Capitolo 18

1555, Stackpole.

Gli occhi ridotti a due fessure, rivolti verso la porta chiusa, e i denti serrati. Sente ancora le sue parole riecheggiare nelle orecchie e il cuore che pulsa forte in gola, laddove pare essersi fermato come un macigno. Non riesce a mandarlo giù. È asfissiante.

Io sono il tuo Signore, si ripete. Inspira a fondo, sente le lacrime pungergli gli occhi e si umetta le labbra. Non è vero. Trattine un singhiozzo e rotola sotto le lenzuola. È dolorante, affaticato, tuttavia riesce ad alzarsi. «Vi odio abbastanza, Sir» sussurra tra sé e sé. Non ha il coraggio di gridarlo, ma vorrebbe. E mentre rantola, mentre cerca i vestiti puliti nel cassettone del mobile in noce, sente cedere ancora le ginocchia. Per poco non cade in terra. Un grugnito gli scivola di bocca, un brivido gli percorre la schiena. Sono un animale in gabbia, così si dice. Una gabbia dorata. Guarda la finestra, il sole mattutino, infine sospira. Vorrebbe essere un uccello solo per volare via, per lasciarsi tutto alle spalle. Deglutisce, torna con i piedi per terra e si affretta verso il cassettone aperto. Le dita tremanti, lo sguardo vacuo. Ignora l'ordine ricevuto, si dice: Al diavolo Sir Holland e le sue pretese! Ma non dovrebbe disobbedirgli, lo sa - oh, se lo sa! Eppure se ne infischia: aggrotta le sopracciglia, tentenna nei nodi della camicia e ricorda la facilità con cui li ha slacciati Louis. Allora scrolla la testa, tenta di sembrare presentabile. Prova un'espressione o due, infine getta la spugna. Adesso sono solo, si dice. Prende un grosso respiro, cerca di non pensare a niente. È impossibile, non ci riesco! Arriccia le labbra, si sistema i calzoni. Sente i muscoli ancora indolenziti, tesi, e, non appena si allaccia il farsetto, sbuffa. In un attimo è fuori dalla sua stanza, lungo il corridoio, lontano dal piano signorile. La testa su di giri e l'idea che Louis possa rimproverarlo se non addirittura segregarlo. No, non succederà, si dice, mordendosi il labbro inferiore.

«Oh, Elliot!» A parlare è Charlotte, la quale accenna un sorriso nella sua direzione. Lo vede in piedi, ritto sull'uscio della porta della cucina, e per poco non ha un tuffo al cuore. «Finalmente sei qui...» dice. «Pensavo che questa mattina non ti saresti più alzato.»

«Perché non avrei dovuto?» balbetta lui. Il tono più agitato del solito, probabilmente fuori luogo. Le vede battere le palpebre con fare perplesso, così sorride a sua volta - quantomeno ci prova.

«Si faceva per dire» mormora. Non aggiunge altro, distoglie semplicemente lo sguardo. È mortificata, letteralmente dispiaciuta, e ha come l'impressione di aver rigirato il coltello nella piaga, di aver osato troppo. «Ma forse non fa ridere...» Ridacchia, cerca di essere il più naturale possibile. Pensa a Bastian, al fatto che perfino lui si sia accorto della sua infatuazione per Elliot, e trema al solo pensiero che quest'ultimo possa esserne consapevole. Magari non gli piaccio affatto, si dice.

«Tranquilla» soffia. Distoglie lo sguardo dai suoi capelli intrecciati non appena nota la campanella gialla e si schiarisce la voce. «Porto io la colazione a Madame Deanna.»

«Ma Sir Holland ha detto...»

«Non importa cos'ha detto Sir Holland» la interrompe Elliot. «C'è un cambio di programma.» È fiero della propria alzata di testa, a dir poco orgoglioso, e non si fa alcun problema ad allungare una mano verso il cesto della frutta, tantomeno ad addentare la mela che ha appena strofinato sulla manica del farsetto. L'aria beffarda, il suo tipico sorriso ingenuo.

Charlotte tira un sospiro di sollievo, dice: «Va bene.» Si fida di lui e lo fa senza remore. Non ha intenzione di fargli alcuna domanda, malgrado Emma abbia appena alzato un sopracciglio. «Questa è la colazione della Marchesa Deanna...» aggiunge, sollevano una mano per indicare il tavolo di legno alla sua destra. «È tutta tua!»

«Purché non abbia intenzione di mangiarsela» borbotta Emma con fare laconico.

«Emma!» Charlotte l'ammonisce, aggrotta perfino le sopracciglia. Ma non riesce a dire altro, perché Elliot s'intromette nel discorso con un:

«Mi basta una mela.»

«Ma sentilo!» Emma trattiene una risata. Si porta una mano alla bocca, ma non riesce a trattenere lo sguardo - troppo allusivo, perlomeno a detta di Elliot. «Di questo passo non crescerai mai...»

Elliot abbassa di poco le palpebre, la studia in silenzio. Mi ricorda Tristen, si dice. E chissà perché non riesce a fare a meno di prendere la cosa sul personale. «Tanto meglio!» Un'esclamazione che fa battere le palpebre ai presenti e che lo allontana dal torsolo della mela sbocconcellata. «Non ho intenzione di crescere.»

Emma è incredula, perplessa. Chiede: «E perché mai?»

«Per dirne una...» Elliot lancia il torsolo sul tavolo e afferra il vassoio per Deanna. «Non saprei più cosa mettermi.» Si ferma giusto il tempo per far cadere l'allusione sui pregiati vestiti smessi di Louis. «E, in secondo luogo, perché Madame Deanna mi considera un folletto - sembra proprio che la cosa la diverta.»

Emma schiocca la lingua con stizza, mentre Charlotte trattiene a stento una risata.

Il vassoio in mano e le spalle dritte, Elliot si congeda dicendo: «Con permesso...»

«Che villano» borbotta Emma.

«Io lo trovo carino» ammette sottovoce Charlotte.

«Carino?» Emma alza la voce, solleva un sopracciglio e lancia un'occhiata di sguincio a Charlotte. «Ha la lingua biforcuta, quello lì!»

Elliot, dal canto suo, sospira. Il vociare di Emma e Charlotte continua a ronzargli nelle orecchie fin quando non esce dagli alloggi della servitù, tuttavia non gli dispiace affatto. Per un attimo mi sono distratto, si dice. Riesce perfino ad abbozzare un sorriso, a non indugiare prima di salire le scale. Ma è proprio sui gradini che l'ammonimento di Louis torna a fari sentire: Devi riposare per me. E lui serra i denti, indurisce i muscoli del viso, fa traballare le stoviglie sul vassoio. Forse aveva ragione, constata. Almeno in parte... Tuttavia non demorde: continua a salire le scale e ci riesce. Una volta in cima, però, si ferma. La spalla destra contro la parete e lo sguardo fisso sul fondo del piano signorile. Chissà perché ha una strana sensazione. Allora si guarda attorno, ricomincia a camminare, a ignorare i dolori alle articolazioni e quelli tra le natiche. Quando raggiunge la stanza di Deanna, la chiama: «Madame!» Il tono alto, cristallino, e nessuna risposta. «Madame, sono Elliot...» riprova. Bilancia il vassoio su un solo palmo e bussa con la mano libera. Ancora il silenzio, poi il magone all'altezza dello stomaco. Trattiene il fiato, quasi boccheggia. Bussa ancora, con più fretta. «Madame!» È divorato dall'ansia. Sente la propria voce stridere, gracchiare, improntare un dialogo a caso per farsi perdonare un temperamento villano: «Questa notte la Marchesa Alene si è sentita poco bene...» Così, senza pensarci, senza aspettare una risposta o un ordine, apre la porta. E la voce si strozza, muore laddove è nata. «Madame?» soffia. La vede ancora stesa, adagiata nella penombra. E non sa se parlare o meno, se restare o andarsene. Impietrito, la osserva: ha gli occhi chiusi, i capelli ancora intrecciati e le mani giunte in grembo.

Immobile, pallida, sembra brillare di luce propria. E non ha voce, non ha sostanza. È presente solo fisicamente, come un bocciolo reciso.

Elliot rabbrividisce, piega un ginocchio solo per scivolare rovinosamente in terra. Vede la colazione di Deanna a un palmo dal proprio naso, perciò borbotta delle scuse: «Non volevo, davvero...»

Ma Deanna non risponde ancora.

«Madame» soffia. E sa bene il motivo di tanto silenzio, perché è già incappato in casi simili. È successo al borgo, sì... Ma adesso è diverso. È tutto diverso, adesso. Così serra i denti, li fa stridere tra loro. Gela sul posto, si sente mancare la terra sotto i piedi. Si rialza in fretta e furia, non bada né ai dolori né al disastro sul pavimento. Un paio di passi ed è al capezzale di Deanna, dove si accascia e si ammutolisce. Le sfiora una spalla, la scuote. Non è vero, non può essere vero! grida l'inconscio. Socchiude le labbra, guardandola, e vorrebbe davvero svegliarsi dall'incubo che sta vivendo. Corruga la fronte, trattiene il fiato, sente la propria voce scivolare via e gemere un:. «No.» Si morde le labbra, singhiozza. Non riesce a trattenere le lacrime, la frustrazione. «No!» Alza la voce, nemmeno percepisce i passi lungo il corridoio. «È mattino, svegliatevi!» Gli occhi sgranati, fissi sul volto cereo di Deanna, e le dita che si artigliano al copriletto.

«Allontanati!» Bruce si aggrappa al montante della porta, ruggisce. «Sei impazzito, forse?» lo ammonisce, corruga le sopracciglia, infine ringhia e si avventa su di lui per trascinarlo fuori.

«Lasciami!» Elliot grida, Si butta di peso sul pavimento e si ferisce entrambe le mani con i frammenti delle stoviglie. «Devo svegliare la Marchesa» dice. «Devo...» E non riesce ad aggiungere altro, singhiozza e basta. A un passo dalla porta aperta, in corridoio, assiste all'inevitabile arrivo della servitù. Ansima, di fronte all'andirivieni frenetico, e viene letteralmente schiacciato contro il muro da Bruce, il quale, allibito, gli ringhia contro:

«Piccolo bastardo di campagna, che diavolo è successo in questa stanza?»

Qualcuno grida: «Mio Dio! Madame Deanna!»

Elliot chiude gli occhi, improvvisamente abbandonato dalla presa di Bruce, e si lascia cadere seduto in terra. Si sente come un cane abbandonato, bestiame a cui manca il padrone. Non è morta, si dice. Sta solo dormendo. Gattona fino al letto e stringe le coperte di Deanna.

E Bruce schiocca la lingua, arriccia il naso, lo fulmina. «Sei stato tu a ucciderla?» chiede, sibila. Nessuno lo sente, solo Elliot.

«Dov'è il Marchese?» Ignora le sue illazioni e singhiozza. Lo sguardo fisso sulla salma di Deanna, le guance umide.

«Ti ho fatto una domanda» sillaba. Gli si avvicina a denti stretti e riformula: «Sei stato tu ad ammazzare la Marchesa?» La voce bassa, inquisitoria.

«È stato lui...» balbetta Elliot. Non riesce a chiudere gli occhi, non riesce nemmeno a distoglierli o a guardare Bruce, nel mentre che si sente strattonare in piedi.

«Lui chi?» domanda. Vede un barlume di lucidità nello sguardo di Elliot, poi riesce a scorgerne il viso. Storce il naso, lo afferra per la mandibola e lo costringe occhi negli occhi. «Chi è stato?» ringhia.

Un soffio agitato, confuso: «Sir Holland.» Elliot è davvero certo delle proprie parole, tant'è vero che si allontana da Bruce con una spinta e barcolla all'indietro. «È stato lui» ripete. «È stato Sir Holland.»

E Bruce schiocca la lingua, solleva un sopracciglio. «Sei impazzito, forse?» Ma non riesce ad aggiungere altro, perché Elliot inizia a correre lungo il corridoio. Che diavolo ha questo moccioso? si chiede. Poi, indurendo i muscoli del viso, gli è subito dietro. Cerca di trattenerlo, lo strattona per il farsetto fino a farlo incespicare sul posto. Tuttavia non riesca a fermarlo. Lo vede divincolarsi, sgattaiolare via come un topo di montagna. E, lungo le scale, si trova a considerare l'ipotesi che questi abbia davvero l'intenzione di raggiungere Louis in salone. «Fermati!» grida. Lo ammonisce, salta un paio di scalini e prova ad acciuffarlo. D'un tratto, però, si ferma. Sgrana gli occhi, deglutisce a vuoto e osserva la figura di Louis Holland - la stessa contro cui è andato a sbattere Elliot. «Sir Holland, vostra madre...» inizia a dire.

Ed Elliot lo interrompe in un ringhio disperato, dice: «L'avete uccisa.» Non nota l'espressione perplessa di Louis, tantomeno quella sconvolta di Bruce, che, alle sue spalle, serra i pugni lungo i fianchi. «Avevate detto che sareste stato capace di portarmi via tutto, ogni cosa, e lo avete fatto... Voi l'avete uccisa!» Annaspa, trattiene a stento un singhiozzo. Le lacrime continuano a solcargli le guance, le labbra tremano. «Come avete potuto!»

«Ma di cosa...» Louis non riesce a dire altro. Solleva lo sguardo da Elliot a Bruce. Poi spalanca gli occhi, perché legge una strana ombra sul suo volto imperturbabile. Si sente come mancare e aguzza l'udito. Qualche singhiozzo, il nome di sua madre nelle orecchie.

«Perché lo avete fatto?» grida ancora Elliot, afferrandolo per il farsetto.

Louis batte le palpebre. Sembra confuso, agitato, incredulo. «Cosa è successo a mia madre?» Un soffio, un brivido lungo le braccia. Ignora Elliot e fissa Bruce negli occhi.

Breve, conciso e lapidario, questi dice: «È morta, Sir.»

«Non può essere morta...» nega. Aggrotta le sopracciglia, sente perfino un masso in fondo alla gola. Le parole gli escono a fatica, quando soffia. «Cosa diamine state dicendo? Siete tutti impazziti?» Dalle sue labbra scivola via un suono divertito.

Per Elliot è la conferma, ciò che non avrebbe mai voluto ascoltare: l'emblema della discolpa di Louis Holland. Non l'ha uccisa lui, si dice. Ed è sconvolto, scioccato. Le labbra che tremano, i singhiozzi che gli scuotono le spalle. In un attimo si sente scostare di lato e batte con la schiena contro il muro. Solleva lo sguardo e vede Louis correre lungo le scale: grandi falcate, adrenalina nelle vene. Trattiene il fiato. «Perché è morta?» soffia.

Bruce non risponde. Restringe semplicemente lo sguardo con stizza e risale le scale. Le persone muoiono in continuazione, moccioso, risponde mentalmente.

«Madre!» La voce di Louis riecheggia lungo il corridoio. Supera il vociare della servitù e si fa più forte, più prominente. «Madre!» È un richiamo disperato, un ronzio nelle orecchie di Elliot. «Madre!» Il grido più sofferto di Louis Holland, quello di un comune essere umano a cui viene strappato qualcosa di molto caro, di prezioso e unico.

Ed Elliot lo sa, perlomeno adesso. Deglutisce, risale le scale in quello che ritiene essere un silenzio tombale. Ogni passo è una fitta di dolore, ogni respiro una stilettata. Più trattiene l'aria nei polmoni e più ha voglia di buttarla fuori. Le sopracciglia tremanti, le labbra schiuse, martoriate dai propri morsi. Vacilla lungo il corridoio del piano signorile, poi si ferma appena fuori la porta di Deanna. Tiene lo sguardo basso, vede a malapena i passi svelti dei servi. Infine sente qualcuno dire:

«Fa' andare Bastian dai de Rivière.»

È inutile, si dice Elliot. Non ha bisogno di un medico, è morta. Serra i denti, perfino i pugni lungo i fianchi. Quando chiude totalmente gli occhi, gli sembra di sentire ancora le mani calde di Deanna sulle proprie guance. Non piangere, Elliot, si dice. Echeggia nelle parole che potrebbe riservargli Deanna, infine si azzarda a varcare la soglia. Non sa se i singhiozzi che sente sono davvero quelli di Louis Holland, non sa nemmeno se sia giusto abbassare le difese in vista di un lutto improvviso. Ma reagisce d'istinto: si china al suo fianco, lo abbraccia. Non dice una parola, non fiata, lo stringe e basta.

Louis non dice niente, non lo scansa, né lo scaccia. Ringhia dal dolore, geme, si lamenta, chiama la madre. Gli occhi pieni di lacrime, fissi sul suo corpo, e le labbra tese. Non sa quanto tempo sia trascorso dall'ultima volta che abbia pianto. Per questo ha come l'impressione che sia tutta una grossa farsa e che il tempo si sia appena fermato.

Note:

Ciao, ragazzi!

Quando scrissi questo capitolo nel 2014 fu un momento difficile per me. Pensai alla mia bisnonna, persona per la quale mi ispirai tantissimo per la creazione di Deanna, la forte e grandissima Marchesa. Quindi cercai di essere quanto più fedele possibile al mio dolore nella stesura di questo capitolo. Nella riscrittura, purtroppo, ebbi un'altro lutto, quello di mio nonno - una figura per me importante, davvero tanto importante, che tuttora considero paterna - e penso di averci messo sopra un altro carico da dodici. Non so se sia o meno riuscita a trasmettere tutto questo, ma spero di aver reso quanto più verosimile possibile ciò che provavo in quei due periodi; leggendola oggi, nel periodo in cui sto correggendo, ammetto che mi abbia toccato.

Dopo questo, smisi anche di pubblicare Poison&Wine, nonostante avessi continuato la sua riscrittura sul mio computer. Ero proprio giù...

Mi rimetto a voi, dunque. Ditemi se il capitolo vi è piaciuto e lasciatemi un commento o una stellina!

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