-II-
21 gennaio, 19**
Lettera al passato n.2
(Non si arrabbi dottoressa, ma credo che così sia meglio, invece di caro diario)
Ho riaperto questo quaderno a righe dopo due giorni dalla prima volta. In realtà, in questi due giorni ho pensato a lungo se continuare oppure no.
Sto scrivendo, quindi si. Ho deciso di continuare.
Non voglio pensare al presente, e fortunatamente qui ci si riesce benissimo.
A volte, in giardino, mi sento come in un universo parallelo, senza alcun contatto con il mondo nel quale ho vissuto finora.
Le mura dell'Istituto sono alte come quelle di un castello, ma non mi sento soffocare.
Anzi, sento che ad ogni boccata d'aria la vita si infonde dentro di me, dentro questo corpo fatto di carne e sangue che mai ho percepito così attaccato alla mia anima.
Appena posso corro fuori, a piedi nudi, e salto nelle pozzanghere dopo un temporale o affondo le dita nell'erba che cresce sotto la neve. Qui fa freddo, come in tutto lo Stato.
A casa il freddo era decisamente peggiore, preoccupazione principale durante i mesi invernali.
Non avevamo abbastanza soldi per il riscaldamento, così mia madre ci faceva indossare cinque o sei maglioni di lana, talmente tanti da farci apparire molto più grosse di quello che eravamo in realtà.
Questa precauzione la prendemmo dopo che mia sorella, a cinque anni, dovette essere portata in ospedale per un principio di assideramento.
I medici guardarono mia madre sconcertati, e qualcuno le avvicinò addirittura qualche banconota. Lei, in generale assolutamente indignata dalla carità altrui, accettò di tutto cuore quei soldi e ci comprò dei cappotti di seconda mano da robivecchi per venti dollari l'uno.
Qui, invece, ho un rapporto del tutto diverso con il freddo.
All'Istituto fa caldo, perché abbiamo il riscaldamento a tutte le ore, e tutto questo caldo torna a farmi apprezzare il freddo. Non c'è niente come il brivido gelato che pizzica la punta del naso, la mattina appena svegli.
Ti schiarisce le idee meglio di molte altre cose.
Comunque, sto perdendo il filo.
Dovrei continuare a scrivere qualcosa del mio passato, qualcosa che valga la pena di annotare in questo quaderno.
Avevo terminato la lettera precedente scrivendo che andavo a leggere, e forse dovrei spenderci qualche parola, su questo affare del leggere.
A sei anni, come tutti credo, iniziai la scuola.
Le elementari le frequentai alla scuola di Bellerby Road, nonostante la George Washington Elementary School fosse più vicina a casa. La mamma scelse l'altra scuola perché Rowena e Justin, gli altri figli di mio padre, frequentavano la Washington, e lei non voleva che io li conoscessi. In un certo senso, capisco anche quello.
Soprattutto perché io non sapevo che il loro papà era anche il mio.
Come ho detto, lo scoprii dopo.
Comunque, ho fatto le elementari alla scuola di Bellerby Road, ed era una scuola veramente fetente; dappertutto cicche di sigarette e siringhe sporche, quelle lasciate dai tossici la notte e che i bidelli non osavano ripulire.
Giocavamo in un parco con la sabbia, sul vecchio scivolo di lamiera e gli attrezzi da arrampicata, rotti, in cui ci si beccava sempre qualche livido.
Quello era l'unico posto in cui andare durante la ricreazione, ma non credo di aver mai amato quel posto, soprattutto perché nessuno si avvicinava a me.
Era un fatto reciproco, però.
Nemmeno io amavo gli altri bambini, e da sola stavo piuttosto bene.
Solo, era noioso. Parecchio noioso. Credo proprio che fu quella la molla che fece scattare l'affare della lettura.
Iniziai a portarmi dietro i libri della biblioteca scolastica, quelli con la copertina staccata e i fili di colla secca pendenti. La Bellerby non ha mai avuto molti soldi, e ancora adesso credo sia così. I bambini che ci vanno sono già segnati, già rassegnati ad una vita miserabile a sei anni.
Comunque, nel giro di pochissimo lessi tutti quei libri e rimasi di nuovo senza niente da fare.
Così, iniziai a chiederne in giro.
Alle maestre, agli altri bambini, al bidello.
E chi poteva me ne portava, e io tornavo a casa con la borsa stracolma di volumi, talmente tanti da far scucire le bretelle.
Appena li finivo, li restituivo ai proprietari, oppure loro me li regalavano, felici di essersi liberati di quella spazzatura.
Mia madre si lamentava di quella mia nuova passione, dicendo che non potevo distrarmi con quelle sciocchezze mentre lei andava a lavorare, che dovevo badare a mia sorella.
Lei, d'altra parte, si distraeva con le bottiglie di vino scadente, comprato al supermarket per un dollaro e novantacinque. Quando le feci notare questo fatto, beccai una sberla talmente forte da farmi sanguinare il labbro.
All'anulare di mia madre c'era un anello di fidanzamento, forse un vecchio regalo di mio padre, ed era a causa sua che mi uscì il sangue.
Dell'anello, voglio dire.
Sto divagando come al solito, ma il punto è chiaro: leggere non è il problema, non è la causa di ciò che mi è successo.
Ma comunque lo ha ispirato.
Non so... forse tutte quelle storie mi hanno fuso il cervello ed è per questo che ora sono qui, in questa casa di pazzi.
Tra parentesi, questo è veramente un posto figo.
A parte le sedute con la dottoressa, ho un sacco di tempo libero e faccio quello che voglio.
Tranne uscire.
Quello è il divieto numero uno.
La maggior parte del tempo lo passo a gironzolare fra i pazienti, e a qualcuno chiedo anche perché è finito lì dentro. La maggior parte non capisce nemmeno dove si trova, per cui non è proprio divertente. Altri raccontano un mucchio di balle di come fossero fantastici fuori, vere e proprie storie immaginate al quale credono sul serio.
Dovrei scriverci un libro, con tutte queste storie.
Dovrei proprio.
Ore sette e mezza, cena.
Devo scappare, o finisce il pudding.

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