libera secondo le leggi vigenti a Necrodia, ed apprese che bastava un documento olografo, firmato da lei e controfirmato da due testimoni, da conservare a cura del liberto assieme alla bolla di schiavitù in tal modo invalidata. Veldhris non voleva infatti correre rischi di sorta: se, come si augurava, usciva vincitrice dallo scontro con Rakau, non sarebbe stato necessario, poiché una delle prime cose che avrebbe fatto sarebbe stato abolire l'ignominiosa pratica della schiavitù, ma in caso contrario voleva assicurarsi che la giovane e la sua creatura fossero liberi di disporre della loro vita, com'e sacrosanto diritto di ogni essere umano.

Kejah scese pertanto a cercare l'occorrente per scrivere e si rivolse all'oste in persona, che dietro il bancone nella sala comune distribuiva birra, vino e sidro ai clienti. L'aria era fumosa e pregna di un aroma sconosciuto, tanto che Kejah, attendendo che l'oste tornasse con carta, penna e calamaio, si mise a guardare con curiosità gli strani cannelli, ora dritti ora ricurvi, terminanti in una specie di fornelletto, che molti dei presenti tenevano in bocca e da cui aspiravano con evidente piacere, sbuffando poi nuvolette di fumo dall'aroma particolare. Nel fornelletto ardeva infatti una noce di erba triturata e compressa che risvegliava l'interesse di erborista della cacciatrice, poiché il tabacco, come in seguito apprese si chiamava, le era completamente sconosciuto.

"Ehi, bellezza, sembra che tu non abbia mai visto una pipa!" l'apostrofò ridendo sguaiatamente uno dei presenti, nell'uniforme nera e rossa dei miliziani di Necrodia.

Kejah sussultò e distolse lo sguardo che, senza avvedersene, aveva finora tenuto fisso sull'uomo, e ostentò indifferenza.

Il soldato non si lasciò scoraggiare e, alzatosi per dirigersi verso di lei, tornò alla carica. "Che ne dici di provare una boccata in camera mia, eh?"

Fece un gesto osceno all'altezza dell'inguine; nello stanzone calò un silenzio di gelo.

Kejah si sentì avvampare dalla collera, ma si contenne e, giratasi a sfidare con lo sguardo il miliziano. "Ho di meglio da fare", disse fermamente, parlando in perfetto accento kirton.

"Ma davvero?" sghignazzò il soldato. "Scommetto che non è vero."

Mosse un passo verso la cacciatrice con fare minaccioso, ma lei non arretrò ed il pugnale parve comparirle in mano come d'incanto, tanto fu rapida ad estrarlo.

Il soldato si bloccò, esterrefatto, ma dopo un istante si riprese. "Metti via quel coltello", ringhiò. Allungò una mano per strapparglielo, ma d'un tratto udì uno schiocco secco e qualcosa lo sferzò dolorosamente al polso, abbassandogli bruscamente la mano protesa. Urlò per l'improvviso bruciore che penetrava nella carne e retrocedette barcollando, fissando stralunato il giovane biondo che, la lunga frusta pronta ad una nuova staffilata, lo fronteggiava a tre passi di distanza.

"Lascia stare la signora", disse Sekor. Nel silenzio dello stanzone, la sua voce bassa sembrò mortalmente calma.

La sua espressione fosca fece impallidire il miliziano. "Ehi, amico, stavo solo scherzando, volevo offrire da bere alla ragazza, tutto qui", balbettò, arretrando ulteriormente. Inciampò in uno sgabello e vi piombò sopra come un sacco di patate, ben poco dignitosamente.

L'oste era rimasto, al pari degli altri, paralizzato dietro al bancone, timoroso che un intervento a favore della straniera kirton gli attirasse le ire del soldato, che poteva aizzargli contro i commilitoni. Tra le mani, il pover'uomo teneva ancora la carta, la penna d'oca ed il calamaio richiesti da Kejah.

"Muoviti. Kejah", disse Sekor, senza distogliere lo sguardo foriero di morte dal miliziano.

Kejah ripose il pugnale e prese il materiale che l'oste, gli occhi fuori dalle orbite, le porgeva.

"Ci vuole anche inchiostro rosso per le firme", l'avverti il principe.

L'oste fu svelto come un fulmine a portarglielo.

"Andiamo", disse la cacciatrice.

Con calma, Sekor decontrasse il braccio e riavvolse la frusta, poi uscì dallo stanzone pieno di fumo, dietro a Kejah.

Nel locale, qualcuno fischiò piano. "Mai visto niente di simile!"

Un altro ghignò, sottovoce per non farsi sentire. "Ben gli sta, a quel prepotente!"

L'atmosfera tornò a rilassarsi e nessuno fece caso al miliziano che strisciava via, scornato.

Intanto, Kejah e Sekor salivano le ripide scale che portavano alle stanze.

"Sei capitato proprio al momento giusto", riconobbe la cacciatrice, sorridendogli grata.

Lui si schernì vivacemente. "No, no, sono sicuro che avresti saputo cavartela benissimo anche senza di me. Ero venuto solo per dirti del l'inchiostro."

Kejah assenti, celando la sua delusione: dallo sguardo truce che aveva visto nei suoi occhi, aveva sperato che il principe avesse provato, in quei momenti, qualcosa di più del semplice desiderio di proteggere una compagna di viaggio, ma lui sembrava ansioso di chiudere l'argomento. "Penso che sarà meglio non preoccupare Vel con questa faccenda", disse pertanto. "Sei d'accordo?"

"Va bene", rispose Sekor, aprendo la porta che immetteva nella saletta comunicante con le quattro stanze affittate.

Qui, Veldhris vergò il documento che affrancava Ylmària dalla schiavitù e glielo consegnò con la bolla invalidata, tra le lacrime di gioia della povera giovane e la commozione dei presenti. Poi decisero di andare tutti a riposare, in attesa della notte.

OOO

Venne l'oscurità. L'atmosfera tesa che regnò a cena turbo Ylmària, resa ipersensibile dal suo stato particolare di donna gravida. "Qualcosa vi preoccupa, vero, padrona?" chiese, timida, gli occhi bassi per l'audacia che stava usando.

"Non t'azzardare più a chiamarmi così", la redarguì Veldhris con fermezza ma anche con gentilezza. "Conosci il mio nome, no?"

L'altra esitò, poi riprese coraggio e sollevo gli enormi occhi neri e lucenti. "Veldhris", rispose.

La cantante annuì. "Così va bene. E sì, c'è qualcosa che preoccupa tutti noi. Vedi, dobbiamo assentarci per non sappiamo quanto tempo: forse ore, forse giorni."

Ylmària guardò spaventata i suoi nuovi amici e, con un commovente gesto istintivo, si sfiorò il ventre gonfio. "Ve ne andate tutti? Mi abbandonate?" domandò con voce piccola, tremando.

Roden si sentì particolarmente impietosito. "Non devi aver paura del mondo, Ylmària. Adesso sei libera, lo attestano quei documenti, e potrai andare dove vuoi, o anche rimanere, se lo preferisci."

Lei scosse la testa di crespi capelli neri. "Non ho nessuno, qui."

"Siamo obbligati ad andar via", spiegò Veldhris. "Non è una nostra scelta, altrimenti resteremmo qui. Torneremo appena possibile, ma se non fosse così – se non tornassimo – tu non inquietarti: devi pensare alla tua creatura."

Le porse due sacchetti pieni di monete, che la giovane dapprima rifiutò, ma poi le argomentazioni di Veldhris le fecero cambiare idea: doveva essere in grado di cavarsela almeno economicamente, nel caso non avesse più potuto contare sulla protezione dei suoi nuovi amici.

Se ne andarono prima di mezzanotte. Ylmària li guardò andar via trattenendo a stento le lacrime, per rispetto a Veldhris che le aveva proibito di piangere. "Che gli Dei vi proteggano", augurò loro, intuendo che stavano per affrontare un grave pericolo. "Siate prudenti."

Nirvor, che si era sempre tenuta celata ai suoi occhi per non rivelare la propria identità, le sfiorò la fronte con dita leggere. "Che gli Dei ti benedicano, e con te tua figlia. Sarà una bellissima bambina."

Gli altri guardarono stupiti la figura ammantata.

"Come lo sapete?" chiese Kejah, le sopracciglia inarcate.

Nell'ombra del cappuccio brillò fugacemente un sorriso dolcissimo. "Sono o non sono una maga?"

Veldhris sorrise lievemente dell'inusuale tono scherzoso dell'Argentea. Poi, a malincuore, esortò i compagni a muoversi. "Andiamo, è ora."

Poiché stavolta era risultato impossibile convincere Rollie ad abbandonare la padroncina, e sapendo che il cagnolino, se adeguatamente istruito, non faceva rumori di sorta, i sette compagni lo portarono con loro, nonostante la viva disapprovazione di Mikor.

Attraversarono senza difficoltà la miserabile città bassa, diretti al più vicino ponte che li portasse al di là del fossato che separava il quartiere ricco dai bassifondi. Com'era prevedibile, il ponte era sorvegliato, ma bastò che Nirvor ripetesse la piccola magia ipnotica usata al ponte levatoio perché le quattro sentinelle li lasciassero transitare senza problemi e si dimenticassero istantaneamente di loro.

Come ombre, i viandanti scivolarono silenziosamente lungo i muri delle residenze, evitando di farsi scorgere dalle pattuglie che vegliavano sulla sicurezza del sonno dei favoriti di Rakau. Lì, era come essere entrati in tutt'altra città: le strade, pur mantenendo un andamento serpeggiante, avevano un fondo ben livellato ed accuratamente ripulito dai rifiuti e dalla melma che invece, pochi metri lontano, imperavano ovunque; le case erano di pietra chiara, spesso impreziosita da sculture a bassorilievo, ed erano adorne di frontoni, colonne e porticati; le finestre erano tutte munite di vetri, lisci od a tondelli, trasparenti, opachi o colorati a seconda dell'estro dei proprietari; i canali di scolo erano accuratamente coperti, tanto da non potersi individuare, e l'aria era pulita, profumata della fragranza primaverile, solo di tanto in tanto inquinata dal tanfo proveniente dai bassifondi appestati. Unica nota in comune tra questa zona lussuosa e quella miserabile che i viandanti si erano lasciati alle spalle era l'assenza di verde, ma senza dubbio nei cortili retrostanti le ricche magioni c'erano piante e fiori in profusione.

I sette arrivarono ai piedi della rupe sulla quale era costruito il Palazzo dell'Oscurità. Qui la strada si biforcava, girando attorno alla base del monolito per dirigersi all'unico accesso al covo di Rakau, una serie di rampe di gradini intagliati nella roccia ed attentamente sorvegliata dalla guardia personale della Signora dei Draghi Neri.

"Ci siamo quasi", disse Nirvor a bassa voce, guardando in alto. Sei cappucci si sollevarono a loro volta per scrutare la liscia parete rocciosa scevra di appigli: ventotto metri più in alto si ergevano le mura di cinta della residenza, altrettanto lisce e cieche, prive finanche di feritoie. Non erano infatti mura difensive, ma soltanto una barriera atta a creare uno splendido isolamento per la Signora dei Draghi Neri, la cui magnificenza non poteva certo mescolarsi con la banalità dei comuni mortali. In ogni caso, gli imponenti bastioni fortificati di Necrodia bastavano ampiamente a sostenere un'eventuale quanto impensabile assalto nemico.

Seguendo le istruzioni di Nirvor, si presero per mano; dopo un attimo, si sentirono sollevare come da una mano invisibile e presero a fluttuare verso l'alto, leggermente preceduti dall'Argentea che pareva trascinarli nella levitazione.

Tenendosi rasente alla rupe monolitica, superarono i quasi trenta metri di roccia ed i cinque delle mura, le sorvolarono e calarono silenziosamente nel giardino, ricolmo di piante ornamentali come tigli e magnolie. Veldhris, che ad un'estremità della catena umana dei suoi amici aveva tenuto in braccio Rollie, si guardò attorno con inquietudine, individuando la mole, più nera della notte ancora priva di luna, che indicava la presenza del Palazzo dell'Oscurità.

Furtivamente, corsero avanti tenendosi chini verso terra, calpestando l'erba ed i fiori che costellavano il prato circostante la magione. Il parco, come aveva loro detto Nirvor, era un cerchio che misurava quasi un chilometro di diametro, metà di quello della zona residenziale, e la reggia che vi sorgeva al centro era un parallelepipedo di sessanta metri per lato.

Giunti ad una ventina di metri dall'imponente costruzione, si fermarono e la sbirciarono da dietro una lunga siepe alta come un uomo e tagliata ad onde regolari.

"Non ci sono guardie", constatò meravigliato Freydar. "Rakau deve sentirsi molto al sicuro, nella sua tana."

"Comprensibile", sussurrò Veldhris di rimando, pensando alla vertiginosa ascesa che avevano appena effettuato. "Quassù possono arrivare solo gli uccelli."

"Sì, ma mi sembra strano ugualmente", bisbigliò il capitano. "È una mancanza di prudenza a dir poco arrogante."

"Non dimentichiamo che siamo giunti nel cuore del suo malefico potere", disse sottovoce Kejah, osservando con diffidenza l'incombente edificio nero. "Probabilmente penserà che basti questo a scoraggiare chiunque... e non posso darle torto."

Nirvor taceva, gli occhi chiusi ed il capo reclinato come in ascolto, il volto bellissimo dai lineamenti tirati per l'intensa concentrazione. Gli altri attesero.

"C'è una volontà oscura all'opera", mormorò infine la Custode della Corona, tornando tra di loro. "Sembra che attenda qualcosa... un avvenimento d'importanza capitale."

Per un lungo momento il silenzio gravò su di loro.

"Forse la ragione è l'approssimarsi del compimento del Millennio di Tirannide", disse all'improvviso Veldhris.

"Sì, lo credo anch'io", fu d'accordo Nirvor. "Dopotutto, mancano solo venticinque giorni."

"Così poco?" mormorò la cantante. Strano che non avesse mai pensato a chiedere la data esatta. Forse si era trattato di un inconsapevole tentativo di allontanare il momento fatale. Ormai però non c'era altro da fare: con un gesto deciso, tirò indietro il cappuccio del mantello, rivelando la Corona di Luce che le cingeva la fronte.

"L'Erede di Arcolen è giunta, Rakau", disse a denti stretti. "Preparati alla tua fine."

Si mossero. Veldhris, che nonostante le parole spavalde moriva di paura, si costrinse a star dietro a Nirvor, che li guidava, senza farsi distanziare. Man mano che si avvicinavano al nero edificio, il suo timore crebbe a dismisura, tanto che a momenti si sarebbe messa ad urlare implorando aiuto per non farsi sopraffare dal panico, ma proprio nell'istante in cui la sua lotta interiore raggiungeva al parossismo, la paura svanì d'incanto, come risucchiata da un buco apertosi nella sua mente. Di colpo si ritrovò a pensare lucidamente, i battiti del cuore si calmarono e respirò normalmente, accorgendosi d'un tratto di trovarsi schiacciata contro il muro esterno della cupa dimora, nei pressi di una grande finestra a tondelli colorati. Accorgendosi che non era chiusa, decisero di penetrare di là nell'interno della reggia: uno dopo l'altro, scavalcarono silenziosamente il davanzale di legno pregiato e riaccostarono i vetri. Si ritrovarono in una grande stanza scura stranamente insonora e dopo un po', abituando gli occhi al lievissimo chiarore emanato da Nirvor, distinsero scaffali e scaffali pieni di libri di ogni misura, antichi e preziosamente rilegati: erano capitati in una biblioteca zeppa di tomi e volumi, senz'altro la più grande che avessero mai visto.

"Per di qua", sussurro Nirvor, prendendo Veldhris per mano.

In fila l'uno dietro l'altro, seguirono con passi felpati l'Argentea che, dopo averli guidati davanti ad una grande porta, ne tentò la maniglia. "È chiusa a chiave", annunciò.

Rollie, che zampettava alle calcagna della padroncina, diede improvvisamente, contro tutti gli ordini ricevuti, in un breve ringhio. Un rumore secco alle loro spalle li fece sobbalzare e voltare di scatto: tozze sagome dell'identità indistinguibile si staccarono dalle nere ombre degli angoli della biblioteca, stagliandosi contro lo sfondo più chiaro della finestra.

"Attenti!" gridò Roden, in fondo alla fila.

Istintivamente, Veldhris si lasciò cadere a terra, preparandosi ad usare la Corona, ma non servi: qualcosa la colpì dolorosamente al viso, come una puntura di vespa, ed istantaneamente si sentì intorpidire. Invano lottò contro l'oscurità che la sommergeva, strappandosi con sforzi sovrumani il sottile ago conficcato in una gota; tentò ancora di concentrarsi sulla Corona per richiamarne il potere, ma i pensieri le sfuggivano come farfalle impazzite. Attraverso un velo di foschia grigia, vide le figure stranamente fosforescenti dei suoi compagni abbattersi a terra come birilli, colpite dai dardi drogati lanciati dalle creature d'ombra. Le sembrò che passasse un'infinità di tempo, ma in realtà la sostanza soporifera agì in pochi istanti: con la terribile consapevolezza d'aver fallito, Veldhris piombò in uno stato d'incoscienza fatto di nero nulla. 

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