1. LA CASA DELLE MASCHERE
Più di vent'anni prima
Se capitate a Barco provate a chiedere della casa delle maschere. Chiunque saprà indicarvela, perfino i bambini conoscono la villa che svetta sopra la scogliera, l'edera che ne ricopre i muri, il giardino tanto rigoglioso da risultare indecente che brilla dietro il cancello. Magari, con un po' di fortuna, vi racconteranno qualcosa al riguardo. Alle persone piace speculare sulle origini del nome. Per alcuni si chiama così perché ai tempi della peste su quel terreno sorgeva un lazzaretto e si vedevano persone girare con maschere dai lunghi becchi. Per altri è un riferimento agli spiriti mascherati che ci passeggerebbero intorno nelle ore più buie della notte.
A prescindere da ciò, la casa era conosciuta già prima che io e mia sorella nascessimo. Era nata nel sangue, nel dolore, nel tradimento. Alcuni luoghi sono maledetti, è come se la maledizione entrasse nella terra e ci mettesse radice. Una pianta sotterranea che avvelena tutto quello che ci viene costruito sopra. Il mio bisnonno però non era uomo da credere in queste storie. Sebbene sapesse del fratricidio che si era commesso quando sul terreno c'era ancora una taverna, non esitò nemmeno un momento a scegliere quel posto per far sorgere la propria abitazione. Perfino quando le mura continuavano a cadere non si arrese. Ne eresse di nuove, più solide.
Non si scompose nemmeno quando gli dissero che oltre il muro che tracciava il confine c'era un terreno di streghe. In alcune notti, tra la nebbia, si poteva vedere un'altra casa speculare alla nostra. Luogo di sogni e incubi. Era un uomo audace il mio bisnonno. Avrei voluto poterlo conoscere per davvero e non tramite le storie.
La casa diede subito problemi. S'inclinava, crepe si formavano sulle pareti e minacciavano di spaccarla in mille pezzi. Non c'era modo di aggiustarle. Erano parte di essa, di noi, delle colpe dei padri che piovevano sui figli.
Io e mia sorella Tania vedemmo la luce un caldo pomeriggio estivo, quando i nostri genitori ormai non ci speravano più. Fummo accolte con amore e delusione. Sarebbe stato infatti meglio se almeno una di noi due fosse nata maschio. Quell'erede maschio, tanto invocato, che continuava a presentarsi per poi andarsene.
La nostra infanzia fu attraversata da piccole bare bianche e visite al cimitero, dove stavamo davanti a lapidi ricoperte di fiori. Non ricordo quando compresi che cosa significasse, né se ce lo disse qualcuno. La strage di fratellini che anticipò e seguì la nostra nascita è qualcosa che mi turba ancora oggi, quando ormai dovrei aver accettato quegli eventi. Persi il conto di quanti furono. Cinque? Sei? Alcuni nacquero morti, altri vissero qualche tempo. La cosa che li legava era il genere. Erano tutti maschi. Si trattava degli eredi che mio padre sognava da prima di sposare mia madre. Non ci poteva essere per lui punizione peggiore che quella, desiderare tanto qualcosa senza poterla avere.
In quella casa troppo grande per una famiglia come la nostra quei piccoli spettri sembravano averci messo radici. Ne sentivamo i pianti, i sussurri, i passi.
Non erano i soli. Al secondo piano c'era una stanza, la porta sempre socchiusa. Chi avesse avuto il coraggio di spingerla avrebbe visto tra i mobili impolverati una donna distesa nel letto.
La zia Soria con quella malattia che l'aveva ridotta in un'eterna dormiente, dai cui occhi rotolavano lacrime rosse. Da bambina ero terrorizzata all'idea di diventare come lei. Passavo davanti alla sua stanza sempre di fretta, senza mai sbirciare dalla porta socchiusa, per paura di essere contaminata dal suo morbo. Qualche volta interrompeva il suo sonno e allora veniva portata, troppo debole, per camminare da sola, o in salotto o in giardino, se c'era bel tempo. Io la osservavo cercando di non avvicinarmi troppo, come se guardassi una belva esotica.
Tania dal canto suo ne era affascinata. Suppongo che la considerasse anche lei una qualche strana creatura. Qualcuna capace di essere legata a un altro mondo. Quello delle fiabe che ci raccontava la nostra governante, che cercava in ogni modo di distrarci dalle cupe dicerie sulla nostra casa.
Fin da piccola ricordo poi quei rumori in salotto. Un suono di pianto, di disperazione, di angoscia. Mio padre sosteneva che mai era successo nulla di strano in quel salotto.
Ricordi nebulosi di eventi mai avvenuti.
A volte, quando il vento strillava tanto forte da squarciare ogni cosa, chiunque fosse stato affacciato alla finestra avrebbe potuto vedere delle figure che si muovevano sulla scogliera. Giochi della mente sosteneva mio padre. Non ne ero così sicura. Io ci credevo. Ero certa che quelle storie fossero reali. Che ci fossero davvero i fantasmi. Che non solo la casa, ma il paese intero fosse infestato.
Alcune notti andava via la luce, quasi la casa assorbisse tutta l'energia.
In quelle occasioni mio padre ci radunava in salotto, accendeva le candele, ci raccontava storie. Di famiglia, di paese, di qualsiasi cosa.
Ne ricordo una in particolare. Quella della casa che s'intravedeva nella nebbia e che scompariva non appena questa si diradava.
La vera casa delle maschere, di cui la nostra era solo la sbiadita imitazione. Una storia sussurrata, mai urlata. Perché dicevano che alcune storie sono vive. Sono serpenti che se chiamati tornano per mordere. Ogni tanto mi sembrava di sentirne il sibilo.
C'era un tempo una ragazza che non conosceva altro che l'infelicità. Era povera, sola, il viso deturpato dal vaiolo.
La ragazza fece un patto. La sua anima in cambio del potere.
Il demone la esaudì, ma ogni atto ha il suo contraltare. La ragazza scoprì di non poter lasciare la casa.
Dicono che sia ancora chiusa là dentro. Che nelle notti silenziose si possano sentire le sue urla. Prega di essere libera di andarsene. Di poter un giorno trovare pace.
L'altra casa divenne la nostra ossessione. Ancora oggi non riesco a pensarci senza un brivido. Tania in particolar modo amava ricamarci sopra storie su storie. Non ricordo a chi di noi venne l'idea del rapimento. Forse fu sua, le storie più bizzarre erano sempre sue. Un giorno ci convincemmo che qualche strana creatura sarebbe uscita da quell'oscura casa per rapirci. Per portarci dove non riuscimmo mai a definirlo. Era un mondo sfocato quello oltre il muro. Un mondo le cui regole non erano chiare. Il mondo da cui arrivò lui.
NOTE DELL'AUTRICE:
Ciao!
Che ne pensate di questo capitolo?
Aspetto il vostro parere.
A presto!
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