2. Va tutto bene

«Sei uno stupido!»

«Scusa, papà» piagnucolo sul pavimento della mia camera. «Non lo farò più.»

«Ci puoi giurare.»

Alzo gli occhi e vedo di nuovo quel sorriso storto e i suoi occhi. Sono quelli a farmi paura, anche più delle sue mani, così grandi sulla mia faccia. Fanno male. Gli occhi fanno paura.
Perché mamma ha dovuto scegliere lui come papà?

Mi tira su di peso e mi trascina verso il letto, su cui mi butta a metà. Singhiozzo, non riesco a respirare e ci metto un po' per provare ad alzarmi. Spingo sulle braccia, ma cedono.

Male. Tanto male alle gambe, che bruciano.

Urlo.

Ancora più male. Perché?

Giro solo la faccia. Piano. La cintura arriva un'altra volta e grido di nuovo. Cerco di tirarmi su, ma sento ancora più male.

«Zitto, devi stare zitto.»

«Basta, papà.»

«Zitto!»

Un'altra frustata e stavolta premo la faccia sulle coperte. Forse se non faccio rumore la smette.

«Prova di nuovo a scrivere una cosa simile a scuola e te ne do il doppio. Guai a te se fiati con le maestre. Hai capito?»

Annuisco, senza togliere la faccia dal piumone.

«Hai capito?!»

«S-Sì.»

«In questa casa va tutto bene. Non dimenticartelo mai.»

Sto per rispondere, però arriva un altro colpo a sottolineare il messaggio.


Spalanco gli occhi senza fiato. Il soffitto ingrigito, la luce gialla della lampada, le ombre. Sono in albergo.

«Cazzo» impreco a denti stretti.

Abbasso lo sguardo e Sonia è raggomitolata di fianco a me. Respiro a fondo.

Non dovevamo tornare qui, lo sapevo. Incubi, solo incubi, come non ne avessi abbastanza. Almeno lei è tranquilla. Non la capisco. Quello stronzo la fa chiamare perché sta male e lei corre. Accudisce un cazzo di mostro, invece di mandarlo a fanculo e lasciarlo a crepare da solo. Era questo che doveva fare. Credo sia stata la peggiore litigata tra di noi. No, non sono stato via tre settimane, sono stati tre cazzo di mesi interminabili.
La guardo meglio, adesso che sono più lucido, e mi rendo conto che è davvero dimagrita troppo. Ecco cosa c'era di strano, di diverso quando l'abbracciavo. Mi passo le mani sulla faccia e poi tra i capelli.

Perché le ho vomitato addosso tutte quelle parole? Che stia male? Che sia tutta colpa mia?

Cerco a tentoni il cellulare sul comodino per vedere l'ora. Le dieci e mezza. Siamo chiusi in questa camera da un giorno e mezzo e non mi ricordo nemmeno cos'ho mangiato l'ultima volta.

Bravo, Simone! Un fratello maggiore di merda, come sempre. Non smentirti, mi raccomando.
Mi alzo, tiro su un po' la tapparella e apro la finestra per cambiare l'aria. Devo recuperare i vestiti, che ho buttato non ricordo dove. Gli occhi vagano spaesati per la stanza, alquanto scarna: un letto in ferro battuto, un armadio in stile, un divanetto usurato e per nulla invitante, un paio di sedie. Almeno abbiamo il bagno, anche se è un buco, e devo proprio usarlo, non solo per pisciare. Ho bisogno di una doccia.
Sotto il getto d'acqua tiepida, ripenso alla prima volta che ho assaggiato la cinghia di Angelo. Grazie incubi di merda, sempre utili! Avevo otto anni e da stupido avevo scritto in un tema che papà trattava male la mamma, a volte, e la faceva piangere tanto. Poi non ricordo che altro. Poco importa, è andata così.

Esco e trovo Sonia seduta sul letto, le ginocchia strette al petto e un sorriso tutto per me.

«Buongiorno» mi saluta con tono squillante.

«Ben svegliata. Dormito bene?»

«Io sì, tu no.»

Alzo un sopracciglio, chiedendomi come faccia a saperlo.

«Ti sei agitato parecchio e hai le occhiaie» aggiunge, quasi mi avesse letto nel pensiero. «Hai avuto ancora incubi?»

«Che programmi hai per oggi?»

«Stare con te e visto che vuoi cambiare discorso, la risposta alla mia domanda era 'sì'.»

«È inutile stare a parlarne» replico secco, accostandomi al letto. «Che ne dici se andiamo a fare colazione in pasticceria?»

Le si illuminano gli occhi e mi salta al collo, riempiendomi di baci. Non so più in che modo spiegarle di non fare così o mi viene duro. Non lo fa apposta, ma è una tortura.

«Muovi il tuo bel culetto e vestiti» dico, staccandomela di dosso e allontanandomi.

Raccolgo i vestiti e mi accorgo che mi fissa.

«Non guardarmi così.»

«Così come?»

«Così!»

Sonia scoppia a ridere e mi infastidisco. Non sono bravo con le parole, non ci posso fare niente.

«Come fossi un cioccolatino ripieno?»

Strabuzzo gli occhi e lei ride ancora di più.

«Che cazzo di paragone è?»

«Cioccolato amaro fondente, croccante fuori e un tenero cuore di cioccolato al latte dentro» risponde soddisfatta.

No, più che soddisfazione, mi sa tanto che è voglia.

«Sei seria?» chiedo, indossando un paio di mutande pulite.

«Certo. Non ti rivedi nella descrizione?»

Si fa più seria e mi tende le braccia. Mi siedo sul letto e mi si butta sulla schiena, poggiando il mento sulla mia spalla.

«Non so dove lo vedi il cuore dolce e tenero» ghigno. «L'unico a venirmi in mente non c'entra nulla col cuore e ce l'ho tra le gambe.»

Vado per infilare i pantaloni, ma mi ferma. La sua mano si insinua nelle mutande e si mette a massaggiarmelo. La cerco con la coda dell'occhio.

«Dobbiamo andare a mangiare.»

«Prima ritratta.»

Mi sta prendendo in giro? Comincio ad avere qualche dubbio.

«Altrimenti mi fai una sega o passi ai pompini?»

«Altrimenti ti lascio a metà» dichiara, mordendomi l'orecchio.

«Questo è un colpo basso.»

«Allora, ritratta.»

Le blocco la mano e mi libero, alzandomi di scatto.

«Simo?»

«Piantala e vestiti» chiudo la discussione, portandomi i vestiti in bagno.

Fisso la mia immagine allo specchio, vorrei prenderla a pugni, cancellarla e cancellarmi. Me la prendo con Sonia che non ha colpa. Lo so. Dovrei trattarla meglio, me lo ripeto di continuo, però sono questo e non riesco a tirar fuori nulla di buono dalla mia anima.

Dei colpi alla porta mi richiamano, le servirà il bagno. Apro e abbasso lo sguardo su di lei, annegando in un mare azzurro e limpido.

«Scusa» mormora con un filo di voce.

Mi chino e le bacio la fronte, prolungando quel contatto innocente. Peccato che di innocente in me non ci sia niente. Mi scosto e ci scambiamo di posto senza una parola.

Si ripresenta truccata, le labbra evidenziate da un glossy rosa, il taglio allungato degli occhi definito da linee nere perfette, i capelli raccolti in una coda alta con ciocche sistemate ai lati del viso a fingere di essere ribelli. Un completo nero a nascondere le forme smagrite e la gonna austera fino al ginocchio, che concede un po' all'immaginazione con uno spacco sulla coscia.

No, l'innocenza non so proprio dove stia di casa. Nemmeno la decenza. La sto mangiando con gli occhi, nella mia testa la sto già spogliando per fottermela contro il muro. L'idea mi piace, Sonia accenna un sorriso in risposta al mio ghigno.

No, dopo. Prima la colazione e poi devo capire come sta davvero.

«Sei pronta?»

«Sì.»

Mi avvio, precedendola, e scendo con una certa fretta di uscire all'aria aperta. Inforco gli occhiali da sole e ci incamminiamo lungo il marciapiedi. Lancio occhiate distratte ai bassi palazzi del centro storico, un'istantanea immutata del mio passato, quasi il tempo si fosse fermato, finché non la sento stringermi la mano.

«Non credo sia il caso» le faccio notare, tenendo lo sguardo puntato avanti.

«Ti interessa davvero?»

Il tono affettato e sicuro stride col suo essere, quando lo usa è una pugnalata. Non ho saputo proteggerla abbastanza e soprattutto non l'ho protetta da me.

«No, ma non voglio che parlino male di te.»

«Di me?» ridacchia sarcastica, arricciando il naso. «La mia vita non è qui, cosa vuoi che m'importi?»

È proprio la mia sorellina. Cedo e intreccio le dita alle sue. Mi sento più tranquillo, così consumiamo gli ultimi metri per raggiungere la pasticceria all'angolo. Le capottine rosso scuro a far ombra sulle vetrine e gli ombrelloni, sotto cui sono sistemati con ordine i tavolini rotondi di metallo. Il Sole di inizio giugno picchia già duro, per cui ci accomodiamo alla svelta e senza problemi, ci sono giusto una manciata di clienti.

«Ecco...» farfuglio in modo goffo, grattandomi la nuca. «Sì, insomma, mi sono comportato come uno stronzo l'ultima volta che abbiamo litigato. Mi dispiace. Ho detto cose che non penso. Lo sai, vero?»

Silenzio. Alzo gli occhi e lei mi sorride pacifica.

«Certo che lo so, non ti devi scusare. Non mi hanno ferita le tue parole, ma il sapere che ti stavo facendo male, senza riuscire a spiegarti il perché.» Sospira, le labbra si incurvano verso il basso. «Non riuscivo a trovare le parole, nemmeno ora. Però ero sicura di doverlo fare, per me stessa e anche per te.»

«Continuo a non capire.»

Vengo interrotto dalla cameriera e mi assale l'istinto di mandarla al diavolo.

«Due cappuccini, una brioche alla crema e una integrale al miele» ordina Sonia, prima di fermarsi a pensarci. «Vuoi quella, no?»

«No» ghigno. Così impari a chiedermelo prima. «Cancella l'integrale, baby» ammicco alla ragazza, difficile non accorgersi di come mi stava squadrando, «e portamela al cioccolato.»

Segna tutto senza staccarmi gli occhi di dosso e se ne va.

«Al cioccolato? E da quando?»

«Da quando mi hai paragonato a un cioccolatino che ti vorresti mangiare.»

Scosta una ciocca dietro l'orecchio, imbarazzata. È così tenera in certi gesti da sembrarmi ancora una bambina.

«Tornando seri, ci sono due cose che voglio sapere. Uno: cosa hai combinato in questi mesi e perché sei così magra. Due: possiamo tornarcene a casa, adesso?»

Sonia comincia a tormentarsi le dita, stringendole, torcendole, picchiettandole, ma non scuce una parola. Aspetto, basteranno il silenzio e la tensione a scioglierle la lingua.
Controllo il cellulare, fingo di leggere qualcosa di interessante e arrivano le nostre ordinazioni. Purtroppo per la cameriera, stavolta non la considero di striscio, a parte pagare il conto. Mescolo il cappuccino tornando a fissare Sonia da dietro le lenti scure.

«Possiamo parlarne quando torniamo in Nevada?»

«No» replico secco e lei sussulta.
«Ho fatto quello per cui sono venuta, va bene?» sbotta, alzando il tono.

Si agita sulla sedia, gli occhi vagano frenetici intorno a noi e si ricompone.

«Ho avvelenato gli ultimi mesi di vita di papà, come ha fatto lui» dice a denti stretti e stento a riconoscerla in tanta freddezza. «Dovevo essere sicura che crepasse.»

Il cucchiaino mi scivola dalle dita, impietrito. Per un attimo nei suoi occhi ho rivisto quelli di Angelo e anche il suo sorrisetto sinistro. Deglutisco a fatica, mentre addenta la brioche con una calma inquietante.

«S-Sonia...» mi schiarisco la voce, che mi graffia la gola. «Cosa intendi? Che hai fatto?»

Mi ignora e continua a mangiare, a me si è chiuso lo stomaco alla faccia della fame chimica.

«Sorellina?»

«Devo sistemare le ultime cose» riprende, pulendosi la bocca col tovagliolo e i suoi modi eleganti. «Mi servono alcuni giorni.»

«Ancora?»

«Sì.»

«Ma lo vedi che qui non resisto? Non posso andare avanti così» rispondo, alterato.

«Sì che puoi, lui è sottoterra e non hai bisogno di fumare tutta quella roba. E poi, da quando hai ripreso? Avevi smesso per entrare nell'UFC.»

«Ho ripreso qui e, comunque, me lo fai notare perché ti dispiacerebbe se mi buttassero fuori o perché ci speri?»

Assottiglia le labbra e se potesse mi fulminerebbe, ma i suoi occhi sono tornati quelli di sempre, per fortuna.

«Dovrebbe piacermi stare a guardare, mentre ti fai ammazzare per soldi?»

«In quella gabbia io sto bene. Ficcatelo in testa» preciso, appoggiando le braccia sul tavolo per sporgermi verso di lei. «Quello è il mio posto e ci sono delle regole, non ci lascerò le penne nell'Octagon

«Magari non nella gabbia, ma in uno dei tuoi viaggetti a New York» ribatte pronta, protendendosi a sua volta verso di me.

Non ha tutti i torti, vado apposta a cercare gli incontri clandestini per non avere regole e sfogarmi fino in fondo.

«Vale tudo, baby!»

Perché l'ho detto? Maledizione a me che non so tenere a freno la lingua, nemmeno con l'unica persona importante della mia vita. Il labbro inferiore tremola, costringendola a morderselo con gli occhi lucidi.

«Non intendevo quello, è l'abitudine. Ora che ho firmato il contratto con l'UFC sono un capitolo chiuso anche i match illegali. La prima pesa ce l'ho ad agosto, per l'antidoping di lega ho l'obbligo di essere pulito da un mese, essendo un nuovo acquisto. Rientro nei parametri e vedrò anche di riuscire a buttare su dieci libbre con la nuova dieta, per stare più comodo tra i pesi massimi. Sei più tranquilla?»

«Tranquillissima» sibila, falsa quanto me.

Mi sa che non ha creduto alla storia del capitolo chiuso, ma ci proverò sul serio.

«Dai, mentre ingrasso io, rimetto in forma anche te. Così ho quasi paura di romperti, quando ti abbraccio.» Se pensa di avermi fregato, si sbaglia di grosso. «Ora, spiegami il resto.»

Allungo una mano e copro la sua, le accarezzo il dorso col pollice, in attesa che rompa di nuovo il silenzio. Invece, ci pensano le due signore poco lontane da noi, ci separa un tavolo vuoto. È da un pezzo che ci osservano.

«Non sono i figli di Angelo e Francesca?»

«Sì, sì, lei la riconosco.»

«Ma lui non era in galera?»

«No, ti sbagli. Era andato via, in America mi pare.»

«Ma in prigione c'è stato però!»

Sollevo gli occhiali sulla testa e le punto, incrocio le braccia e mi accomodo sulla sedia. Avanti, sono tutt'orecchi per sentire l'ennesima versione della mia storia.

«C'è stato, lo ha denunciato suo padre dopo che lo ha mandato in ospedale.»

«Ah, è vero, lo aveva quasi ammazzato quel poveretto.»

«Rina, ci sta guardando» dice la più vecchia, battendo impaurita il braccio dell'amica.

Sorrido. Non so cosa ne sia uscito in realtà, ma quelle due comari se la stanno facendo sotto da come sbaraccano.

«Faccio così paura o sono un cesso proprio?», chiedo, riportando lo sguardo su Sonia.

Scuote la testa, rassegnata.

«Sai benissimo di far paura guardando male la gente, come sai di non essere brutto» dice con aria sorniona, «o non ti morirebbero tutte dietro.»

«Non tutte» preciso alzando le spalle, mangiando finalmente la mia brioche.

Ormai il cappuccino sarà freddo, peccato.

«Tutte» ribatte piccata. «Quelle che mancano all'appello mentono e basta, ma farebbero carte false per una scopata con te.»

«Puoi dire quello che vuoi, ma odio questo posto. Ci sto male, cerca di venirmi incontro. Sono venuto a quel cazzo di funerale come volevi e ora me ne torno a Canyon Willow.»

«Ti ho chiesto solo un paio di giorni, di restare con me.» Scatta in piedi, assottigliando lo sguardo. «Ma per carità, vai dove ti pare.»

Mi dà le spalle e si allontana spedita.

«Sonia?» la chiamo senza avere risposta e mi ripeto, alzando la voce.

Niente. Batto i pugni sul tavolo, rovesciando le tazzine e quello che non ho bevuto.

«Sonia!» urlo, andandole dietro a grandi falcate.

Recupero terreno in breve, la spanna abbondante in più di altezza gioca a mio favore. Le afferro il braccio e la costringo a voltarsi.

«Parliamone.»

Mi ride in faccia, non so se è più arrabbiata o ferita.

«Tu non vuoi parlare, Simo. O come dici tu o niente. Questo non è parlare, è comandare, perché esistono solo le tue regole: vale tudo. Vale tutto, purché non ti sfiorino il cuore.»

Allento la presa, incredulo, e si libera con una smorfia di delusione a incresparle il viso. È la verità? Sì, stavolta mi ha sputato in faccia ciò che sono.

«Sai che c'è?» riprende, la voce acuta si incrina. «Torna al tuo mondo, tanto se ti senti solo o perso rimedi con una scopata, come sempre. Sono solo tua sorella, non posso pretendere niente.»

«Non—»

«Voglio stare da sola.»

Si gira e mi sento morire.

«Aspetta, dove vai?»

Non risponde e io non riesco a muovere un solo dannatissimo muscolo. La guardo allontanarsi e so che dovrei lasciarla andare. È giusto così.

«In albergo» urlo, perché sono un figlio di puttana, un bastardo che non ha nemmeno idea di chi sia suo padre. «Ti aspetto in albergo.»

Mi avrà sentito? Spero di no. Mi trascino a ritroso lungo il marciapiede augurandomi che non torni indietro, che se ne vada il più lontano possibile da me e da questo schifo. Non importa se fa male, merito di crepare da solo e lei di essere felice, di avere una vita come si deve.

Mi ritrovo in albergo spaesato, mi guardo intorno immobile nell'ingresso. Riconosco la moquette bordeaux, il banco della reception in legno consunto e la laccatura scheggiata in più punti, l'ascensore alla mia destra che dovrei prendere per salire al secondo piano. E poi? Cosa dovrei fare in quella stanza da solo? A sinistra si apre la sala da pranzo. Già, ci hanno detto che c'è l'angolo bar.

L'aria è più gradevole, non è impregnata dell'orrendo misto di deodorante scadente e detergenti. L'ambiente è molto luminoso e una ragazza sta apparecchiando i tavoli, si china per aggiustare la seconda tovaglia, bianca, sopra quella rosso scuro, e la minigonna nera le sale sulle cosce fin quasi al culo.

Bianco. Rosso. Nero.

I colori della mia vita e un culo bello sodo. Mi accomodo su uno sgabello. Il barista mi squadra con discrezione, avremo circa la stessa età. Educato, mi sorride con un cenno della testa, sistema gli ultimi bicchieri e prende la mia ordinazione. Non sono in vena di gentilezza, mi spiace.

Butto giù mezza birra d'un fiato e un profumo speziato invade prepotente le narici. Poso il bicchiere sul banco e con la coda dell'occhio seguo la cameriera sculettare in cucina.

Ragù. Stanno cucinando qualcosa col ragù e delle carne, gli aromi si diffondono invitanti, eppure ho lo stomaco chiuso.

La brunetta esce di nuovo e non è niente male. Vent'anni o poco più, mi sorride e ha lo sguardo sveglio. Quegli occhi vispi nocciola mi fanno una radiografia e restituiscono un verdetto positivo. Troppo giovane per avere un'idea di chi sono e girarmi al largo.

«Devo apparecchiarti un tavolo?»

Fai prima a chiedermi se ti scopo nel retro o a sederti in braccio, tanto mi sei addosso.

«Marica,» interviene il barista, dopo essersi schiarito la voce, «prepara il cinque per quelli della centosei.»

Lei sbuffa e obbedisce, ma anche un cieco si accorgerebbe che sculetta apposta per invitarmi a nozze. Torno alla birra e il tipo mi fissa. Lui mi conosce, pronto a scommetterci! Però è professionale, che sia per tenermela lontana o per interesse personale verso di lei, non fa un commento e continua ad asciugare bicchieri. Almeno finché non viene chiamato in cucina. Ho appena il tempo di lanciare un'occhiata alla sala, che Marica mi si struscia sul fianco.

«Chiamami» sussurra all'orecchio, allungandomi un bigliettino che finisce davanti al bicchiere vuoto.

Meglio se levo le tende in fretta e il numero me lo infilo in tasca. Ha ragione Sonia, anche adesso non farei altro che scoparmi la cameriera, senza nessun motivo. È automatico. È malato.

Guardo il mio riflesso sulle porte metalliche dell'ascensore. L'indice scivola sul naso e mi chiedo dove mi vedano bello. Con tutti i pugni che ho preso, con e senza protezioni, si nota subito a cosa sono abituato. Violenza. Il resto sono tutte scuse. Le ante scorrono e attraverso lo stretto corridoio, luci calde colorano le pareti bianche, all'incirca.


«L'hai fatta piangere. Adesso ti sistemo io.»


Avevo dodici anni, eppure, in un attimo avevo capito che le avrebbe fatto male, più che a me. Perché? Non lo so, alla fine me le aveva solo suonate di santa ragione.

Entro in camera e sbatto la porta.

«Perché?» ringhio contro me stesso.

E la vorrei tanto una risposta che non suoni come una condanna. Vorrei credere che sia stato il pensiero di mamma, degli sguardi, dei segni, dei rumori o dei pianti. Vorrei crederci.
Tolgo la maglia rabbioso e la getto sul letto. Non me ne frega un cazzo se puliscono o meno questo buco. Mi butto a terra e inizio a fare flessioni, senza contare. Solo fatica.

E quella risposta che mi tormenta: i simili si riconoscono. No, cazzo! Non sono come lui, non voglio.


«No, papà» grida Sonia, aggrappata al suo braccio. «Basta.» Singhiozza, disperata, cercando di fermare l'ennesimo ceffone sulla mia faccia. «Cattivo, sei cattivo!»

Lui la guarda, la fronte scavata da rughe profonde, alza il braccio con lei a penzolare come una bambolina. Stringe i denti, poi rilassa l'espressione.

«Non sono cattivo, ti ha fatta piangere e lo devo punire.»

«No. No. Non devi fargli male.»

Per un attimo c'è dolcezza negli occhi di Angelo, mentre la rimette a terra. Non mi aveva mai picchiato davanti a lei.

«Va bene, principessa.»

Le accarezza la testa, le sorride e, infine, guarda me. Non è finita, mi avverte senza una parola, per me c'è solo ghiaccio tagliente e un ghigno storto. Se ne va, lasciandomi seduto sul pavimento e la mia sorellina mi stringe, disperata.

«Va tutto bene» dico a fatica, con la faccia che brucia e pulsa, il gusto ferroso del sangue che si mescola a quello di violette del suo profumo. «Va tutto bene, non fa tanto male. Non piangere.»

Eccoci alla fine del secondo capitolo, con i primi pezzi di questo puzzle.
Che ve ne pare, per ora?

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top