Capitolo I: Tamya

Parte Prima: Il Fuoco (Rakau)

Capitolo I: Tamya

Veldhris chiuse il libro che stava sfogliando e lo posò sul tavolo, poi si alzò e si affacciò al parapetto del giardino pensile. La piattaforma su cui si trovava, costruita tra i rami di un albero gigantesco, si librava a circa venti metri dal suolo ed offriva un'ampia vista sulla radura di Tamya, la capita del Regno della Foresta.

Lo sguardo di Veldhris venne immediatamente attirato dall'Albero Albino, che s'innalzava all'estremità orientale dell'ampia radura, spiccando con la sua corteccia chiarissima contro lo sfondo degli altri tronchi scuri. Quell'albero era il più colossale di cui si avesse notizia nel regno ed era unico nel suo genere: difatti, mentre tutte le piante della Foresta del Vespro, pur essendo di molte varietà diverse, avevano cortecce brune o nere, chissà quale scherzo della natura aveva fornito quell'unico albero di un rivestimento grigio chiaro, fiocamente luminoso sotto i raggi della luna. Per questa peculiarità, cui si aggiungeva una quasi perfetta centralità rispetto alla Foresta, l'Albero Albino era stato scelto come sede della Famiglia Reale e della corte ancora agli albori del regno, quasi mille anni prima a dar retta alle leggende.

Distrattamente, Veldhris incominciò a canticchiare una melodia che da qualche minuto le ronzava per la testa ed immediatamente lo yord, il piccolo strumento musicale che portava sempre appeso alla cintura in una custodia, si mise in funzione, azionato dalle vibrazioni sonore della sua voce, su cui era regolato. L'armonia che ne scaturì era incerta e confusa, sia perché la donna cantava piano, sia perché non era in posizione corretta, cioè premuto contro il petto. Veldhris era infatti una cantante, dotata di una voce molto potente dalla notevole estensione nella gamma più bassa delle voci femminili, quella di contralto. Fin da piccolissima, si era rivelata un vero talento, ed era entrata a far parte della Gilda dei Cantori molto giovane; la sua fama era cresciuta velocemente e ormai da alcuni anni era sempre lei che apriva e chiudeva la ricorrenza pubblica più prestigiosa del regno, la Festa di Primavera, che si teneva a fine aprile.

Affascinata dalla propria melodia, Veldhris sfilò lo yord dalla sua custodia e lo mise in posizione. Ondeggiando lievemente per darsi il ritmo, canticchiò finché non fu soddisfatta del risultato, anche in relazione all'accompagnamento, poi ripose lo strumento e tornò a sedersi. Già alcuni versi le si erano formati spontaneamente nella mente, così prese la lunga penna d'oca posata sullo scrittoio, la intinse nel calamaio e scribacchiò in fretta le parole su un foglio:

Il sentiero che parte da casa mia

Chissà dove finisce

Va oltre la patria foresta

E scompare nella foschia

Del giorno che languisce

A colui che resta

Ho dato il mio tenero saluto

Quello di chi in cerca parte

Dell'avventura arcana

Vecchi dal capo canuto

Intenti ai giochi di carte

Guardan giù da un'altana

Dove vai lontan di casa?

Che cerchi oltre i confini

Dell'ombra vespertina?

"Veldhris!"

La voce della madre la strappò dalla sua creazione. Seccata per l'interruzione, la giovane donna alzò lo sguardo in direzione della porta che si apriva nel tronco, dando sulla scala a chiocciola che si snodava all'interno per condurre giù, nella casa vera e propria.

"Cosa c'è, madre?" domandò, dominando l'irritazione perché il volto della donna più anziana era atteggiato a rammarico: sapeva bene quanto detestasse essere interrotta mentre stava lavorando.

Teewa le sorrise con aria di scusa. "Adyr Mironden, il Maestro di Palazzo, ti sta cercando: vuole parlarti."

"A proposito di cosa?" indagò Veldhris, alquanto sorpresa.

"Non gliel'ho chiesto", ammise Teewa. "Non è da tutti i giorni ricevere la visita da un personaggio tanto altolocato", aggiunse, ridacchiando un po' nervosamente, indice della sua agitazione. "L'ho fatto accomodare nel salotto verde."

"Va bene", disse Veldhris, alzandosi. "Andiamo a sentire..."

OOO

Nel salotto arredato in svariate tonalità di verde al primo piano della casa di Barod Unkorden, il Maestro di Palazzo, un uomo dalla chioma canuta, anziano ma vigoroso, attendeva in piedi davanti alla finestra. Il panorama era piacevole, come lo era l'atmosfera serena che regnava in quella casa, pensò, accarezzandosi la corta barba candida.

Il rumore della porta che veniva aperta lo indusse a voltarsi. Sulla soglia era apparsa una giovane donna di circa venticinque anni, non troppo alta e dal fisico gradevolmente curvilineo. I capelli bruni erano raccolti in una lunga coda di cavallo che partiva dalla sommità della testa, ma alcune ciocche ribelli sfuggivano dal nastro di cuoio e ricadevano sulla fronte e sul collo. I grandi occhi – verdi punteggiati di marrone – erano fissi su di lui, incuriositi; appena se n'accorse, Adyr si distolse di colpo dall'esame a cui, del tutto involontariamente, la stava sottoponendo.

"Sei tu la famosa Veldhris Teewadil, suppongo", disse.

"In persona", confermò lei, entrando e chiudendo la porta dietro di sé.

"Sono Adyr Mironden, il Maestro di Palazzo", si presentò lui con un lieve inchino di cortesia, che lei ricambiò con una piccola riverenza ugualmente cortese.

"Lieta di conoscerti", disse. "A cosa debbo l'onore della tua visita?"

Ecco una che non perde tempo, pensò l'uomo anziano con una punta di compiacimento: amava i modi diretti.

"La Regina Juvia mi ha incaricato di chiederti di cantare alla festa di compleanno di Re Samon", rispose.

Gli occhi della giovane donna s'illuminarono, riempiendosi di pagliuzze dorate. "Vuoi dire che la Signora della Foresta mi vuole al Verde Palazzo?"

"Esattamente", confermò Adyr, sorridendo all'evidente gioia di Veldhris.

"Ma è magnifico!" esclamò la cantante. "Io, alla corte! Sarà un grandissimo onore per me, Mastro Adyr..." s'interruppe, mentre il suo entusiasmo si freddava di botto. "Ma mancano soltanto pochi giorni! Mi ci vuole un abito adatto, delle calzature, e..."

"Non è un problema", si affrettò a rassicurarla l'uomo. "Fornirà tutto il palazzo. Puoi andarci anche subito, hanno già ricevuto istruzioni in merito."

Naturalmente avevano dato per scontato che avrebbe accettato, considerò Veldhris; il che era ovvio, perché nessuno avrebbe rifiutato una simile opportunità. La sua bocca – forse un po' troppo larga, ma dalle labbra ben disegnate – s'incurvò in un sorriso contagioso.

"Mi pare un sogno!" esclamò. "Ti ringrazio infinitamente, Mastro Adyr."

"Non me devi ringraziare, bensì la Regina Juvia", si schermì l'anziano. "Ti ammira molto e la ha deciso di fare una sorpresa al Re suo marito, che ti apprezza allo stesso modo. Quanto al compenso, avrai cinquecento talleri subito e altrettanti dopo la festa."

Veldhris sgranò gli occhi. "Mille talleri per una sola esibizione?!"

Era il compenso di suo fratello Roden per quattro mesi di lavoro! E sì che guadagnava bene, essendo un Mastro Boscaiolo.

"Proprio così", annuì Adyr. Staccò un sacchetto di pelle con le insegne reali dalla cintura e lo porse a Veldhris, che lo prese quasi con diffidenza, tant'era sbalordita. "Bene", concluse il Maestro di Palazzo. "Vieni all'Albero Albino quando vuoi, possibilmente già entro stasera. I miei saluti, Veldhris Teewadil."

Le fece un altro inchino, stavolta più accentuato del primo, ed uscì. Veldhris rimase immobile, soppesando ancora incredula il sacchetto tintinnante. Troppo tardi si accorse della sgarberia che aveva fatto all'anziano signore non accompagnandolo alla porta, ma, fortunatamente, udì la voce di sua mare sul pianerottolo e la risposta di Adyr. Sollevata, tornò a concentrarsi sull'imminente festa: essere chiamata dall'Albero Albino per un'occasione simile significava tre cose: la definitiva consacrazione come Cantore del Regno, appellativo che spettava solo ai professionisti di grande fama; una seria ipoteca al titolo di Prima Cantante della Foresta, assegnato ogni cinque anni durante la Festa di Fine Estate; e naturalmente prestigio da aggiungere al proprio nome.

Con un'esclamazione di giubilo, Veldhris lanciò in aria il sacchetto e lo riprese al volo. "Ed ecco a voi la Prima Cantante della Foresta, Veldhris Teewadil!"

"Non ti pare di correre un po' troppo?" chiese una voce divertita.

Con gli occhi brillanti, Veldhris si girò e vide sulla soglia due giovani donne di un paio d'anni più grandi di lei, alte e sottili, i folti capelli d'oro rosso spioventi sulle spalle, così simili l'una all'altra da risultare indistinguibili se non per la scriminatura, che una portava a destra e l'altra a sinistra. Entrambe erano abbigliate in varie sfumature di verde, e verdi erano anche i loro occhi.

"Forse un po', cugina, ma giusto un pochino!" rispose ridendo, mentre le due nuove arrivate entravano. "Tu che ne dici, Kejah?"

L'interpellata, la giovane con la scriminatura a sinistra, scosse la testa facendo ondeggiare la criniera di fuoco. "Dico che il titolo sarà tuo tra un mese soltanto, quindi non esagerare."

La finta severità del suo tono indusse Kareth, la sua gemella, a ridere. "Andiamo, sorella, non sai rimproverare Veldhris come si deve, e del resto nessuno in questa famiglia ci riesce!"

Scherzava, ma era la verità: Veldhris, figlia adottiva di Barod e Teewa, non era una persona che potesse essere rimproverata, dato che era molto posata e solo raramente le capitava di commettere delle leggerezze, che comunque, in virtù del suo fascino disarmante, le venivano prontamente perdonate.

"Allora, ci dici cosa voleva quel vecchio barbagianni?" la sollecitò Kareth.

"Guarda che stai parlando di Adyr, il Maestro di Palazzo", la redarguì Veldhris con lo stesso finto cipiglio usato poco prima dalla cugina Kejah. "Sono stata ingaggiata per la festa di compleanno di Re Samon!" annunciò poi con giusto orgoglio.

Kareth emise un fischio ammirato e Kejah batté le mani.

"È fantastico!"

"Che occasione straordinaria!"

Le loro esclamazioni si sovrapposero, piene di entusiasmo e di contentezza per la cugina più giovane. In quel momento, le tre giovani vennero raggiunte da Teewa e subito Kejah le andò incontro. "Zia, hai sentito la notizia? Veldy canterò all'Albero Albino!"

Teewa sorrise alla figlia adottiva e alle nipoti. "Sì, me l'ha detto Mastro Adyr. Sono felice per te, figlia mia."

"Grazie, madre. E non è tutto!" Veldhris mostrò il sacchetto consegnatole da Adyr. "Qui ci sono cinquecento talleri, e altrettanti ne riceverò dopo la festa."

Teewa e le gemelle sgranarono gli occhi, poi Kareth ripeté il fischio di prima. "Per tutti gli dei! Ho una cugina ricca, oltre che famosa!"

Veldhris rise, imitata dalle cugine. Teewa stava invece pensando ai dettagli pratici. "Mastro Adyr mi ha detto che fornirà tutto l'Albero. Mi raccomando, per l'abito scegli un colore che ti doni particolarmente, come il verde o l'azzurro intenso, possibilmente di stoffa morbida e lucida, come la seta. E i sandali dovranno essere dello stesso colore dei nastri per i capelli, che acconcerai..."

"Madre!" la interruppe Veldhris ridendo. "Non dimenticare che ho a mia disposizione sarti, calzolai e acconciatori che conoscono il loro mestiere, o non lavorerebbero al Verde Palazzo!"

Teewa lasciò perdere, sorridendo della propria preoccupazione.

"D'accordo, hai ragione", riconobbe. "Sarà meglio che tu ci vada subito, che ne dici?"

"Era mia intenzione, infatti. Kareth, Kejah, volete accompagnarmi?"

Cicalando eccitate come adolescenti, le tre giovani donne lasciarono il salotto verde e scesero al pianterreno, uscendo dirette a palazzo. Dalla finestra, Teewa le seguì con lo sguardo, improvvisamente malinconica: intuiva che presto Veldhris se ne sarebbe andata di casa per seguire la propria vocazione canora, e questo rendeva la donna alquanto triste. La figlia adottiva aveva un posto speciale nel suo cuore, non perché l'amasse più del figlio naturale Roden, o delle nipoti, ma semplicemente perché erano stati proprio lei e il marito Barod che l'avevano trovata e raccolta nella foresta, dov'era stata abbandonata, sicuramente da non più di alcune ore, quando aveva meno di una anno. Roden, che aveva cinque anni più di Veldhris, l'aveva subito presa sotto la sua protezione e tra i due s'era creato un saldo legame affettivo; qualche anno dopo, alla morte del padre Davon, fratello maggiore di Barod, le due gemelle Kejah e Kareth, già orfane di madre, erano state incluse nella famiglia ed i quattro giovani si erano presto affiatati. Teewa e Barod potevano essere orgogliosi del loro lavoro di genitori.

Forse perché Veldhris era la più giovane, oppure perché era una trovatella, Teewa si era molto attaccata a lei, tanto che, contrariamente all'usanza, non l'aveva incoraggiata a rendersi presto indipendente dalla famiglia per farsi una sua cerchia di amici e corteggiatori, fra cui un giorno scegliere il proprio compagno della vita, come aveva invece fatto con Roden e con le gemelle Kareth e Kejah. D'altro canto, neppure Veldhris aveva mostrato particolare desiderio di staccarsi dai genitori adottivi a favore di amicizie sia pure solo superficiali. C'era sempre stata una singolarità in lei, un qualche cosa che la rendeva impercettibilmente eppure inequivocabilmente diversa da tutti, anche se tale diversità non era evidente a conoscenze poco profonde. Spesso Teewa si era chiesta che cosa fosse questa singolarità e l'unica parola che le balenava alla mente era nobiltà: non quella del sangue, bensì quella del cuore.

OOO

Con baldanza, Veldhris e le gemelle percorsero le vie della città, dirette verso l'Albero Albino, ed il loro allegro chiacchiericcio divertiva la gente affaccendata negli orti o nelle botteghe affacciate sulla strada.

Lanciando saluti ai vari conoscenti che incrociarono, le tre giovani donne giunsero infine ai piedi dell'Albero, il cui ampio portale d'accesso era custodito da un picchetto di guardie d'onore, due uomini e due donne. Veldhris si rivolse alla sentinella più vicina, un giovane dall'aria simpatica. "Buongiorno, sono Veldhris Teewadil. Sono attesa."

"Sì, sono stato avvertito", disse la guardia. "Ho l'incarico di scortarti alla sartoria reale."

Guardò le gemelle con aria interrogativa e Veldhris si affrettò a presentarle. "Le mie cugine Kejah e Kareth Lyaradil. È un problema se vengono con me?"

"Certamente no", la rassicurò il giovanotto. Le fece cenno di passare, cortesemente attese che le sue cugine la seguissero, poi si affrettò ad affiancarsi alla cantante.

"Mi chiamo Arton Corilden", si presentò. "Sono un tuo grande ammiratore. Hai una voce davvero meravigliosa."

"Grazie", rispose lei, lusingata, ma accorgendosi dello sguardo del giovane, fisso sulle sue curve generose, s'irrigidì lievemente: non le piaceva essere oggetto di tanto palese desiderio, anche se non era consuetudine far mistero delle proprie intenzioni, tra gli abitanti del Popolo della Foresta.

"Canterai la Verde Palazzo?" s'informò Arton.

"Sì, alla festa di compleanno del Re."

"Allora spero di essere di servizio nella Sala delle Feste quella sera, così avrò il piacere di ascoltarti."

"Ne sarò onorata", disse Veldhris educatamente, sempre più a disagio sotto lo sguardo ammirato della sentinella.

Accorgendosi dell'imbarazzo della cugina dalla postura insolitamente rigida delle sue spalle, Kejah andò in suo soccorso, insinuandosi tra lei ed il suo ammiratore troppo impertinente. "Sono davvero curiosa di vedere che tipo d'abito indosserai! Hai già in mente qualcosa?"

"Non esattamente..."

Rassegnato, Arton fu costretto a far strada da solo e cominciò a salire la scala che, in lunghe rampe, si avvolgeva attorno al colossale tronco, riparata da una robusta struttura di legno che la proteggeva in caso di pioggia; ad intervalli regolari, nella parete esterna si apriva una finestra che lasciava entrare la luce. Ogni tanto, la salita era interrotta da un pianerottolo, sul quale si apriva una porta che conduceva all'interno, verso le sale d'armi, le cucine, le lavanderie, i laboratori degli artigiani, gli alloggi della servitù e, via via che si saliva, quelli delle ancelle della Regina e dei paggi del Re, le scuole dei figli dei cortigiani, ed infine, proprio sotto il Verde Palazzo, gli appartamenti dei dignitari e dei notabili. La residenza della Famiglia Reale, il Verde Palazzo appunto, si sviluppava su tre immense piattaforme coperte costruite tra le fronde, candidi rami dalle foglie verde cupo.

Giunti al terzo pianerottolo, Arton aprì l'uscio che vi si affacciava e condusse le ospiti lungo un ampio corridoio, privo di finestre ma illuminato a giorno da una miriade di lanterne e lampade ad olio.

Davanti ad una delle tante porte del corridoio, Arton si fermò e si girò verso Veldhris. "Siamo arrivati", annunciò con un lieve inchino di cortesia.

"Grazie per la tua gentilezza", disse lei.

"Dovere, e piacere. Scenderai presto?"

"Non saprei, perché?"

"Vorrei rivederti prima del cambio della guardia, se possibile. Vorresti impegnarti con me, stasera?"

L'invito, espresso secondo la consuetudine, non le giunse inaspettato; Arton la guardava speranzoso, ma anche intimidito, e a Veldhris dispiacque deluderlo, ma poiché non la ispirava, scosse il capo.

"Mi rincresce, ma ho altri programmi", rispose, cercando di usare un tono disinvolto nonostante si trattasse di una bugia.

"Lo immaginavo", Arton sospirò brevemente. "Bella e famosa come sei, non avrai certo tempo da dedicare a una comune guardia come me. È stato un grande piacere, comunque", concluse in tono sincero. Le rivolse un altro inchino per esprimere il suo rispetto e si allontanò in fretta.

Kareth sogghignò. "Quello ti muore dietro, Vel. Perché hai rifiutato? È un bel ragazzo..."

"Non mi ispirava", spiegò Veldhris, facendo spallucce. "Ma se ti piaceva, potevi farti avanti tu."

"Stai scherzando?" rise Kejah. "Non ha degnato di uno sguardo né me, né mia sorella! Eppoi, stasera siamo impegnate con i fratelli Dwyrne e Dwydal."

"Non avete mai una sera libera, voi due, eh?" ridacchiò Veldhris: la girandola di corteggiatori che le due gemelle si baloccavano era notevole.

Ridendo, aprirono la porta e ne oltrepassarono la soglia. Si ritrovarono in un'ampia stanza con una parete ricurva; uomini e donne di età diverse lavoravano in una profusione di stoffe e colori, intenti a cucire, tagliare, provare, correggere, ornare, ricamare, rammendare. Non volendo disturbare quell'attività febbrile, Veldhris e le gemelle attesero che qualcuno si accorgesse di loro. Trascorse solo qualche minuto, poi il Caposarto, un uomo alto e dinoccolato, si avvicinò, rivolgendo loro un lieve inchino di benvenuto.

"Veldhris Teewadil?" domandò, e al suo cenno positivo, proseguì. "Ti aspettavo. Il mio nome è Clader Maarfden. Prego, da questa parte."

Il Caposarto condusse le giovani donne attraverso la sala, superando campionari di stoffe raggruppate per qualità e colore, fino a fermarsi davanti all'esposizione di sete.

"Mastro Adyr mi ha raccomandato di scegliere il meglio per te", spiegò a Veldhris. La osservò con occhio professionale. "Per la tua carnagione ci vogliono colori vivaci e chiari. Anche il bianco può andare..."

Veldhris aveva adocchiato un bellissimo verde, del colore che certe volte assume la luce del sole attraversando le foglie tenere dei giovani alberi in un giorno d'estate.

"Quel verde andrà a meraviglia", decise perciò subito.

Clader si voltò nella direzione da lei indicata ed assentì. "Ottima scelta", approvò. "Jandra, puoi venire a aiutarmi?" chiamò poi.

Una giovane donna bionda si avvicinò; squadrò Veldhris con gelidi occhi azzurri per poi cambiare di colpo espressione nel rivolgersi al Caposarto. "Che cosa desideri che faccia, Mastro Clader?" chiese in tono servile.

Veldhris stentò a non fare una smorfia infastidita.

"Taglia un pezzo di quella seta verde, sufficiente per farne un abito ampio", disse l'uomo in tono sbrigativo, già intento a prendere le misure di Veldhris. "Abbonda senza timore, l'eccesso si può eliminare facilmente e recuperare per altre cose."

Jandra obbedì sollecitamente e Clader drappeggiò la pezza attorno alla cantante, valutandone l'effetto con uno sguardo solo, da autentico esperto.

"Perfetto", decretò infine. "Ho già in mente il modello, spero ti piaccia..."

OOO

Un'ora dopo, Veldhris e le gemelle scendevano le scale che si avvolgevano attorno all'Albero Albino, dirette all'uscita.

"Quella Jandra non mi è piaciuta per niente", dichiarò Kareth.

"Neanche a me", fu d'accordo Kejah. "Hai visto come ti guardava, Veldy? Sembrava volerti sbranare."

Veldhris fece spallucce. "Può darsi che fosse di malumore per un problema suo."

"Oh, tu!" sospirò Kejah con finta esasperazione. "Non riesci mai a pensar male di qualcuno, neanche quand'è evidente che ti odiano..."

La cantante scrollò la testa. "Se quella mi odia, affar suo: starà lei a rodersi il fegato, non certo io!" disse ridendo.

"Sei incorreggibile", sbuffò Kareth, poi sia lei sia la sorella si unirono alla risata della cantante.

Intanto erano giunte al portale d'ingresso ed uscirono all'aria aperta. Non riconobbero le sentinelle, perché evidentemente nel frattempo c'era stato il cambio della guardia, così Veldhris non rivide Arton, il suo ammiratore, e la cosa non le dispiacque.

Riprendendo il discorso appena interrotto, Kareth tornò a rivolgersi a Veldhris. "Vel, ma tu non odi proprio nessuno?"

L'interpellata le lanciò un'occhiata sorpresa. "No. Perché dovrei? Nessuno mi ha mai fatto del male. Eppoi, odiare richiede troppa energia emotiva per essere lo spreco che è."

"Eppure", obiettò Kejah, pensierosa, "anche l'amore, l'opposto dell'odio, richiede molta energia emotiva e a volte va sprecato..."

"Forse è per questo che finora non mi sono mai innamorata!" scherzò Veldhris, ma sapeva che la cugina si stava riferendo ad una sua infelice esperienza di qualche anno prima, quando s'era innamorata di un giovane che però non l'aveva mai ricambiata. La cosa l'aveva fatta soffrire molto, e forse ancora adesso ne era amareggiata. "In realtà hai ragione" riconobbe quindi. "Appunto per il fatto che l'amore va sprecato a volte, non sempre. Quando viene ricambiato, si conclude qualcosa... si può creare un nuovo essere umano, una famiglia, qualcosa di più grande della somma delle parti. L'odio invece resta sterile, fine a se stesso, unilaterale o contraccambiato che sia: non crea nulla, non conclude nulla, salvo la distruzione."

Kareth prese Veldhris sottobraccio. "Un buon tema per una canzone, non trovi? La potresti intitolare Il filosofeggiare di Veldy Teewadil."

Veldhris finse di adombrarsi e di sferrarle un pugno, ma tutte e due scoppiarono a ridere e Kejah, dimenticando la sua momentanea malinconia, le imitò.

Giunsero infine a casa, dove trovarono Roden di ritorno dal lavoro, che svolgeva assieme al padre Barod.

"Ehi, fratellone!" lo salutò allegramente Veldhris.

Il giovane, che era molto più alto anche delle gemelle e assai muscoloso, sollevò la sorella adottiva da terra e la fece volteggiare come se fosse un fuscello. "Complimenti, piccola!" esclamò con voce tonante. "La mamma mi ha detto del tuo ingaggio."

Veldhris rise di contentezza per l'entusiasmo dimostrato dal fratello. Quando la depose a terra, riprese fiato. "Grazie dei complimenti, Roden", disse. "Papà è tornato con te?"

"Sì, si sta lavando, poi vado anch'io."

"E come ha preso la notizia?" s'informò Kareth.

"Scoppia dall'orgoglio, naturalmente", rise Roden. "Ha detto che, con questo, il capo della Gilda dei Boscaioli, quell'antipatico di Stakar, dovrà mangiarsi il cappello."

Veldhris storse la bocca. "Ben gli sta! Così impara a dare giudizi affrettati sulle capacità altrui."

"Sulle tue capacità, dillo pure!" disse maliziosamente Kejah.

La cantante assunse un'espressione di assoluta serietà. "Proprio così!" affermò, prima di mettersi a sogghignare, imitata dagli altri.

OOO

Un'ora dopo, tutti e sei i membri della famiglia erano a tavola per la cena. La conversazione, come ovvio, verté soprattutto sul recentissimo ingaggio di Veldhris. Barod Unkorden, grande e grosso quanto Roden, continuava a lisciarsi i baffi in un suo tipico gesto di soddisfazione, guardando con affetto la figlia adottiva.

"E così", disse ad un certo punto, gli occhi azzurri accesi di una luce d'allegria, "avremo in famiglia una Prima Cantante della Foresta!"

Veldhris gli sorrise. "Oh, padre, manca ancora un mese alla Festa di Fine Estate!" protestò, ripetendo inconsciamente le parole della cugina Kejah.

"Non ha nessunissima importanza", asserì Barod, convinto. "Tanto, il titolo è praticamente già tuo, e sarà tuo per tutto il tempo che vorrai, perché sei nata per cantare."

L'uomo, dotato di una rara sensibilità artistica, tanto più sorprendente in lui data la corporatura ed il lavoro tutt'altro che artistico, era stato il primo a rendersi conto dello straordinario talento vocale della figlia e l'aveva sempre sostenuta ed incoraggiata; logico quindi che ora fosse il più orgoglioso del successo di Veldhris, ed il più sicuro della sua definitiva affermazione.

"Su questo non ci piove", fu d'accordo Roden, parlando con entusiasmo. "Nessuno può reggere il confronto con Veldy."

Un ciuffo dei suoi lunghi capelli biondi, ancora umidi dopo il bagno, gli ricadde sull'ampia fronte e lui lo rimise a posto con un gesto impaziente.

"Dovresti tagliarti i capelli", osservò Teewa, in tono di rimprovero.

Roden scosse la testa. "Neanche per idea!" esclamò. "Tutti gli eroi antichi avevano una lunga chioma fluente..."

La sua uscita fece sorridere tutti: era ben noto che fosse un appassionato delle leggende e dei miti che riguardavano il mondo antico, ed in effetti la sua erudizione in materia era ragguardevole, forse addirittura pari a quella dei membri della Famiglia Reale che, più di chiunque altro nel Regno della Foresta, conosceva le storie del passato.

"Significa che hai intenzione di emulare le gesta di questi fantomatici eroi?" chiese Veldhris, non senza una punta di condiscendenza.

"Non sono fantomatici!" protestò Roden vivacemente. "Va bene, forse le leggende esagerano le loro imprese, ma una base di realtà c'è sicuramente."

"A sentirti", osservò Kareth, "si direbbe che mille anni fa ci sia veramente stato uno scontro tra la Luce e l'Oscurità... ma mi spighi come fanno due cose immateriali a combattere?"

Roden rimase con la forchetta a mezz'aria, la mente alle prese con la sfida lanciatagli dalla cugina. "Beh", cominciò, il volto atteggiato ad un'espressione di profonda concentrazione. "Se si prende la cosa alla lettera, appare chiaramente impossibile, ma... Prova a pensare se per Luce e Oscurità si intendessero due persone, due persone molto, molto potenti, con fini opposti, una tesa al Bene, alla pace, alla prosperità, l'altra al Male, alla rovina, alla distruzione. Metaforicamente, il concetto si potrebbe riassumere appunto con le parole Luce e Oscurità."

Il giovane fissò Kareth come ad invitarla controbattere.

La cacciatrice scrollò la chioma rosso-dorata. "Va bene, vista così la storia può anche reggere. Se non vado errata, però, fu l'Oscurità a vincere, no?"

"Sì, esatto."

"Ecco, se avesse davvero vinto l'Oscurità, vale a dire, secondo la tua interpretazione, il Male, la rovina e la distruzione, come facciamo noi qui a vivere in pace e prosperità?"

Roden rimase in silenzio e strinse le labbra in una smorfia corrucciata: la cugina lo aveva lasciato senza argomenti.

Inaspettatamente, in suo soccorso giunse Veldhris. "Kareth, sei mai uscita dalla Foresta del Vespro?"

La cugina lo guardò sorpresa. "No, naturalmente. Al di là ci sono le Maleterre. Oltre i confini della Foresta, si muore."

"Già, così si dice. Ma quanto tempo è passato da quando qualcuno ha tentato di lasciare il regno?"

Kejah, che finora non aveva parlato, intervenne. "A memoria d'uomo, nessuno ha mai tentato l'impresa, un deserto implacabile circonda la Foresta da ogni lato..."

"Questo non è esatto", puntualizzò Roden, interrompendola. "All'estremo sud, secondo le mappe più antiche, il regno termina su di un'altissima scogliera a picco sul mare."

Teewa sbatté gli occhi, perplessa. "Il... mare? Che cos'è?"

Il giovane si strinse nelle spalle. "Non lo so con precisione. Dev'essere un'enorme distesa d'acqua di cui non si scorgono i confini. Qualcosa come un lago, ma molto più esteso."

Veldhris chiuse gli occhi e si concentrò, ma riuscì a raffigurarsi solo vagamente il paesaggio descritto dal fratello adottivo.

"Dev'essere una visione grandiosa", commentò, riaprendo gli occhi. "Vorrei tanto vedere questo mare, un giorno!" rimase ancora qualche istante immersa nella sua fantasticheria, poi si riscosse bruscamente. "Tornando alla mia domanda iniziale, Kareth", disse, "a quanto pare, nessuno è mai uscito dalla Foresta, o se l'ha fatto, non è tornato indietro per raccontarlo, ammesso che sia sopravvissuto. Questo significa che non sappiamo nulla di ciò che accade, o è accaduto, oltre le Maleterre. Forse nel resto del mondo, che secondo me è assai vasto nonostante quello che ci insegnano a scuola, regna effettivamente un'Oscurità tanto orribile che non riusciremmo neanche a immaginarla."

"Non giudicare ciò che non conosci", sentenziò Teewa, guardando Veldhris con intenzione.

Barod se n'accorse. "La frase può esser valida in entrambi i sensi, moglie", rilevò. "Può darsi che Veldy abbia ragione, o che ce l'abbia Kareth: non abbiamo prove a favore né dell'una, né dell'altra... Ma che ne dite di mangiare il dolce?"

Scoppiarono tutti a ridere alla vista della sua espressione golosa, dissipando l'atmosfera di vaga tensione che la dissertazione sui miti antichi aveva provocato. Veldhris, che con la sua sensibilità di artista l'aveva percepita più chiaramente degli altri, se ne chiese confusamente la ragione.

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L'intera città di Tamya si preparava ai festeggiamenti, che sarebbero incominciati fin dal primo mattino per culminare, la sera, in un banchetto pubblico nella piazza principale, di fronte all'Albero Albino. La Famiglia Reale avrebbe inoltre tenuto un simposio al Verde Palazzo cui sarebbero intervenuti tutti i cortigiani, i dignitari civili e militari ed i rappresentanti dei villaggi più importanti del Regno.

Man mano che il giorno s'avvicinava, Veldhris sentiva crescere in sé la tensione nervosa. Non era la prima volta che cantava al cospetto dei Signori della Foresta, ma cantare per loro era un'altra cosa, molto più impegnativa.

"Sono così nervosa che masticherei un sasso!" esclamò un giorno.

Teewa, che era occupata con un ricamo piuttosto complicato commissionatole da una cliente, alzò gli occhi sulla figlia. "Ti rovineresti qualche dente", rilevò in tono scherzoso. "Perché non provi invece a masticare una o due foglie di valeriana? Kejah ne ha raccolte un po' ieri, mentre andava a caccia."

Kejah, come Kareth, apparteneva da quasi otto anni alla Gilda dei Cacciatori; l'abilità delle gemelle nel maneggiare l'arco era diventata quasi proverbiale, dato che, ora l'una ora l'altra, oppure entrambe assieme, negli ultimi cinque anni avevano vinto praticamente tutte le gare di tiro che si erano tenute nel Regno del Vespro.

"È un'ottima idea", approvò Veldhris con un sospiro. "Se non mi calmo, finisco per scoppiare!"

Un ulteriore motivo di nervosismo per la giovane donna era il fatto che la ballata che aveva deciso di comporre in onore di Re Samon non le veniva esattamente come voleva. Samon, divenuto Re grazie al matrimonio con Juvia, allora erede al trono, era un uomo tranquillo, senza particolari talenti sportivi o militari; aveva però sempre svolto con coscienza ed attenzione i propri doveri di regnante e magistrato, giudicando equamente i casi che gli venivano presentati e meritandosi l'appellativo di Giusto. Veldhris, la cui accesa fantasia amava esaltare le grandi imprese, si trovava quindi un po' in difficoltà a tessere le lodi di un uomo tanto quieto.

"Ma anche amministrare la giustizia in modo imparziale è una grande impresa", pensò più tardi, nel suo studio al quarto piano. "Forse la più difficile di tutte..."

Con improvvisa ispirazione, scrisse di getto l'intera ballata.

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Finalmente giunse il giorno tanto atteso, il tredicesimo di agosto. Tutte le case-albero erano addobbate con ghirlande di fiori: il rosa carico degli anemoni, il paglierino dei gelsomini, il crema delle altee, il pervinca dei glicini, l'azzurro delle speronelle, il rosso delle rose selvatiche si mescolavano in una sarabanda di colori che vivacizzava la città, dandole a colpo d'occhio un aspetto gaio; festoni e coccarde dalle tinte che gareggiavano con quelle dei fiori decoravano le strade, dove ad ogni angolo erano stati eretti chioschi di bibite distribuite gratuitamente fin dalle prime ore del giorno.

A metà mattinata, i cittadini si radunarono nella piazza principale, dove a sera si sarebbe tenuto il banchetto pubblico, per assistere alle gare di abilità. Erano previste competizioni di tiro con l'arco e con la balestra, duelli con la spada, la mazza e l'alabarda, gare di lotta ed esibizioni di danze e di esercizi ginnici.

Veldhris, seduta sugli spalti di legno appositamente allestiti, guardò tutto il torneo in compagnia della famiglia, cercando di rilassarsi e di dimenticare l'esibizione che l'attendeva quella sera.

Kareth e Kejah, come c'era da aspettarsi, giunsero in finale alla gara di tiro con l'arco, che fu vinta da Kejah per un solo punto di vantaggio sulla gemella. Il torneo di spada venne invece vinto da Sekor, figlio cadetto della Coppia Regnante, mentre nei duelli con l'alabarda eccelse su tutti Mikor, l'erede al trono. Roden, che per statura e corporatura avrebbe potuto benissimo vincere la gara di lotta, non vi prese parte perché odiava la competizione.

Infine, quando il sole fu al tramonto, Veldhris lasciò la famiglia e si allontanò dalla folla chiassosa per recarsi all'Albero Albino e prepararsi all'esibizione. Il Caposarto, Clader Maarfden, le consegnò personalmente l'abito, ed alcune ancelle della Regina l'aiutarono a vestirsi e ad acconciarsi. La tensione di Veldhris crebbe in proporzione al tempo che passava, fino a raggiungere il culmine poco prima di entrare nella Sala delle Feste, al primo piano del Verde Palazzo.

I convitati erano già tutti presenti ed avevano appena iniziato a pasteggiare, quando Munia Foryadil, la Gran Ciambellana di Corte, richiamò l'attenzione di tutti facendo rintoccare un piccolo gong d'argento.

"Maestà Reali, Altezze Reali, nobili signore e signori", esordì. "Per onorare e festeggiare il compleanno del nostro Re, Samon Akorden il Giusto, è stata chiamata la cantante che più di ogni altra sta suscitando l'ammirazione degli ascoltatori, una cantante che sa evocare con la sua voce immagini vividissime ed emozioni profonde... Ecco a voi Veldhris Teewadil!"

Sentendo declamare il proprio nome, Veldhris entrò nella sala ed avanzò titubante verso il centro. I tavoli erano stati disposti a ferro di cavallo lungo il perimetro della vasta stanza, cosicché i convitati potessero agevolmente godere dello spettacolo, semplicemente alzando gli occhi dal piatto. Miriadi di lanterne dai vetri colorati ardevano sospese al soffitto, illuminando la scena con le loro luci tenuamente tinte.

La comparsa di Veldhris Teewadil venne accolta con un applauso scrosciante, incoraggiato dallo stesso Re, che rivolse alla moglie un sorriso grato.

Veldhris si inchinò profondamente, emozionatissima e tremante.

Accanto a Samon, sulla destra, sedeva Sekor, che fissò incantato la figura che era apparsa ai suoi occhi, avvolta in una veste morbidamente drappeggiata, il cui bellissimo tono di verde faceva risaltare l'incarnato ambrato dal sole.

"Che visione di sogno!" commentò a bassa voce, rapito.

Il padre lo udì e si volse verso di lui. "Sono completamente d'accordo con te, figliolo", disse in tono complice. "È senz'altro la donna più affascinante della festa. Eccettuata tua madre, naturalmente", aggiunse sorridendo. Era ben risaputo quanto fosse innamorato della moglie.

Mikor invece, seduto alla sinistra della madre, ignorò l'entrata della famosa cantante e bevve un sorso di vino dalla sua coppa, soffermando lo sguardo su di lei soltanto per un breve istante, a malapena incuriosito.

Veldhris, intanto, aveva preso lo yord dalle mani di un paggio e lo aveva posizionato sul petto. L'agitazione che l'aveva finora pervasa era scomparsa di botto, ora che si era concentrata sul canto: senza incertezze, attaccò la ballata che aveva composto per Re Samon in Giusto.

...alta bontà muove il suo cuore

Pensier d'arbitrio ingiusto non lo tocca

Della Foresta il Signore

La fama corre di bocca in bocca...

Fu un trionfo. La canzone piacque immensamente al festeggiato ed anche alla Regina Juvia, che volle invitare Veldhris a sedersi tra lei e il marito, un onore che si accordava raramente persino ai più alti dignitari. Confusa, la giovane si inchinò più volte, rischiando di rovesciare il vassoio che un servitore le stava porgendo e suscitando la benevola ilarità del Re.

"Hai una voce straordinaria, Teewadil", commendò poi Samon. "Ti ringrazio per la canzone che hai voluto comporre per me, è bellissima."

Veldhris si sentì arrossire di piacere per quel complimento. "Sire, siete troppo buono. Se permettete, il soggetto era fonte di ottima ispirazione."

Samon la guardò sorpreso. "Significa che non hai trovato difficile descrivere una vita priva di gloria come la mia?"

"Sei troppo modesto, marito mio", intervenne Juvia. "La tua gloria sta nell'equanimità che hai sempre dimostrato, come giustamente ha rilevato Teewadil."

"Avete ragione, Maestà", confermò Veldhris, iniziando a sentirsi più rilassata. "Mi è bastato entrare nel giusto ordine d'idee e la ballata è venuta da sé."

"Padre, perché non mi presenti questa incantevole creatura?" si lamentò una voce.

Veldhris distolse gli occhi dalla Regina – una donna bellissima – per fissarli su di un giovane che le assomigliava molto, dai luminosi occhi azzurri e dai capelli biondi più o meno dell'età di Roden.

Samon rise. "Quanta impazienza, figliolo! Devo dedurre che i grandi occhi verdi dell'incantevole creatura hanno fatto una vittima?"

"Deduzione esatta, padre", confermò il principe, annuendo con enfasi. Veldhris si sentì leggermente in imbarazzo, ma non distolse lo sguardo.

"Bene, allora questa è Veldhris Teewadil; Teewadil, mio figlio Sekor", li presentò il Re, senza tante formalità.

La giovane donna fece per alzarsi e fare una riverenza al principe, come prescritto dall'etichetta, ma Sekor glielo impedì ed anzi accennò egli stesso ad un inchino da seduto.

"Hai una voce straordinaria..." cominciò, ma Samon lo interruppe. "Questo l'ho già detto io", disse, divertito. "Trova un altro complimento."

Il principe sospirò con fare esageratamente rassegnato. "Purtroppo mio padre ha la pessima abitudine di rubarmi le frasi migliori..."

Superato l'iniziale imbarazzo per l'aperta ammirazione del principe cadetto, Veldhris si ritrovò a ridere della sua facezia. "Non importa, Altezza, siete comunque assai gentile."

La serata continuò allegramente e le portate non si contarono: beccacce, fagiani, pernici, tordi, cervo, capriolo, beccafichi, cinghiale, tutti con fantasiosi contorni di verdura, frutta cotta, creme, salse e pani farciti, il tutto innaffiato da abbondante vino rosso e bianco. Veldhris cantò ancora svariate canzoni, anche su richiesta di alcuni ospiti, e venne sempre applaudita con entusiasmo. L'atmosfera si fece via via più eccitata, gli animi – irrorati dal buon vino – si accesero, le conversazioni divennero più maliziose e già alcune coppie si erano allontanate. Veldhris ricevette dei lusinghieri inviti, ma non ne accettò nessuno, rifiutando ogni volta con cortese fermezza.

L'ultima ballata che cantò, un inno all'amore, suscitò un autentico delirio nel pubblico ormai sovreccitato, che l'accolse con battimani ed esclamazioni infervorate.

Era molto tardi quando Veldhris chiese ai Signori della Foresta il permesso di ritirarsi, che le fu concesso subito dato che, a quel punto, la festa poteva anche continuare da sola. Juvia le assegnò una guardia di scorta affinché l'accompagnasse a casa, non tanto per protezione quanto per affermare il favore di cui godeva a corte.

La guardia attendeva Veldhris presso una porta secondaria, da dove sarebbero usciti per evitare la folla che ancora gremiva la piazza davanti alla residenza reale.

"Buonasera, Veldhris Teewadil", la salutò.

Veldhris lo guardò sorpresa e, alla luce della lanterna che la guardia teneva in mano, riconobbe chi l'aveva apostrofata.

"Arton!" esclamò. "Sono lieta di rivederti", aggiunse educatamente.

Il giovane le fece un mezzo sorriso. "Mai quanto me..."

Dalla voce impastata e dall'espressione accesa, Veldhris comprese che Arton si era lasciato coinvolgere dai festeggiamenti e, pur essendo in servizio, aveva bevuto. La cosa la inquietò, ma erano soli in quel corridoio e non c'era nessun altro a cui poteva chiedere di accompagnarla. Facendo buon viso a cattivo gioco, Veldhris seguì Arton che le faceva cenno di uscire e insieme si avviarono per strade secondarie, diretti all'abitazione di Barod Unkorden.

Per un po', con sollievo della cantante, procedettero in silenzio, poi Arton si girò a guardarla. "Ti ho sentito cantare anche stasera", le rivelò. "Hai proprio la voce di un usignolo."

"Grazie", mormorò lei, per pura cortesia. Gli ubriachi non le piacevano, la mettevano a disagio; eppure, Arton le era sembrato un uomo corretto, anche perché soltanto persone irreprensibili potevano entrare a far parte della Guardia Reale...

All'improvviso, Arton si fermò, bloccandole la strada. "In una notte di festa come questa, non vorrai restare da sola, no?"

La luce di bramosia che ardeva nei suoi occhi le fece correre un brivido gelido lungo la spina dorsale. "Veramente sono molto stanca..." tentò.

"Andiamo, non ci vuole molto... Una cosa veloce. Casa mia è poco lontana", disse Arton, afferrandole il braccio. Le sue intenzioni erano chiarissime, ma più che spaventata, Veldhris si sentì arrabbiata.

"Toglimi le mani di dosso, Arton!" sibilò, divincolandosi.

Arton non la mollò e anzi strinse più forte, impedendole di allontanarsi.

"Se preferisci, possiamo farlo contro quel muro", le disse. "Per me fa lo stesso."

Veldhris cominciò a provar paura: la viuzza era deserta, le finestre delle case tutte buie perché evidentemente tutti gli abitanti erano a festeggiare in giro per la città oppure nella piazza principale e Arton era molto più forte di lei, che oltretutto – a differenza delle cugine cacciatrici – non aveva alcun addestramento alla lotta.

"Arton... perché ce l'hai con me?" chiese con voce tremante.

"Ma che dici, non ce l'ho con te", borbottò il giovane. "Voglio solo che ci divertiamo un po'. Dai, non farti pregare..."

"Sei un bel ragazzo, fai parte della Guardia Reale..." Veldhris cercò di distoglierlo da sé. "Puoi avere tutte le donne che vuoi..."

"Ma io voglio solo te!" scattò lui. "Basta parlare, ti porto a casa mia!" cominciò a trascinarla verso uno stretto vicolo tra due file di case. "Ti prometto che sarà la notte più bella della tua vita..."

Per qualche istante, Veldhris fu sopraffatta dal terrore e non reagì, poi fu invasa dalla collera. "Lasciami andare!" ringhiò. "Altrimenti mio fratello ti ucciderà!" notando che Arton ignorava la minaccia, la giovane donna alzò il tono della voce. "Arton, lasciami libera, subito! Se non lo farai, ti denuncerò!"

"Sta' zitta!" la interruppe Arton, fermandosi bruscamente. Posò a terra la lanterna ed estrasse un pugnale dalla cintura; glielo puntò ad un fianco e Veldhris ammutolì, terrificata. "Vedo che sai essere ragionevole", brontolò il giovane. "Prendi la lanterna", le ordinò poi.

Non avendo altra scelta, Veldhris fece come le aveva detto e tenne il lume mentre lui riprendeva a trascinarla lungo la viuzza, il pugnale sempre puntato contro il suo fianco.

Dopo qualche altra decina di metri, Arton aprì il cancelletto di un giardino e la tirò dentro. La scarsa luce lunare, filtrando attraverso il fogliame dell'albero-casa che sorgeva nel giardino, illuminava fiocamente un prato ben rasato, abbellito da alcune aiuole piene di fiori, che circondava un'abitazione altrettanto ben tenuta. Non sembrava decisamente la dimora di un criminale.

"Ti piace la mia casa?" ridacchiò Arton. Veldhris, gli occhi dilatati dalla paura, fissò l'albero senza vederlo. Non ricevendo risposta, il giovane alzò le spalle e la sospinse verso l'ingresso; una volta entrati, la spinse su per una scala, fino a raggiungere la camera da letto. Il pugnale, incontrando un casuale raggio di luna che penetrava dalla finestra aperta, brillò sinistramente nella sua mano, sempre al fianco della giovane donna per dissuaderla dalla fuga. Dissuasione tutt'altro che necessaria, poiché Veldhris era ormai così terrorizzata da non riuscire nemmeno più a connettere chiaramente.

"Mettila lì", le ordinò Arton, indicando un tavolino accanto alla porta, e Veldhris obbedì, posandovi la lanterna.

Arton chiuse la porta con un calcio, poi girò la chiave. Spintonò Veldhris verso il letto e ve la gettò, poi si buttò sopra di lei. Il brusco movimento, scoordinato dallo stato di ubriachezza, gli fece sfuggire di mano il pugnale, che cadde a terra con un clangore metallico. Arton imprecò, ma non pensò a recuperare l'arma: Veldhris, inchiodata sotto di lui e irrigidita dalla paura, non si muoveva neppure.

Borbottando frasi inintelligibili, Arton tentò di strapparle il vestito di dosso, ma la seta, per quanto sottile, era resistente e gli scivolava di mano, così rinunciò e le sollevò la gonna, brancicandovi sotto alla cieca.

Il tocco di quelle mani profanatrici risvegliò Veldhris dal suo letargo; con un guizzo improvviso, si contorse bruscamente e spinse via Arton, poi tentò di alzarsi e di fuggire, ma la guardia la bloccò afferrandola per i capelli e tirandola nuovamente sul materasso. Lei mandò un grido; con il coraggio della disperazione, gli si rivoltò contro come una gatta infuriata, mordendo e scalciando e graffiando, finché lui non fu costretto a mollare la presa. Veldhris ne approfittò per balzare in piedi e slanciarsi verso la porta. Arton la inseguì, ma inciampò e cadde; rotolando sul pavimento trovò il pugnale, lo agguantò e lo lanciò alla cieca nella direzione della fuggitiva. La lama si conficcò nella parete di legno a pochi centimetri dalla testa di Veldhris, che s'immobilizzò, senza fiato, e si girò di scatto. Arton si stava faticosamente rialzando, così Veldhris si avventò verso la porta e tentò di aprirla, ma con orrore vide che la chiave mancava. Udendo l'uomo ridere piano, tornò a girarsi e lo vide mostrarle soddisfatto l'oggetto di metallo.

"Perché vuoi scappare, bellezza?" biascicò. "Dai, sarà uno spasso rotolarci insieme su questo letto..."

Gettò la chiave nell'angolo più lontano della stanza e prese ad avanzare verso Veldhris, che si appiattì contro la porta. Con occhi colmi d'angoscia, simili a quelli di un animale braccato, la giovane donna cercò un'inesistente via di fuga. Lo sguardo le cadde sul pugnale, ancora piantato nella parete. Con un balzo, lo raggiunse e lo divelse con forza insospettata. Prima di rendersi pienamente conto di quel che stava facendo, lo puntò contro Arton.

"Non avvicinarti!" urlò. "Non avvicinarti o ti uccido!"

Tuttavia, la sua voce era troppo stridula per risultare minacciosa, e Arton ridacchiò, per niente intimidito. "Non potresti farlo, non ne avresti il coraggio."

"Che ne dici di scoprirlo a tue spese?!" lo sfidò Veldhris, trovando in sé uno spirito combattivo che non credeva di possedere.

Di colpo, Arton si fece più guardingo. "Andiamo, andiamo..." mormorò in tono suadente, cambiando tattica. "Proprio tu che canti così bene dell'amore... So che ti piace... Sono molto bravo, sai?"

"Ma davvero?" lo sbeffeggiò lei.

Fu un errore: Arton s'infuriò nel sentir irrisa le proprie capacità amatoriali, perse la testa e le si gettò contro. Come in un lampo, le piombò addosso a corpo morto, facendola cadere con il suo peso. Veldhris urlò e lottò come una furia, ma le bastò pochissimo per liberarsi dal suo aggressore, che si afflosciò sul pavimento come un sacco vuoto. Con un brivido di raccapriccio, Veldhris scoprì la ragione di quello strano comportamento: il pugnale gli si era conficcato in una spalla, poco sopra al cuore. Lei non aveva fatto alcuna mossa: era stato Arton stesso a buttarsi sulla punta del coltello, che lei stava tenendo convulsamente stretto in pugno.

Raggelata, Veldhris fissò il rivolo di sangue che usciva dalla ferita, sporcando la camicia e il giaco di cuoio dell'uomo. Anche Arton stava fissando il manico del pugnale che sporgeva dal proprio corpo, poi guardò Veldhris e nei suoi occhi, la giovane donna scorse incredulità, dolore e anche qualcos'altro: orrore.

"Che cosa... che cosa ho fatto...?" mormorò il giovane ad un volume quasi inaudibile ma chiaro, senza traccia di ebbrezza. "Devo essere impazzito..."

Perse i sensi. Dopo qualche momento, dominando l'impulso alla fuga, la cantante allungò esitante una mano verso il collo di Arton e con sollievo sentì il polso: il cuore batteva ancora. Tuttavia, se non si sbrigava a chiamar aiuto, avrebbe continuato a battere ancora per poco...

Barcollando, Veldhris si rialzò, andò a prendere la chiave, aprì la porta, afferrò la lanterna e discese le scale in una sorta di assenza mentale che le impedì di farsi prendere dal panico. Nell'entrata, trovò appeso un grande mantello nero, facente parte dell'altra uniforme delle guardie di palazzo, e vi si avvolse, celando il viso nelle ampie falde del cappuccio e nascondendo le chiazze di sangue sul proprio abito. Poi, abbandonando la lanterna nell'ingresso, corse in strada e si precipitò nella direzione da cui era venuta, trascinata da Arton. Raggiunta la strada maestra, rallentò l'andatura per non attirare troppo l'attenzione – già il fatto che in quella notte calda indossasse un mantello, per di più col cappuccio tirato su, le dava un aspetto equivoco – poi si diresse verso l'Albero Albino, ancora relativamente vicino; una volta raggiuntolo, cercò il picchetto delle guardie d'onore e, trovatolo, fece cenno all'ufficiale comandante di avvicinarsi. La donna – una tenente, a giudicare dai gradi sulle spalline – lo fece con cautela, il volto che esprimeva chiaramente la sua perplessità.

"Ho sentito dei rumori di lotta nella casa di un vostro compagno", Veldhris bisbigliò, alterando abilmente la voce. "Mi pare si chiami Arton. Credo sia ferito. L'aggressore è fuggito, non ho fatto in tempo a vederlo."

"Ma tu chi sei?" domandò la tenente, sorpresa e accigliata, ma Veldhris se l'era già data a gambe ed era sparita in un vicolo buio, il mantello nero che la celava alla vista.

"Che succede, tenente?" domandò un'altra guardia, avvicinandosi. La donna ponderò brevemente le proprie scelte: cercar di inseguire la sconosciuta, oppure mandare soccorsi. La donna misteriosa non le era sembrata minacciosa, così decise senz'altro per la seconda opzione.

"Uno strano messaggio, soldato", disse quindi, scrollando la testa. "Hanno denunciato un'aggressione: sarà meglio andare a controllare. Metti insieme un drappello e mandalo a casa di Arton Flàsterden."

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Veldhris correva a perdifiato verso la sicurezza della propria casa, scegliendo strade immerse nell'oscurità ed evitando la via principale, illuminata da torce e lampioni. Le strade secondarie erano deserte, essendo praticamente tutti ancora in piazza a festeggiare.

Cos'avrebbe fatto, adesso? Cos'avrebbe raccontato ai famigliari, quando l'avrebbero vista arrivare in quelle condizioni, scarmigliata e col vestito insanguinato? Forse, pensò speranzosa, non erano ancora tornati... Ma anche così, lei non sarebbe riuscita a nascondere loro che le era accaduto qualcosa di brutto: non era capace di mentire.

Stava ancora ragionando sul da farsi quando giunse davanti alla propria casa. La lama di luce che filtrava tra le tende accostate di una finestra le disse che qualcuno era già rientrato, e nonostante i suoi dubbi si sentì sollevata.

Entrò come un turbine, spalancando rumorosamente la porta e richiudendola sulla notte quasi ad impedire al male ed al pericolo di penetrare nella sua dimora e nella sua vita. Ansante, si appoggiò allo stipite e chiuse gli occhi; una stilla di sudore le corse lungo la schiena, facendola rabbrividire.

"Chi è là?" udì dall'alto un'imperiosa voce maschile. Veldhris riaprì gli occhi e, incapace di parlare, si limitò buttare a terra il mantello ed a fissare il suo interlocutore, che era apparso in cima alla rampa di scale che portava al primo piano.

"Ma... sei tu, Veldy?" chiese l'uomo, perplesso.

Lei deglutì, bagnando la gola arida, e finalmente ritrovò la voce. "Sì, padre... sono io."

In pochi balzi, Barod Unkorden scese le scale e corse accanto alla figlia. "Cos'è successo? Sei in uno stato spaventoso! Chi è stato? Come ti senti adesso?"

Le ansiose domande del padre si accavallavano l'una sull'altra. Veldhris cercò rifugio tra quelle forti braccia che la difendevano dalla cattiveria del mondo e scoppiò in lacrime.

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