-I-
Nasciamo tutti pazzi.
Alcuni lo rimangono
Samuel Beckett, Aspettando Godot
18 gennaio, 19**
Caro diario dovrei scriverlo?
Non è decisamente uno di quei diari che una persona scrive quando vuole ricordare qualcosa.
No, non lo è affatto.
È un diario per ricordare agli altri, a tutti quelli che vogliono sapere tutta la mia vita, che vogliono giudicare quanto io sia pazza.
Lo so bene, che mi credono pazza.
E forse lo sono, in fin dei conti. Non è importante, non lo è più.
Se non fosse per quello che dice la dottoressa, non lo scriverei nemmeno, questo diario. Ma è pur sempre una distrazione, per questo ho deciso di scriverlo. Qui al Mary Jane Losborgh le giornate non passano mai, si stiracchiano come gatti al sole e non ti resta altro da fare che accettarlo.
Accettare tutte queste ore da riempire, nonostante senta già di essere vuota.
Allora, forse, dovrei riempirle con questi pensieri, questo fluire di ricordi, come dice la dottoressa.
Lo trovo giusto, scrivere del passato.
Lo trovo giusto perché è tutto quello che ho, perché il presente è noioso e triste, perché il futuro non lo vivrò mai, figuriamoci scriverlo.
Lo trovo giusto e basta, per questo lo scriverò.
Magari trovo anche il bandolo di questa matassa così intricata, l'inizio vero della mia malattia.
O della mia sanità, dipende dai punti di vista.
Ogni cosa è relativa.
Comunque, da qualche parte dovrò pur iniziare a scrivere, e le idee non mi mancano.
L'inizio è sempre la cosa più difficile.
Secondo la dottoressa, dovrei iniziare dal primo ricordo che mi viene in mente.
L'unico a cui riesco a pensare in questo momento è l'ultimo compleanno che ho festeggiato.
Quel giorno, compivo otto anni e potevo chiedere quello che volevo.
Nel nostro piccolo appartamento sporco, in Gordon Street, le feste erano qualcosa di speciale e unico, qualcosa da aspettare trattenendo il fiato.
Quel giorno, mia madre non andava al diner a lavorare, ma rimaneva con noi bambine per tutta la giornata, con addosso il vestito buono, quello azzurro a pois color acquamarina, che metteva unicamente nelle grandi occasioni.
Noi non dovevamo andare a scuola, e potevamo alzarci più tardi, anche alle dieci e mezzo, senza che nessuno avesse da ridire.
Quel nessuno era sempre mia madre, rimasta sola dopo che mio padre ci aveva abbandonato "per cercare fortuna", come ci raccontava sempre lei.
In realtà, avevo scoperto abbastanza presto che mio padre non era così lontano, che abitava a circa due isolati da casa nostra, in una villa con piscina di Rogermayer Street, con la sua vera famiglia.
Era proprietario di una ditta commerciale, avevo scoperto.
Una ditta che si occupava di spedizioni e roba del genere, qualcosa di tosto e pieno di soldi.
Me ne ero accorta quando trovai un volantino con stampato il suo nome, in cui si pubblicizzava una nuova offerta per la spedizione di mobili nell'Est. Nel volantino c'era anche il numero del suo ufficio.
Mia madre mi picchió spaventosamente quando scoprì il foglietto, ripiegato sotto il cuscino. Mi picchió fra le lacrime, urlando che volevo abbandonarla, abbandonarla nella merda in cui io stessa l'avevo trascinata nascendo.
Nessuno aveva il coraggio di fermarla; mia sorella era troppo piccola, e io troppo atterrita per opporre resistenza.
In fondo, capisco mia madre.
Deve essere stato terribile andare avanti come fece lei.
Non mi raccontò mai come andarono le cose, lo capii da sola dopo qualche anno.
Mia madre, prima di avere me e tutto il resto, era una ragazza studiosa e seria. Aveva appena finito le superiori quando rimase incinta di me.
Dovette abbandonare il college, ma non fu così per mio padre, che la molló e si fece la sua bella carriera.
Si sposò con una donna conosciuta all'università ed ebbero i loro straordinari figli, fregandosene altamente di noi e del nostro futuro.
Mia sorella la ebbero un anno dopo di me, quando mio padre parve ravvedersi prima di ottenere quel fantomatico posto in ditta.
Ci trasferimmo dopo la morte dei nonni in quel buco di appartamento, che mia madre riusciva a permettersi grazie al misero stipendio di cameriera e qualche soldo dell'assistenza sociale.
Insomma, una vita davvero di merda.
Però eravamo felici, molto più felici, credo, delle famigliole piene di soldi, quelle delle pubblicità dei cereali.
Soprattutto perché festeggiavamo i compleanni.
Insomma, quel giorno facevo otto anni, e la festa che ebbi fu spaventosamente fantastica.
Mia madre aveva ricevuto una gratifica di cinquecento dollari al diner, e la utilizzò per affittare una saletta da ballo puzzolente a Rosbergh Square, una di quelle in cui si organizzavano i tornei di poker per anziani e le partite di bingo.
A quella festa vennero si e no cinque invitati: mia sorella, Lara Swanson e la sua gemella Linda, Beth Morgan e Stanley Rogers, il mio fidanzatino di seconda.
Insomma, fu un fiasco totale.
Le gemelle se ne andarono dopo circa venti minuti, Beth Morgan si sentì male a causa di una fetta di torta troppo stantia e Stanley fu cacciato da mia madre dopo che ebbe tentato di dar fuoco ad un festone in plastica.
Poi tornammo all'appartamento prima dell'orario in cui dovevamo andarcene, nella speranza di riavere i cinquecento dollari di gratifica.
Ne riprendemmo una cinquantina, il resto venne utilizzato per riparare i danni causati da Stanley.
Da quel giorno non ho più festeggiato un compleanno, e tuttora che di anni ne ho sedici, nessuno mi ha più fatto gli auguri.
Beh, come prima pagina va proprio bene.
Non credevo di riuscire a buttar giù così tanta roba in un solo pomeriggio.
La dottoressa doveva aver ragione riguardo a questa cosa
dello scrivere.
Mi sento quasi più leggera, ed è solamente una sciocchezza questa storia del compleanno.
Non ne ho bisogno, davvero.
Non sono i compleanni ad essere importanti nella vita.
Soprattutto nella situazione in cui mi trovo io.
Devo andare adesso, c'è l'ora libera e voglio assolutamente andare in biblioteca.
Scriverò qualcosa più tardi.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top